DAN SIMMONS VULCANO (Fires Of Eden, 1994) a Robert Bloch: ci ha insegnato che l'orrore è solo un curioso ingrediente nella più vasta celebrazione di vita, amore, riso 1 E Pele e! La Via Lattea gira. E Pele e! La notte cambia. E Pele e! Il rosso bagliore è sull'isola. E Pele e! L'alba rossa spunta. E Pele e! La luce del sole getta ombre. E Pele e! Il brontolio è nel tuo cratere. E Pele e! Lo uhi-uha è nel tuo cratere. E Pele e! Svègliati, sorgi, ritorna. Hulihia ke au ("La corrente cambia") Dapprima solo il vento urla. Il vento di ponente ha soffiato senza impedimenti sopra seimila chilome- tri d'oceano deserto, incontrando solo onde incappucciate di bianco e di tanto in tanto un gabbiano sperduto, per poi colpire i neri dirupi di lava e i tondeggianti massi, simili a orridi doccioni, che fiancheggiano la semide- serta costa di sudovest dell'Isola Grande, nelle Hawaii. Raggiunto questo ostacolo, ora il vento urla e ulula fra rocce nere e il suo frastuono quasi soffoca il continuo schiantarsi dei frangenti contro le scogliere e lo stormi- re di fronde nell'artificiale oasi di palme dentro il guazzabuglio di lava ne- ra. In queste isole ci sono due tipi di lava, ben descritti dal loro nome ha- waiano: la pahoehoe è in genere lava più vecchia, sempre levigata, indurita in lisce ondulazioni parallele o a treccia; la a'a è lava nuova, frastagliata, tagliente come filo di coltello, sagomata in torri grottesche e in figure che paiono cadute da una cattedrale gotica. Lungo questo tratto di costa del South Kona, la lava pahoehoe corre in grandi fiumane grigie dai vulcani al mare; ma sono le scogliere marine e i vasti campi di a'a a proteggere i cen- tocinquanta chilometri di costa: file su file d'immobili guerrieri di pietra nera dai bordi affilati. E ora il vento urla fra questi labirinti di pietra tagliente, sibila fra gli in- terstizi nelle colonne di a'a e ulula attraverso le fenditure di antichi sfiata- toi di gas e lungo la gola dei condotti di lava vuoti. Mentre il vento si alza, cala la notte. Il crepuscolo è sceso strisciando dai campi costieri di a'a fin sulla cima del Mauna Loa, quattromila metri sul livello del mare. Gran parte del grande scudo vulcanico si erge come una macchia nera che can- cella il cielo a nord e a ovest. A cinquanta chilometri di distanza, sopra l'ampia caldera sempre più buia, basse nubi di cenere vulcanica luccicano di riflessi arancione dovuti a eruzioni fuori vista. — E allora, Marty? Accetti la penalità? I tre uomini sono sagome appena visibili nella luce morente e la loro vo- ce quasi si perde nell'urlo del vento. Il campo da golf disegnato da Robert Trent Jones Jr. è uno stretto, sinuoso percorso di fairway erbosi e di green lisci come tappeti, che serpeggia per chilometri fra la lava a'a, nera e acci- dentata. Le poche palme lungo i fairway si agitano e frusciano nel vento. I tre sono i soli giocatori sul campo da golf. Ormai è buio e le luci del com- plesso turistico Mauna Pele paiono molto distanti dal quindicesimo fair- way, dove i tre si sono raggruppati in modo che vento e frangenti non sof- fochino le parole. Ognuno dei tre ha guidato il proprio golf cart: anche i tre veicoli sembrano addossati l'uno all'altro per resistere al vento. — Ti dico che è in quelle maledette rocce — ripete Tommy Petressio. Il bagliore arancione del vulcano gli arrossa le braccia nude e il viso abbron- zato. Petressio, di bassa statura e dai lineamenti affilati, indossa una sgar- giante tenuta da golf, a quadri gialli e rossi. Tiene calato sugli occhi il ber- retto e ma stica un grosso sigaro spento. — Non è nelle maledette rocce — dice Marty DeVries. Si liscia le ma- scelle, con un raspare d'anelli sulla pelle non rasata. — Be', non è di sicuro nell'erba! — si lamenta Nick Agajanian. Indossa un camiciotto verde chiaro, teso sul ventre massiccio, e larghi calzoncini a quadri che gli arrivano a quindici centimetri dalle ginocchia pallide e ossu- te. Porta anche lunghi calzini neri. — Cazzo, la vedremmo, se fosse nel- l'erba! — soggiunge. — Qui non ci sono arbusti, solo erba del cazzo e roc- ce del cazzo che sembrano merde di pecora pietrificate. — Dove hai mai visto merde di pecora? — ribatte Tommy, girandosi e appoggiandosi al driver di legno. — Ho visto un mucchio di cose di cui di solito non parlo — replica la- mentosamente Nick. — Già, da ragazzo avrai pestato la merda mentre cercavi di fotterti la pe- cora — ribatte Tommy. Con la mano a coppa ripara il fiammifero e cerca per la quinta volta di accendersi il sigaro. Il vento spegne in un attimo il fiammifero. — Merda. — Chiudete il cesso, voi due — dice Marty DeVries. — Cercate la mia pallina. — La pallina è fra le merde di pecora — replica Tommy, senza togliersi di bocca il sigaro — e la stronzissima idea di venire in questo posto del cazzo è stata tua. I tre hanno passato da poco i cinquanta, sono direttori delle vendite di concessionarie d'auto nella zona di Newark e da anni vanno insieme in fe- rie a giocare a golf, a volte in compagnia delle rispettive mogli, a volte del- le amichette del momento, più spesso da soli. — Già, hai scelto proprio un bel posto! — si lamenta Nick. — Tutte quelle stanze vuote e quel cazzo di vulcano e tutto il resto. Marty si avventura al limitare dell'interminabile campo di a'a e con la mazza n. 5 di ferro fruga tra le alte rocce. — Che cazzo vuol dire perché siamo venuti qui? — replica, irritato. — Questo è il complesso turistico più moderno di Hawaii, cazzo. La grossa enchilada di Trumbo... — Sì — ride Tommy. — Guarda quanto gli è servita, a Big T. — Che cazzo c'entra — replica Marty DeVries. — Aiutatemi a trovare la pallina. — Passa fra due macigni di a'a che paiono due Volkswagen a ruote all'aria. In quel punto il terreno è quasi tutta sabbia. — Ah, no — dice Nick. — Ti prendi la penalità e basta, Marty. Adesso è proprio buio. Non ci vedo a un metro dal naso. — Grida le ultime parole per superare il rumore del vento e dei frangenti, mentre Marty si addentra nel labirinto di rocce. Il quindicesimo fairway corre lungo le scogliere a sud dell'oasi di palme che è la parte principale del complesso turistico; alte onde si schiantano a una decina di metri dal punto dove si trovano i tre. — Ehi, qui c'è una specie di sentiero che scende verso l'acqua — grida Marty DeVries. — Mi pare di vedere la... no, merda, solo una penna di gabbiano o chissà cosa. — Vieni via da lì e prenditi la penalità, cazzo — urla Tommy. — Nick e io là non ci veniamo. Quelle rocce sono taglienti come rasoi. — Ha ragione — grida Nick Agajanian verso il guazzabuglio di scorie nere. Ormai perfino il berretto giallo di Marty è fuori vista. — Il merdoso non ci sente — dice Tommy. — Il merdoso ci lascerà qui da soli a cercare la strada — si lamenta Nick. Il vento gli strappa il berretto e lui corre sul fairway per riprenderlo; alla fine riesce a bloccarlo quando il berretto va a sbattere contro un golf cart. Tommy Petressio fa una smorfia. — Non ci si può perdere in un cazzo di campo da golf! Nick torna, tenendo stretti il berretto e una mazza n. 6 di ferro. — Certo che ci si può perdere in quella... — Col manico della mazza indica il cam- po di a'a e i rumorosi frangenti. — In quella pietraia di merde di pecora. Tommy cerca di nuovo di accendersi il sigaro. Il vento gli spegne il fiammifero. — Merda. — Là io non ci vado — dice Nick. — Cazzo, come minimo mi ci rompo una gamba. — Magari ti morsica un serpente. Nick arretra di un passo dal mucchio di ceneri nerastre. — Nelle Hawaii non ci sono serpenti. Ci sono? Tommy allarga le braccia. — Solo quei boa lunghi così. E i cobra... mi- gliaia di cobra. — Stronzate. — Ma il tono di Nick è dubbioso. — Oggi non hai visto tra i fiori quegli animali che parevano donnole? Quelli che Marty ha chiamato manguste. — E allora? — Nick si guarda indietro, da sopra la spalla. L'ultimo chia- rore del crepuscolo ha lasciato posto alla notte e si vedono le stelle, lonta- no, sull'oceano. Le luci del Mauna Pele sembrano lontanissime. Verso sud, lungo la costa, non c'è nemmeno un riflesso luminoso. A nordovest il ba- gliore del vulcano è offuscato. — Allora? — Sai cosa mangiano le manguste? — More e merde? Tommy scuote la testa. — Serpenti. Cobra, soprattutto. — Cazzo, alziamo i tacchi — dice Nick. Poi si blocca. — Aspetta un minuto. Mi pare d'avere visto qualcosa in TV. Quelle donnole... — Manguste. — Come cazzo si chiamano. Quelle manguste stanno in India. All'ango- lo delle vie i turisti pagano per guardarle mangiare i cobra o cose del gene- re. Tommy annuisce con aria saggia. — Qui il problema dei serpenti è così serio che Trumbo e gli altri impresari hanno dovuto importare manguste a vagonate. Altrimenti quando ti svegli ti trovi con un boa intorno alle cavi- glie e un cobra che ti azzanna l'uccello. — Dici solo stronzate — replica Nick, ma intanto ha mosso un passo verso il suo golf cart. Tommy scuote la testa e s'infila il sigaro nel taschino della camicia. — Una vera idiozia. Troppo buio per finire la partita. Se andavamo a Miami come al solito, avevamo un campo illuminato per tutta la notte. Invece siamo qui, in mezzo a... — Con un gesto d'esasperazione indica i campi di lava e il nero arco del vulcano in lontananza. — In mezzo a una merdosa popolazione di serpenti — termina Nick, se- dendosi sul golf cart e rimettendo nella sacca la mazza n. 6. — Lasciamo perdere tutto, torniamo in albergo e cerchiamo un bar. — E subito, anche — conviene Tommy, dirigendosi al proprio golf cart. — Se domani Marty non è ancora tornato, vedremo se è il caso di dirlo a qualcuno. Proprio in quel momento cominciano le urla. Marty DeVries aveva seguito quello che pareva un sentiero fra i massi di a'a, una tortuosa striscia di sabbia e d'erba stenta fra i mucchi di scorie ne- re. Era sicuro che la pallina fosse finita da quella parte: se solo l'avesse trovata sulla sabbia, avrebbe potuto rimandarla sul fairway e salvare un poco la faccia in quella partita del cazzo. Diavolo, anche se non fosse stata sulla sabbia, avrebbe potuto mettercela e tirare il colpo. Anzi, non doveva neppure tirarla con la mazza, solo lanciarla a mano... Nick e Tommy erano troppo cacasotto per seguirlo, avrebbero solo visto una pallina tirata alla perfezione uscire dalla merda di lava e cadere sul fairway, pronta per un facile colpo fino al green. Aveva avuto un bel braccio, quando lanciava per la Legion a Newark. Diavolo, a pensarci bene non doveva nemmeno trovare la maledetta pal- lina. Tolse di tasca una Wilson professionale, dello stesso numero che usa- vano in quel momento. Poi si girò per lanciarla nel campo da golf. Da quale parte era, il cazzo di campo? I mucchi di cenere e di massi ammonticchiati gli avevano fatto perdere l'orientamento. Poteva vedere le stelle. Il "sentiero" adesso non era molto chiaro... c'erano piste di sabbia in tutte le direzioni. Quel posto era un vero maledetto labirinto. — Ehi! — gridò Marty. Appena avesse udito la voce di Tommy o di Nick, avrebbe lanciato la pallina in quella direzione. Nessuno rispose. — Ehi, piantatela di rompere il cazzo, sacchi di merda. Si rese conto di trovarsi più vicino alla scogliera, in quel punto: il frago- re dei frangenti era più intenso. Probabilmente quei due idioti non lo senti- vano a causa di quel cesso di vento e di quei cessi di onde che si frangeva- no su quei cessi di rocce. Rimpianse di non essere andato a Miami come al solito. — Ehi! — gridò ancora, con voce che parve debole alle sue stesse orec- chie. I mucchi di cenere vetrificata si alzavano per tre metri o più; la pomi- ce nerastra era illuminata dal maledetto bagliore arancione del vulcano. L'impiegata dell'agenzia turistica aveva parlato del vulcano attivo, ma ave- va detto che si trovava molto lontano verso il lato sud dell'isola e che non c'era il minimo rischio. Aveva detto che la gente andava in massa all'Isola Grande proprio per la piccola eruzione... la gente compariva a branchi, o- gni volta che il vulcano presentava la minima attività. Aveva detto che i vulcani di Hawaii non facevano mai male a nessuno, erano solo graziosi spettacoli pirotecnici. "Allora come mai il maledetto Mauna Pele di Trumbo è così vuoto?" In- dirizzò il pensiero all'impiegata dell'agenzia turistica. Si augurò d'averglie- lo trasmesso. — Ehi! — gridò ancora. Udì un rumore alla sua sinistra. Dalla parte della scogliera. Pareva un gemito. — Era ora, brutti stronzi — borbottò. Uno dei due buffoni, forse anche l'altro, era sceso a cercarlo fra le merde di pecora e si era fatto male. Forse si era storto la caviglia o rotto la gamba. Marty si augurò che fosse toccato a Nick: preferiva giocare con Tommy; sarebbe stato un supplizio, passare il resto delle ferie ad aspettare che Nick togliesse ogni volta la pallina dalle trappole di sabbia. Il gemito si ripeté, così fioco da riuscire percettibile tra il rumore dei frangenti e del vento. — Arrivo! — gridò Marty. Procedette con grande cautela sul terreno in leggera pendenza fra i cumuli di lava. Rimise in tasca la pallina e usò la mazza n. 5 come una sorta di bastone da passeggio. Impiegò più tempo di quanto non avrebbe creduto. Quello dei due idioti che era venuto lì a infortunarsi, si era perduto davvero. Marty si augurò di non doverlo portare di peso fuori da quel merdaio. Udì ancora il gemito, che terminò in una sorta di sospiro sibilante. "E se non è Nick e neanche Tommy?" pensò all'improvviso. Non gli piacque proprio, l'idea di trasportare fuori da quella pietraia un povero i- diota che nemmeno conosceva: era venuto in quella stronzissima isola per giocare a golf, non per fare il buon samaritano. Se si trattava di uno stron- zo del posto, gli avrebbe detto di stare calmo e sarebbe tornato al bar del- l'albergo. Quel cesso d'impianto era quasi vuoto, ma ci sarebbe stato un addetto al recupero degli stronzi feriti. Il gemito sibilante si ripeté. — Eccomi, eccomi — brontolò Marty. Ora sentiva nell'aria gli spruzzi dei frangenti. La scogliera era lì, da qualche parte; una scogliera bassa, non più di tre metri sul livello del mare. Meglio fare attenzione. Si vedevano le stelle. Per rovinare del tutto le ferie ci mancava solo di cadere a capofitto da una scogliera nello stronzissimo oceano Pacifico. — Arrivo! — ansimò Marty, mentre il gemito si ripeteva. Proveniva da dietro quel cumulo di roccia nera. Marty sbucò in uno spazio aperto fra le rocce di a'a e si fermò sulla sab- bia. C'era proprio un corpo disteso per terra. Non era Nick, né Tommy. Ed era un cadavere, non un essere vivente. Marty aveva già visto dei cadaveri: quello là era morto. Chiunque avesse emesso i gemiti, non era certo quel povero stronzo. Il cadavere era seminudo, aveva solo intorno ai fianchi un pezzo di stof- fa bagnata. Marty si avvicinò e vide che si trattava di un uomo: basso, tar- chiato, con i muscoli del polpaccio ben delineati, come quelli di un podista o di un atleta. Pareva che fosse lì da un po' di tempo: la pelle, bianca e gommosa, quasi si squamava per la decomposizione; le dita parevano larve biancastre che da un momento all'altro si sarebbero contorte per infilarsi di nuovo nella sabbia. Un paio d'altri particolari indicava che a gemere non era stato di sicuro quel poveraccio: nei lunghi capelli erano aggrovigliate alghe marine; le palpebre erano aperte, un occhio rifletteva come vetro la luce delle stelle, l'altro mancava del tutto; dalla bocca strisciava fuori un granchietto o chissà cosa. Marty soffocò un conato di vomito e si avvicinò di un passo, tenendo da- vanti a sé la mazza n. 5. Ora sentiva il puzzo, una nauseante e dolciastra mistura di salmastro e di putredine. Di sicuro erano state le onde a spinger- lo fin lì, perché il cadavere giaceva su bassi e aguzzi spuntoni di lava, si- mili a stalattiti o stalagmiti o come diavolo si chiamavano. Con la punta della mazza Marty toccò il cadavere, che si spostò un poco avanti e indietro, pesantemente, sciaguattando come se fosse pieno d'acqua di mare. — Cristo! — mormorò Marty. Il cadavere era una sorta di nanerottolo gobbo. A meno che non gli avessero rotto e piegato la spina dorsale sbat- tendolo dopo la morte contro le rocce, in vita il poveraccio aveva avuto una gobba degna di Quasimodo. E su quella gobba c'era una sorta di stravagante tatuaggio. Marty si sporse a guardare, puntellandosi sulla mazza, cercando di non sentire il puzzo per non vomitare. Sulla gobba c'era un pazzesco tatuaggio, certo: la figura di una bocca di pescecane, che si estendeva sull'ampia prominenza fra le scapole e scom- pariva sotto le braccia. Era davvero bizzarra, quasi tridimensionale: chi a- veva eseguito il tatuaggio aveva usato inchiostro nero per il contorno delle fauci spalancate e inchiostro bianco per i denti. "Un indigeno" pensò Marty. Sarebbe tornato in albergo, con Nick e Tommy; avrebbe bevuto un paio di scotch e avrebbe detto al personale che un indigeno era caduto dalla sua canoa a bilanciere o che diavolo usavano. Avrebbe detto che non c'era fretta, che quel poveraccio non sarebbe più andato da nessuna parte. Si rialzò e con la mazza metallica n. 5 toccò la gobba, proprio sul nero della bocca. La punta della mazza scivolò in una cavità. — Merda! — disse Marty, ritirando di scatto la mazza. Non abbastanza rapidamente: le fauci di squalo si chiusero sulla mazza metallica. Marty udì lo schiocco di denti affilati su acciaio al carbonio. Commise l'errore di sprecare istanti preziosi per tirare via la mazza (era un regalo di Shirley, la sua attuale amichetta) ma poi si rese conto di che cosa stava facendo, capì che avrebbe perduto quel tiro alla fune, lasciò an- dare il manico della n.5 metallica come se fosse stato un attizzatoio roven- te e si girò per scappare. Dopo neppure tre passi si bloccò, accorgendosi di un movimento fra le rocce. — Tommy? — chiamò con un filo di voce. — Nick? — Vide subito che non si trattava né di Tommy né di Nick. Le sagome scivolarono nello spiazzo fra le rocce di a'a. "Non devo urlare" pensò Marty, sentendo il proprio coraggio colare via con l'urina che gli scendeva lungo la gamba dei calzoni. "Non devo urlare. Non è reale. È uno stupido scherzo, come quella volta che Tommy ha por- tato alla mia festa di compleanno una puttana vestita da sbirro. Non devo urlare." Mosse cautamente un passo indietro, a bocca spalancata, col respi- ro ansimante. Denti di squalo gli serrarono la caviglia. Marty iniziò a urlare. Quando iniziano le urla, Tommy e Nick hanno appena raggiunto i golf cart. Tutt'e due si fermano e tendono l'orecchio. Il rumore del vento è forte, lo schianto dei frangenti è assordante: di sicuro le urla sono acutissime, per superare quel frastuono. Tommy si gira verso Nick. — Cazzo, vuoi vedere che si è rotto una gamba? Nick si siede nel golf cart; schermato dal riflesso arancione del vulcano, ora è cereo. — O forse è stato morsicato da un serpente. Tommy toglie dal taschino il sigaro e lo stringe fra i denti. — Non ci so- no serpenti nell'isola, sacco di merda. Prima scherzavo. Nick lo fulmina con un'occhiata. Tommy sospira e si avvia verso il labirinto di lava. — Ehi — dice Nick. — Vai tra quelle merde di pecora? Tommy si ferma proprio sul limitare della a'a. — Cosa suggerisci... lo abbandoniamo? Nick rifletté per un secondo. — E se andiamo a cercare aiuto? Tommy fa una smorfia. — Già e poi torniamo e nel buio non lo trovia- mo e voliamo a casa a dire a Connie e a Shirley che abbiamo lasciato Marty là fuori a morire? No no. E poi, probabilmente il povero stronzo si sarà solo incagliato in un buco fra le rocce o qualcosa del genere. Nick annuisce, ma resta nel golf cart. — Vieni? — dice Tommy. — O te ne resti lì e lasci che per il resto della tua miserabile vita Marty ti consideri un fior di fichetta? Nick rifletté per un minuto, annuisce tra sé, scende dal golf cart. Muove qualche passo verso il campo di lava, torna al golf cart, prende una mazza metallica e attraversa la fascia d'erba per raggiungere Tommy. — A cosa ti serve quella merda? — Non so — dice Nick. — Forse laggiù c'è qualcuno. — Ora dal campo di lava non provengono urla. — Già, c'è Marty. — Qualcun altro, volevo dire. Tommy scuote con disgusto la testa. — Guarda che questa è Hawaii, non Newark. Se là c'è qualcuno, possiamo vedercela. — Cammina fra le rocce, seguendo la pista che le scarpe da golf di Marty hanno lasciato sulla sabbia bianca. Qualche istante dopo, ricominciano le urla. Due voci, stavolta. Sul fair- way non c'è nessuno che possa udirle e gli edifici del Mauna Pele sono so- lo luci lontane nascoste dalle fronde di palma scosse dal vento. Il vento fi- schia tra la porosa a'a. I frangenti si scatenano contro la spiaggia fuori vi- sta. Nel giro di un altro paio di minuti le urla cessano e solo il vento e i fran- genti riempiono la notte di suoni simili a lamentosi richiami di spiriti dan- nati. 2 Famosi sono i figli di Hawai'i sempre fedeli alla terra quando giunge il messaggero dal cuore maligno, col suo avido attestato d'alterazione. ELLEN WRIGHT PENDERGAST Mele 'Ai Pohaku ("Canto Mangiapietre") Su Central Park nevicava. Dal cinquantunesimo piano del suo grattacie- lo, una torre d'acciaio, vetro e pietra, Byron Trumbo guardava la neve ve- lare gli alberi dello Sheep Meadow, simili a neri scheletri, molto più in basso, e cercava di ricordare quand'era stata l'ultima volta in cui aveva pas- seggiato nel parco. Parecchi anni prima. Forse quando non aveva ancora accumulato il suo primo miliardo. Sì, ora ricordava: era stata quattordici anni fa, quando di anni lui ne aveva ventiquattro ed era appena arrivato in città, inesperto e tronfio per i grandi guadagni con la S&L a Indianapolis, pronto a dare l'assalto a New York. Ricordava d'avere alzato gli occhi ver- so le torri che si stagliavano su Central Park e di essersi domandato in qua- le di esse avrebbe avuto i propri uffici. In quel lontano giorno di primavera non aveva neppure immaginato che si sarebbe fatto costruire il suo gratta- cielo personale di cinquantatré piani, che avrebbe occupato con gli uffici gli ultimi quattro e stabilito nell'attico la propria residenza. I critici d'architettura definivano il grattacielo di Trumbo "quella mo- struosità fallica"; tutti gli altri lo chiamavano "Big T". Alcuni avevano pro- vato a chiamarlo Torre Trumbo, ma la somiglianza con l'edificio che pren- deva il nome da Donald Trump aveva indotto Byron a schiacciare subito e per sempre quel tentativo. Lui odiava Donald Trump ed evitava qualsiasi collegamento con quell'uomo. Inoltre, Big T descriveva meglio l'aspetto del grattacielo di Trumbo: un gigantesco edificio di vetro e acciaio, con gli ultimi cinque piani sporgenti tutt'intorno, che secondo l'idea di Trumbo doveva assomigliare al ponte della più alta nave del mondo. E poi, Big T era sempre stato il nomignolo di Byron Trumbo, da quando lui aveva tre- dici anni. Al momento Trumbo pedalava sulla cyclette posta nell'angolo della sporgenza della T, proprio dove due vetrate, che andavano dal pavi- mento al soffitto, si univano ad angolo acuto, tanto che la sala pareva col- locata su di un piccolo promontorio coperto da un tappeto, cinquantun pia- ni sopra la Quinta Strada e il parco, e ne dava a Trumbo la sensazione. Fiocchi di neve risalivano a qualche centimetro dalle vetrate, sulle correnti ascensionali lungo la facciata dell'edificio. In quel momento la neve era così fitta che Trumbo riusciva appena a distinguere i neri bastioni del grat- tacielo Dakota, sul lato ovest del parco. Però in quel momento Trumbo non guardava fuori. A testa china, usava il telefono a cuffia e alternava ai commenti nel piccolo microfono gli ansiti per riprendere fiato tra una furiosa pedalata e l'altra. La sua T-shirt di coto- ne mostrava chiazze di sudore sul petto robusto e fra le scapole. — Cosa significa che altri tre ospiti sono scomparsi? — protestò Trum- bo, brusco. — Significa che altri tre ospiti sono scomparsi — fu la risposta di Ste- phen Ridell Carter, il direttore dell'impianto turistico Mauna Pele, di pro- prietà di Trumbo, nell'Isola Grande delle Hawaii. La voce di Carter aveva un tono stanco. A New York erano le otto e mezzo del mattino, quindi nel- le Hawaii erano solo le tre e mezzo. — Cazzo. Come fai a sapere che sono scomparsi? Forse sono da qualche parte, fuori del comprensorio. — Non sono usciti — disse Carter. — C'è sempre un uomo al cancello, ventiquattro ore su ventiquattro. — Allora forse sono ancora nel comprensorio, ma nella come cazzo si chiama... nella hale di qualcun altro. Quegli affari che sembrano capanne di paglia. Non ci hai pensato? Ci fu una breve serie di scariche che forse coprì un sospiro. — Quei tre erano usciti per un'ultima partita prima di sera, signor Trumbo. Proprio al crepuscolo. Alle dieci non erano ancora rientrati e i nostri ragazzi sono an- dati a cercarli. Hanno trovato i loro golf cart nei pressi della quattordicesi- ma buca. C'erano anche le mazze... alcune nei golf cart, altre sparse in giro nella pietraia vicino alla scogliera. — Cazzo — ripeté Byron Trumbo. Indicò a Will Bryant di avvicinarsi e con pollice e mignolo distesi gli segnalò di prendere il telefono. Il suo di- rettore generale annuì e prese la derivazione mobile. — Gli altri non sono scomparsi lungo il percorso del golf, giusto? — proseguì Trumbo. — No — rispose stancamente Carter. — Le due californiane del novem- bre scorso furono viste per l'ultima volta sul sentiero da jogging nel campo di petroglifi. La famiglia Myers, genitori e figlia di quattro anni, passeg- giavano di sera nei pressi del laghetto delle mante. Il cuoco, Palikapu, tor- nava a casa lungo la scogliera a sud del campo da golf. Will Bryant alzò cinque dita della mano libera e quattro di quella che reggeva la derivazione. — Già, così sono nove — riconobbe Trumbo. — Prego, signor Trumbo? — disse Carter, superando il crepitio delle scariche. — Niente. Stammi a sentire, Steve, devi tenere questa storia lontano dai giornali per un paio di giorni. Seguì un rumore che forse era uno sbuffo d'incredulità. — Tenere lonta- no la stampa? Signor T, come vuole che ci riesca? I cronisti hanno contatti con gli sbirri. La polizia di Stato, la locale squadra omicidi di Kailua-Kona e Fletcher, il tizio dell'Fbi, sciameranno di nuovo nel comprensorio appena faremo rapporto, stamattina. — Non fare rapporto — disse Trumbo. Smise di pedalare e trasse pro- fondi respiri. Più in basso, le nuvole arrivavano contro l'edificio. Silenzio. — Sarebbe contro la legge, signor Trumbo — disse infine Car- ter. Byron Trumbo coprì con la mano sudata il microfono. Guardò Will Bryant. — Chi ha assunto quello sminchiato? — Lei — rispose Will. — L'ho assunto e lo licenzio. — Tolse la mano dal microfono. — Steve, mi senti? — Sì, signor Trumbo. — Sai dell'incontro col gruppo Sato a San Francisco domani? — Sì, signor Trumbo. — Sai quant'è importante per me sbarazzarmi di quel cazzo d'albergo mangiasoldi prima di perdere metà del nostro capitale per continuare a mandarlo avanti? — Sì, signor Trumbo. — E sai quanto sono idioti quei coglioni di Hiroshe Sato e dei suoi inve- stitori? Carter rimase in silenzio. — Quelli si sono smenati metà dei loro soldi comprando in blocco a Los Angeles negli anni Ottanta — disse Trumbo. — E ora sono pronti a perde- re l'altra metà comprando il Mauna Pele e altri impianti fallimentari delle Hawaii negli anni Novanta, Steve, ma... Steve? — Signore? — Saranno anche idioti, ma non sono sordi e ciechi. L'ultima scomparsa risale a tre mesi fa... e forse quelli credono che sia acqua passata. La poli- zia ha preso quel separatista hawaiano... come si chiama? — Jimmy Kahekili — disse Carter. — Ma Jimmy non ha potuto pagare la cauzione ed è ancora dentro, a Hilo, perciò non lo si può incolpare di... — Non me ne frega un cazzo, finché i giapponesi pensano che l'assassi- no è chiuso da qualche parte — lo interruppe Trumbo. — I giap sono co- nigli merdosi, Steve. I loro turisti hanno paura di andare a L.A., hanno paura di andare a Miami, hanno paura di venire qui a New York... merda, se la fanno sotto se devono andare nella maggior parte degli Stati. Ma non nelle Hawaii. Immagino che secondo loro nelle Hawaii le pistole non esi- stano. Oppure, visto che ne possiedono la metà, pensano che le isole non siano piene di americani pazzi. Comunque, voglio che Sato e il suo gruppo pensino che Jimmy Kaheka-come-cazzo-si-chiama sia il killer e questo è tutto, finito. Almeno fino alla conclusione delle trattative. Tre giorni, Ste- ve. Forse quattro. È chiedere troppo? Silenzio. — Steve? — Signor Trumbo — disse stancamente Carter — sa quant'è stato duro trattenere la manodopera locale, dopo le altre sparizioni. Dobbiamo farla venire in autobus da Hilo. E ora che il vulcano... — Ehi — lo interruppe Trumbo — proprio il vulcano doveva riempire il villaggio, giusto? Non l'avevamo già detto? Allora dove cazzo sono i clien- ti, ora che il vulcano fa la sua parte? — ... ora che il vulcano ha tagliato la Statale 11 dobbiamo far venire aiu- tanti temporanei addirittura da Waimea — continuò Carter. — I ragazzi che hanno trovato i golf cart ne hanno già parlato agli amici. Anche se in- frango la legge e non riferisco niente, non c'è modo di tenere segreta que- sta storia. E poi, gli scomparsi hanno famiglia, amici... Trumbo strinse il manubrio della cyclette, con tanta forza da farsi sbian- care le nocche. — Per quanto tempo avevano prenotato quei coglioni... quei clienti, Steve? Pausa. — Sette giorni, signore. — E da quanti giorni erano lì, prima di sparire? — Solo da oggi pomeriggio, signore... cioè, da ieri pomeriggio. — Quindi nessuno si aspetta che tornino prima di sei giorni? — No, signore, però... — Dammi tre di quei sei giorni, Steve, d'accordo? Fruscio di scariche. — Signor Trumbo, non posso prometterle più di ventiquattro ore. Le giustificheremo come controllo interno per assicurarci che quei tre siano davvero spariti, ma oltre questo... C'è di mezzo l'Fbi, si- gnore. I federali non sono stati contenti del nostro aiuto in occasione delle precedenti sparizioni. E penso che noi... — Sta' zitto un minuto — disse Trumbo. Spense il microfono, servendo- si del pulsante nell'apparecchio agganciato alla cintura, e si rivolse a Bryant. — Will? Il direttore generale mise a zero il volume del suo telefono. — Penso che Carter abbia ragione, signor T — disse. — In ogni caso, la polizia verrà a saperlo in un paio di giorni al massimo. Se penserà che cerchiamo di na- scondere qualcosa, be'... sarà ancora peggio. Byron Trumbo annuì e guardò il parco in basso. I fiocchi di neve cade- vano sui prati come nere stelle filanti di carta crespata. Il lago era uno stemma bianco. Quando rialzò gli occhi, Trumbo aveva sulle labbra un lieve sorriso. — Will, quali sono i programmi per i prossimi giorni? Il direttore generale non ebbe bisogno di consultare l'agenda. — A tarda notte il gruppo Sato atterra a San Francisco. Domani lei ha in programma un incontro con loro al nostro quartier generale sulla West Coast, per l'ini- zio delle trattative. Al termine, se siamo d'accordo, Sato vuole portare i suoi investitori al Mauna Pele, a giocare a golf per un paio di giorni, prima del ritorno a Tokyo. Trumbo allargò il sorriso. — Ancora non hanno lasciato Tokyo? Will guardò l'orologio. — No, signore. — Chi c'è con loro? Bobby? — Sì. Bobby Tanaka è il nostro uomo migliore laggiù... sia per parlare giapponese sia per negoziare con giovani miliardari tipo Sato. Trumbo annuì con impazienza. — Sì, sì, ecco cosa facciamo. Chiama Bobby e digli che l'incontro è spostato al Mauna Pele. Faremo lì le trattati- ve e intanto li lasceremo giocare a golf. Will si aggiustò la cravatta. A differenza del suo capo, che di rado porta- va giacca e cravatta, Bryant indossava un completo firmato Armani. — Penso di capire... — Certo che hai capito — sogghignò Trumbo. — Qual è l'unico posto dove possiamo controllare le notizie? Proprio l'impianto turistico. Will Bryant esitò. — Ai giapponesi non piacciono i cambiamenti di pro- gramma... Trumbo saltò giù dalla cyclette, camminò sull'ampio tappeto, prese dal trespolo accanto alla scrivania un asciugamano e si asciugò la fronte. — Al diavolo quello che non gli piace. Inoltre... ehi... il vulcano è in piena attivi- tà, vero? — Tutt'e due i vulcani, credo — disse Will. — Sono trascorse decine d'anni da quando... — Sì, sì — lo interruppe Trumbo. — Potrebbe non accadere più nella nostra vita, non ha detto così il nostro esperto di vulcani, Hastings? Riattivò la comunicazione. — Steve, ragazzo, sei ancora lì? — Sì, signore — disse Stephen Ridell Carter, di quindici anni più anzia- no di Byron Trumbo. — Sta' a sentire, devi darci ventiquattro ore. Comincia un'indagine inter- na, metti sottosopra il villaggio, fai tutto il necessario perché sembri a re- gola d'arte. Poi chiama la polizia. Ma devi darci ventiquattro ore prima che la merda schizzi da tutte le parti. D'accordo? — Sì, signore. — Nel tono non c'era il minimo entusiasmo. — E dai una rinfrescata alla Suite Presidenziale e alla capanna riservata a me. Sarò lì prima di sera e il gruppo Sato dovrebbe arrivare più o meno alla stessa ora. — Qui, signore? — Dal tono parve che Carter si fosse svegliato di col- po. — Già, lì, Steve, e se vuoi il tuo uno percento dell'affare, per non parlare del tuo dorato paracadute, farai meglio a tenere tutto in ordine e calmo e normale mentre saremo lì ad ammirare il vulcano e a concludere l'affare. Poi... appena i nostri legali finiranno di mettere i puntini sulle i, per quanto mi riguarda puoi anche lasciare che gli assassini se la prendano con i giap. Ma non prima che l'affare sia concluso, comprende? — Sì, signore. — Il tono era teso. — Ma non dimentichi, signor Trum- bo, che qui abbiamo solo una trentina di clienti. La pubblicità è stata nega- tiva... Insomma, quelli del gruppo Sato non potranno non notare che circa cinquecento, fra stanze e hale, sono vuote. Voglio dire... — Diremo che abbiamo mandato via i clienti in loro onore. Diremo che non potevamo trascurare l'occasione per ammirare il merdoso vulcano. Non m'interessa cosa diremo, a patto di riuscire a vendere quello schifo di posto. Fai tutto il necessario per tenere la situazione sotto controllo finché non arriviamo, Steve. — Sì, signore, ma penso che... Trumbo tolse la comunicazione. — Will, elicottero pronto fra venti mi- nuti. Chiama il campo, voglio che il Gulfstream sia pronto a partire appena arrivo. Telefona a Bobby e digli che perde il posto se non convince il gruppo Sato a cambiare volentieri destinazione. Poi chiama Maya... no, la chiamo io. Chiama Bicki e dille che devo stare via per un paio di giorni. Manda l'altro Gulfstream a prelevarla e a portarla alla casa di Antigua; in- venta una scusa e dille che la raggiungo appena ho terminato. E... merda, Cait dov'è? — Qui a New York, signore. A colloquio con i suoi legali. Trumbo sbuffò villanamente. Entrò nella stanza da bagno tutta vetri e marmo, dietro la scrivania. La parete esterna della doccia guardava sul parco. Trumbo si tolse calzoncini e maglietta, aprì l'acqua. — 'Affanculo i legali. 'Affanculo anche lei. Tu bada solo che non venga a sapere dove mi trovo e dove si trova Maya, va bene? Will annuì e seguì il gran capo nella stanza da bagno. — Signor T, il vulcano mostra davvero segni di attività. Da sotto il getto d'acqua, Trumbo sporse la testa e le spalle irsute. — Cosa? — Ho detto che il vulcano fa davvero i capricci. Secondo il dottor Ha- stings, l'attività sismica è la più intensa dal 1920 lungo la faglia tettonica di sudovest... forse la più intensa di questo secolo. Trumbo alzò le spalle e tornò con la testa sotto il getto d'acqua. — E al- lora? — gridò. — Proprio l'attività del vulcano doveva riempirci di turisti, no? — Sì, ma c'è un guaio con... Trumbo non lo ascoltava. — Parlerò a Hastings dall'aereo — gridò, col viso sotto l'acqua. — Tu chiama Bicki. Di' a Jason di prepararmi la valigia per le Hawaii entro cinque minuti e informa Briggs che verrà solo lui. Non voglio che troppe guardie del corpo spaventino i giap. — Le sembra una buona idea... — cominciò Will. — Forza, Will, muoviti — disse Byron Trumbo. Sempre sotto il getto, alzò le mani contro la parete di vetro imperlata di goccioline e guardò il parco. — Venderemo quel merdoso impianto fallimentare al più stupido gruppo di giap mai nato da quando quell'idiota di generale consigliò a Hi- rohito di bombardare Pearl Harbor... e useremo quei soldi per iniziare il nostro rilancio. — Si girò fra gli spruzzi e guardò il suo direttore generale. L'acqua gli schizzò come saliva dalle labbra tumide. — Muoviti, Will! Will Bryant si mosse. 3 Ho sempre desiderato ardentemente il privilegio di vivere in eterno lontano da qui, in una di quelle montagne delle isole Sandwich che dominano il mare. MARK TWAIN Una volta, alla domanda sul perché non volesse mai prendere l'aereo, la settantaduenne zia di Eleanor Perry, Beanie (aveva settantadue anni quan- do le fu fatta la domanda, adesso ne aveva novantasei e viveva ancora per conto suo) prese un libro sulla tratta degli schiavi e mostrò alla nipote l'il- lustrazione raffigurante schiavi ammassati fra "ponti" alti non più di un metro. — Vedi come dovevano stare distesi, testa contro testa, piedi contro pie- di, incatenati e a bagno nella propria sporcizia durante il lungo viaggio? — aveva detto zia Beanie, indicando con la mano già allora ossuta e mac- chiettata per l'età, quella che Eleanor, da bambina, definiva "mano come la minestra di lenticchie". Quella volta, ventiquattro anni prima, quando ne aveva appena compiuti ventuno e solo da poco si era diplomata a Oberlin (nella stessa scuola dove ora insegnava), Eleanor aveva guardato l'illustrazione della nave negriera, con gli africani impilati come legna in cataste; aveva arricciato il naso e aveva detto: — Vedo, zia Beanie. Ma cosa c'entra col tuo rifiuto di andare in aereo in Florida a trovare zio Leonard? Zia Beanie aveva scosso la testa. — Sai perché mettevano così quei po- veri negri, come tanti barilotti di melassa, pur sapendo che metà di loro sa- rebbe morta durante la traversata? Eleanor aveva fatto un cenno di diniego e aveva arricciato il naso alla parola "negri". Quando Eleanor si era diplomata a Oberlin quell'anno, il 1970, la definizione "politically correct" non era stata ancora coniata; ma, termine a parte, era già poco corretto dire "negri"; e se da un lato lei sape- va di non avere mai conosciuto una persona con meno pregiudizi di zia Beanie, dall'altro l'anziana signora tradiva col suo modo di parlare il fatto d'essere nata prima dell'inizio del secolo. Eleanor aveva domandato: — Perché mettevano così i neri, come tanti barilotti di melassa? — Denaro — aveva risposto zia Beanie, ritraendo la mano ossuta e chiu- dendo rumorosamente il libro. — Guadagno. Se ammassavano a quel mo- do seicento africani e trecento morivano, avevano ancora un buon guada- gno, superiore a quello che avrebbero avuto se ne avessero imbarcati quat- trocento che viaggiassero come esseri umani e ne avessero perduti cento- cinquanta. Puro e semplice guadagno. — Continuo a non capire perché... — aveva cominciato Eleanor. Si era interrotta: aveva intuito dove la zia voleva arrivare. — Zia Beanie, gli aerei non sono così affollati! L'anziana signora non aveva replicato, si era limitata a inarcare il soprac- ciglio. — Be', sì, sono affollati — aveva concesso Eleanor. — Ma per andare in Florida basta qualche ora d'aereo; se ti farai portare in auto dal cugino Dick impiegherai due o addirittura tre giorni... — Si era interrotta, veden- do zia Beanie posare la mano sul libro sulla tratta degli schiavi, come per dire: "Credi che avessero poi tanta fretta di giungere dov'erano diretti?". Ora, ventiquattro anni dopo, seduta nella classe economica del Boeing 747 a capienza maggiorata, compressa fra due grassoni al centro della fila di cinque sedili, Eleanor ascoltava il mormorio di trecento e passa persone incuneate dietro di lei. Sporse la testa sopra l'alto schienale del sedile di fronte per guardare le tremolanti immagini del film molto tagliato e si rese conto che ancora una volta zia Beanie aveva avuto ragione. "Il modo di giungere alla meta" pensò "di solito è importante quanto la meta stessa." Ma non stavolta. Eleanor sospirò, si piegò con impaccio per estrarre da sotto il sedile di fronte la valigetta, vi frugò per cercare il piccolo diario di zia Kidder rile- gato in pelle e armeggiò per accendere la luce di lettura posta in alto. Il grassone alla sua destra, che dormiva e russava come un asmatico, posò l'avambraccio sudato sul bracciolo di Eleanor e costrinse quest'ultima a spostarsi un poco verso il grassone alla sua sinistra. Eleanor aprì il diario alla pagina giusta, senza guardare, a tal punto le era familiare al tatto. 3 giugno 1866, a bordo del Boomerang Ancora poco convinta della decisione d'intraprendere questo viaggio im- previsto per vedere il vulcano dell'isola Hawaii e forse tuttora più favore- vole alla prospettiva d'una tranquilla settimana a Honolulu nella foresteria della missione del signor Lyman e signora, ieri mi sono lasciata tuttavia convincere che questa sarebbe stata l'unica occasione della mia vita di ve- dere un "vulcano attivo" e così stamane mi sono trovata a bordo, armi e bagagli, a rispondere ai saluti della maggior parte delle amabili persone che hanno tanto riempito di frivoli discorsi e di erudizione le due settimane precedenti. Il nostro "gruppo" si compone dell'anziana signorina Lyman, di suo nipote Thomas e nutrice, della signorina Adams, del signorino Gre- gory Wendt, del più noioso dei gemelli Smith (ho già accennato alla loro partecipazione alla festa da ballo di Honolulu, "agghindati" come pinguini rivestiti di lino), della signorina Dryton dell'orfanotrofio, del reverendo Haymark (non il giovane ecclesiastico di bell'aspetto citato nella mia pre- cedente missiva, ma un più anziano e più sgraziato uomo di clero la cui a- bitudine d'annusare tabacco e di starnutire violentemente a ogni occasione mi avrebbe tenuta nella solitudine della mia cabina, se non fosse stato per la presenza di scarafaggi) e di un irritante giovanotto dai capelli rossi, cor- rispondente d'un giornale di Sacramento che per buona ventura non mi è mai accaduto di leggere. Questo signore si chiama Samuel Clemens, ma il suo vantarsi d'avere pubblicato articoli sotto "ingegnosi" noms de plume come "Thomas Jefferson Snodgrass" lascia capire parecchio sulla serietà dei suoi scritti. Oltre a essere grossolano e troppo chiassoso e terribilmente pieno di sé per il fatto d'essere stato l'unico corrispondente nelle isole Sandwich due settimane fa, quando i superstiti di quello sfortunato clipper, l'Hornet, sono approdati qui, il signor Clemens è alquanto sciatto e piuttosto sbruffone e noioso. Migliora un briciolo le sue brutte maniere facendo continui tentati- vi per mostrarsi spiritoso, ma la maggior parte delle sue spiritosaggini non si regge, proprio come i suoi baffoni avvizziti. Oggi, mentre la nostra nave costiera Boomerang lasciava il porto di Honolulu e il signor Clemens de- scriveva alla signorina Lyman e ad altri del nostro gruppo i pregi del suo "colpo giornalistico" sui quarantatré giorni di traversie in mare aperto sop- portati dai superstiti dell'Hornet, non ho potuto fare a meno di rivolgergli alcune domande basate su notizie fornitemi dalla deliziosa signora Al- lwyte, moglie del reverendo Patrick Allwyte, che prestò servizio vo- lontario all'ospedale e che si confidò con me quando la storia dell'Homet furoreggiava per tutta Honolulu. "Signor Clemens" lo interruppi apertamente, assumendo la posa da am- miratrice a occhi sgranati "lei dice d'avere intervistato il capitano Mitchell e alcuni altri superstiti?" "Be', sì, signorina Stewart" mi rispose. "Era mio dovere e mio piacere professionale interrogare quegli sventurati." "Un dovere che può fare molto per agevolare la sua carriera, signor Clemens" suggerii con aria falsamente schiva. Il corrispondente staccò con un morso l'estremità del sigaro e la sputò al di là del parapetto, come se si trovasse in un saloon. Non si accorse della smorfia della signorina Lyman e io finsi di non vedere. "A dire il vero, si- gnorina Stewart" mi rispose l'imbrattacarte "arriverò al punto da suggerire che quasi mi renderà il più conosciuto galantuomo della Costa Occidenta- le." Il suo sorriso, lo confesso, è fanciullesco, anche se il signor Clemens, secondo le mie informatrici, ha trenta o trentun anni ed è tutt'altro che un fanciullo. "A dire il vero, signor Clemens" lo scimmiottai "ha avuto una bella for- tuna a visitare per caso l'ospedale proprio mentre vi giungevano il capitano Mitchell e i suoi uomini..." A questo punto l'inviato trasse dal sigaro qualche boccata e si schiarì la gola, chiaramente a disagio. "Ha visitato davvero l'ospedale per fare l'intervista, no, signor Cle- mens?" Il corrispondente emise un suono strozzato. "L'intervista è stata fatta nel- l'ospedale, mentre il capitano e i suoi uomini erano convalescenti, sì, si- gnorina Stewart." "Ma lei è mai stato in quell'ospedale, signor Clemens?" domandai, ora con tono un po' meno schivo. "Ah... non... ah... di persona" rispose lo scribacchino. "Ho... ah... ho a- vanzato le domande per il tramite del mio amico signor Anson Burlinga- me." "Ma certo!" esclamai. "Il signor Burlingame... il prossimo ministro del nostro paese in Cina! Era così simpatico, al Ballo della Missione. Ma ci dica, signor Clemens, come mai un corrispondente del suo ovvio talento e del suo ovvio fiuto avrebbe usato un intermediario in una inchiesta così importante? Perché non fare visita di persona per l'intervista al capitano Josiah Mitchell e ai suoi mancati cannibali?" Qualcosa, nel mio uso della frase "mancati cannibali", parve far capire al signor Clemens d'avere a che fare con una persona di una certa arguzia: per quanto ancora chiaramente a disagio sotto gli occhi del nostro piccolo gruppo, il corrispondente mi rivolse un pallido sorriso. "Ero... ah... indisposto, si potrebbe dire, signorina Stewart." "Non ammalato, mi auguro, signor Clemens" dissi io, conoscendo con esattezza la causa dell'indisposizione del nostro da poco famoso corrispon- dente, grazie ai buoni uffici dell'impareggiabile signora Allwyte. "No, non ammalato" ammise il signor Clemens, mostrando ora, fra i baf- fi, i denti. "Semplicemente indisposto per il troppo tempo passato a cavallo nei quattro giorni precedenti." Col ventaglio mi coprii il viso, come un'ingenua signorina alla sua prima festa da ballo. "Vuole dire..." cominciai. "Voglio dire vesciche da sella" spiegò il signor Clemens, alquanto sviato per il momento dalla sua storia di trionfo letterario. "Grandi come un dol- laro d'argento. Solo dopo una settimana ho ripreso a camminare. Forse passerà una vita, prima che monti come passeggero su di una creatura a quattro zampe. È mio fervido augurio, signorina Stewart, che i nativi di Oahu abbiano qualche rito pagano in cui sacrifichino una creatura d'origine equina in una delle loro cerimonie in onore del vulcano e che il primo ron- zino da loro scelto per finire nel calderone infocato sia la bestiaccia dalla schiena troppo insellata che mi ha inflitto una simile sofferenza." La signorina Lyman, suo nipote, la signorina Adams e gli altri non sape- vano proprio come prendere quella confessione. Mi feci aria con piglio soddisfatto. "Bene, sia ringraziato il cielo per la compiacenza del signor Burlingame" dissi. "Forse sarebbe solo giusto, se lui diventasse il secondo più famoso galantuomo della Costa Occidentale." Il signor Clemens trasse dal sigaro una profonda boccata. La brezza era aumentata considerevolmente, da quando eravamo usciti in mare aperto fra le isole. "Il felice destino del signor Burlingame è quello d'essere partito per la Cina, signorina Stewart" "Oh, certo, signor Clemens" replicai. "Ma non abbiamo precisato di chi siano i destini sagomati da quell'evento, solo chi ha fatto il vero e proprio lavoro per sagomarli." E con questo scesi sotto coperta per il tè, con la si- gnorina Lyman. Eleanor Perry abbassò il diario rilegato in pelle e scoprì d'essere fissata dal grassone alla sua sinistra. — Libro interessante? — domandò costui, con un sorriso che mostrava l'insincera sincerità del venditore. Era prossimo alla cinquantina, di qual- che anno più anziano di Eleanor. — Davvero interessante — rispose Eleanor e chiuse il diario di zia Kid- der. Lo mise nella valigetta, che spinse col piede nello spazio ristretto sotto il sedile di fronte. "Merce per nave negriera" pensò. — Diretta alle Hawaii, eh? — disse il venditore. Dal momento che si trattava di un volo senza scalo da San Francisco al- l'aeroporto Keahole-Kona, Eleanor non ritenne che la domanda meritasse risposta. — Sono di Evanston — disse il venditore. — Mi pare d'averla vista sul- l'aereo da Chicago a San Fran. "San Fran!" pensò Eleanor, con una cappa di rassegnazione non dissimi- le dal mal d'aria. — Sì — ammise. — Sono nel ramo vendite — proseguì l'altro, imperterrito. — Microelet- tronica. Giochi, per la maggior parte. Io e due altri della sezione del Mi- dwest abbiamo vinto il premio d'incentivo. Quattro giorni allo Hyatt Re- gency di Waikoloa. Il complesso turistico dove si nuota con i delfini. Dico sul serio. Eleanor annuì, per indicare che si rendeva conto dell'importanza di quei fatti. — Non sono sposato — disse il venditore. — Be', divorziato, in realtà. Per questo vado da solo. Gli altri due... hanno vinto due biglietti a testa per un villaggio turistico... ma l'azienda concede un solo biglietto, se il dipen- dente non è più coniugato. — Le rivolse un sorriso incerto, più sincero ap- punto per la sua incertezza. — Be', per questo vado alle Hawaii da solo. Eleanor sorrise per dire che capiva benissimo la situazione e non badò all'implicita domanda: "Perché lei va alle Hawaii da sola?". — Va in uno dei villaggi turistici? — domandò il venditore, dopo un lungo silenzio. — Il Mauna Pele — rispose Eleanor. Sul piccolo schermo, cinque file più avanti, Tom Hanks mosse le labbra dicendo chissà cosa, con un sog- ghigno fanciullesco. I passeggeri con la cuffia ridacchiarono. Il venditore emise un fischio. — Il Mauna Pele. Uau! Il più caro super- villaggio della costa occidentale dell'Isola Grande, giusto? Più splendido del Mauna Lani o del Kona o del Mauna Kea. — A dire il vero, non so — rispose Eleanor. Non era proprio esatto. Quando aveva fatto la prenotazione tramite agen- zia turistica a Oberlin, l'impiegata aveva cercato di convincerla che gli altri villaggi turistici erano altrettanto belli e molto meno cari. Non aveva ac- cennato agli omicidi, ma aveva fatto del suo meglio per convincerla a non scegliere il Mauna Pele. Eleanor aveva insistito e le tariffe elencate dal- l'impiegata davano davvero le vertigini. — Il Mauna Pele è il luogo di villeggiatura dei nuovi miliardari, vero? — disse il venditore. — Credo di sì. Ho visto un servizio alla TV. Bisogna avere proprio un buon lavoro per permettersi una vacanza in un posto co- me quello. — Sorrise furbescamente. — O essere sposati con una persona che abbia proprio un buon lavoro. — Insegno — disse Eleanor. — Ah, sì? In quale tipo di scuola? Mi ricorda una mia insegnante delle medie. — A Oberlin — disse Eleanor. — Cos'è, una scuola superiore? — Un istituto universitario. Nell'Ohio. — Interessante — disse il venditore, con voce che perdeva rapidamente interesse. — Insegna una materia specifica o cosa? — Storia — rispose Eleanor. — Soprattutto storia del pensiero della me- tà del diciottesimo secolo. L'Illuminismo, per essere precisi. — Ah — disse il venditore. Era evidente che in quel campo non sapeva come andare avanti. Aveva corrugato la fronte. — Il Mauna Pele, sì... è quel villaggio nuovo. Più a sud degli altri, no? — Era chiaro che cercava di ricordare che cosa aveva udito di recente sul Mauna Pele nei telegiornali. — Sì — disse Eleanor — si trova sulla costa del South Kona. — Omicidi! — esclamò il venditore, facendo schioccare le dita. — Ci sono stati un mucchio di omicidi da quando hanno aperto l'autunno scorso. Ho visto qualcosa su A Current Affair al proposito. Eleanor riuscì a non trasalire per la scarsa correttezza delle frasi. — Non so niente, davvero — disse, togliendo dalla tasca del sedile la rivista a di- sposizione dei passeggeri. — Certo! Parecchie persone sono state assassinate o sono scomparse o non so bene, laggiù. Quello è il villaggio costruito da Byron Trumbo, il Big T. Hanno arrestato un hawaiano, un pazzo, no? Eleanor sorrise per far capire di essere all'oscuro ed esaminò una pubbli- cità riguardante i bagagli. La gente intorno a lei ridacchiò: Tom Hanks gri- dava silenziosamente qualcosa a una giovane attricetta. — Oddìo, non sapevo che qualcuno andasse in quel posto, dopo tutti quei... — cominciò il venditore. Fu interrotto da una comunicazione di servizio, per altoparlante e per cuffia. «Signore e signori, vi parla il vostro primo ufficiale. Ci troviamo a circa quaranta minuti a nordest dell'Isola Grande e abbiamo appena iniziato la discesa verso l'aeroporto di Keahole-Kona, ma... ah... il centro di Honolulu ci ha appena avvertiti che tutto il traffico per Kona è stato deviato su Hilo, sulla costa orientale. La ragione probabilmente è la stessa che ha spinto al- cuni di voi a visitare in questa stagione l'Isola Grande, cioè l'attività dei due vulcani nella parte meridionale dell'isola, il Mauna Loa e il Kilauea. Non c'è alcun pericolo... le eruzioni non minacciano le zone sviluppate... ma oggi pomeriggio i venti predominanti soffiano da est e quei due vulcani vomitano un mucchio di cenere e di gas. In pratica creano uno strato di smog che da quota cinquemila metri arriva fino al livello del suolo... niente di peggio di quanto hanno a casa loro i passeggeri della zona di L.A... ma le disposizioni dell'Ente Federale Aeronautico non ci consentono di attra- versarlo, anche se non ci sono veri e propri pericoli. «Perciò, se non ci comunicano che il vento è cambiato o che i vulcani per stasera hanno terminato lo spettacolo, atterreremo all'aeroporto inter- nazionale di Hilo, proprio al centro della costa orientale dell'isola. Siamo spiacenti per qualsiasi disturbo il cambiamento vi possa causare e prima dell'atterraggio le nostre assistenti di volo vi aggiorneranno sul modo di mettervi in contatto con i rappresentanti della United a Hilo, per quanto ri- guarda la sistemazione in albergo o mezzi di trasporto alternativi per la co- sta di Kona. «Ancora una volta, siamo spiacenti per eventuali disguidi ai vostri piani di viaggio, ma di sicuro arriveremo a Hilo prima che faccia buio, perciò posso solo suggerirvi di stare tranquilli e di godervi lo spettacolo dell'opera di madame Pele. Vi parlerò ancora fra poco, per aggiornarvi sulla situazio- ne. Mahalo.» Eleanor riuscì a udire il borbottio della colonna sonora del film, prove- niente dalle cuffie, prima che il rumore fosse soffocato dal mormorio iroso dei passeggeri. Il grassone alla sua destra si era svegliato durante la comu- nicazione di servizio e ora imprecava sottovoce. Il venditore pareva meno infastidito. — Cosa significa mahalo? — domandò. — Grazie — rispose Eleanor. L'altro annuì. — Bene, sono sicuro che lo Hyatt mi avrà domani, se non stanotte. Che differenza fa, un centinaio di chilometri, una volta che sei in paradiso? Eleanor non rispose. Aveva estratto la valigetta e aveva preso la cartina dell'Isola Grande, comprata alla libreria del college, a Oberlin. C'era solo una strada intorno all'isola... marcata Statale 11 a sud di Hilo e Statale 19 a nord... e per arrivare al Mauna Pele bisognava percorrere più di centocin- quanta chilometri sia in un senso sia nell'altro. — Merde — imprecò sottovoce. Il venditore di microelettronica sorrise e annuì. — Già, dico io: non bi- sogna badare alle piccolezze. Voglio dire, sono sempre le Hawaii, no? Il Boeing 747 continuò la discesa. 4 ... dal 1832, solo sette delle trentadue eruzioni del Mauna Loa sono avvenute nella zona di faglia di sudovest e solo due di esse hanno toccato il luogo del progetto. Documento conclusivo sull'impatto ambientale degli impianti turistici della riviera hawaiana, dicembre 1987 — Che cazzo significa che non possiamo atterrare a Kona? — Byron Trumbo era furibondo. Il suo Gulfstream 4 da 28 milioni di dollari prece- deva di venti minuti l'affollato Boeing 747 di Eleanor Perry e scendeva a sud di Maui, pronto a iniziare la virata conclusiva lungo la costa occidenta- le dell'Isola Grande. — Che stronzate sono? Ho contribuito di tasca mia al miglioramento di quel cazzo d'aeroporto. E ora dicono che non ci fanno atterrare? Il secondo pilota annuì. Appoggiato allo schienale di uno dei sedili di cuoio marrone, nella cabina principale del Gulfstream, guardava Trumbo pedalare sulla cyclette davanti a uno dei grossi finestrini rotondi. La luce della sera cadeva su Trumbo, che indossava T-shirt, calzoni corti e le abi- tuali scarpe da basket marca Converse All Star. — Allora digli che atterriamo — disse Trumbo. Ansimava leggermente, ma di fatto il rumore si perdeva nel ronzio di sottofondo dei motori del Gulfstream e dei ventilatori. Il secondo pilota scosse la testa. — Non possiamo, signor T. Il centro di Honolulu ci manda via. La nube di ceneri si riversa proprio sopra la zona di Kailua-Kona e dell'aeroporto Keahole. I regolamenti non ci consento- no... — Me ne sbatto dei regolamenti! — replicò Byron Trumbo. — Voglio essere a terra stasera prima che arrivi il gruppo Sato... merda, anche l'aereo da Tokyo sarà dirottato, giusto? — Giusto. — Il secondo pilota si lisciò i capelli, neri e corti. — Atterriamo a Keahole-Kona — disse Trumbo. — Come l'aereo di Sa- to. Informa l'aeroporto. Il secondo pilota sospirò. — Possiamo mandare a Hilo il grosso elicotte- ro del villaggio turistico... — Lascia perdere l'elicottero — disse Trumbo. — Se il gruppo di Sato atterra a Hilo e deve farsi scarrozzare in elicottero intorno alla parte infe- riore dell'isola penserà che il Mauna Pele sia a duecento chilometri da tutto il resto. — Be' — fece il secondo pilota — è davvero a centocinquanta chilome- tri da... Trumbo smise di pedalare e si irrigidì in tutto il suo metro e settanta di corpo tozzo. — Chiami quel cazzo d'aeroporto o devo farlo io? Will Bryant venne avanti, reggendo il telefono. Il Gulfstream era dotato di un sistema di trasmissioni via satellite da fare invidia all'aereo riservato ai presidenti degli Stati Uniti. — Signor T, c'è un'altra possibilità. Ho in li- nea il Governatore. Trumbo esitò solo un istante. — Bene — disse. Prese il telefono e con un gesto rimandò in cabina il secondo pilota. — Johnny, sono Byron Trumbo... Sì, sì, sono contento che le sia piaciu- to, lo faremo di nuovo, la prima volta che sarà a New York... Sì, senta, Johnny, ho un piccolo guaio... Chiamo dal Gulfstream... Sì... Comunque, stiamo per scendere al Keahole e all'improvviso c'è questa storia del dirot- tamento su Hilo... Will Bryant, accomodato sul divano di pelle grigiomarrone che correva lungo il terzo posteriore della cabina principale, guardava Trumbo roteare gli occhi e tamburellare sul piano del tavolino con i resti della cena. Melis- sa, l'unica assistente di bordo, venne avanti dalla zona cucina e cominciò a ripulire il tavolino in previsione dell'atterraggio. — Sì, sì, tutto questo lo capisco — disse Trumbo. Si lasciò cadere sul sedile accanto al finestrino e guardò il Mauna Kea che compariva in quel momento, con la cupola dell'osservatorio che luccicava, candida come la neve che ricopriva la vetta. — Quello che lei non capisce, Johnny, è che stasera al Mauna Pele ho un incontro con il gruppo Sato e se dobbiamo fa- re quel cazzo di... chiedo scusa, Governatore... e se dobbiamo fare antica- mera... Sì, saranno qui fra circa un'ora... Se tutt'e due facciamo anticamera e veniamo dirottati a Hilo, allora Sato e i suoi ragazzi si domanderanno se quaggiù non mandiamo avanti un'operazione da quattro soldi... Ah-hah. Ah-hah. — Trumbo roteò di nuovo gli occhi. — No, Johnny, parliamo di ottocento milioni di dollari investiti nella zona... Sì... come minimo un al- tro campo da golf e quasi sicuramente vorranno in aggiunta una carrettata di palazzi residenziali... Sì... esatto... con il costo dell'iscrizione a un circo- lo di golf che in Giappone arriva anche a duecento bigliettoni all'anno, quasi quasi gli costa meno comprare l'impianto e spedire qui i giocatori... Sì. Alzò gli occhi, mentre l'aereo passava a ovest del vulcano Mauna Kea e si scorgeva l'enorme pennacchio di ceneri causato dalle eruzioni del Mau- na Loa e del Kilauea. La nube di ceneri grigiastre e di vapore sgorgava dal cono più meridionale, appiattita dalla forza degli alisei, e si sfilacciava ver- so ovest per un centinaio di chilometri, velando con una densa cappa di smog la costa di sudovest. — Merda santa — disse Trumbo. — No, Johnny, mi scusi... abbiamo appena girato intorno al Mauna Kea e abbiamo dato una bella occhiata a quella roba vulcanica... Sì... impressionante... ma dobbiamo sempre atter- rare a Keahole, come pure l'aereo di Sato... Sì, so tutto delle disposizioni dell'Ente Federale Aeronautico, ma so anche d'avere messo gratis il mio denaro nella pista di Keahole anziché farmi una pista personale, per favori- re lei e i ragazzi. E so anche di portare in quest'isola colpita dalla recessio- ne più denaro di qualsiasi altro, dai tempi di Laurence Rockefeller negli anni Sessanta... Sì... Sì... be', non chiedo altre detassazioni o cose del gene- re, Johnny, dico solo che se non abbiamo il permesso di atterrare qui stase- ra, probabilmente l'affare va a farsi friggere e svenderemo il Mauna Pele al peggior offerente. Già... il posto sembrerà i merdosi Giardini Reali... tutto erbacce e cacche di cane... gli unici clienti fissi saranno i coltivatori di ma- rijuana. Girò le spalle al finestrino e ascoltò per un minuto. Alla fine guardò Will Bryant, sogghignò e disse al microfono: — Grazie, Johnny... Sì... può scommetterci... aspetti lo studio-party che lanceremo quando uscirà il nuo- vo Schwarzenegger... Sì, grazie di nuovo. Spense il telefono e lo passò a Will. — Vai a dire ai ragazzi in cabina che dobbiamo girare in tondo ancora per qualche minuto, ma che avremo il permesso di atterrare al Keahole-Kona appena il governatore si sarà messo in contatto con i tizi del centro di Honolulu. Bryant annuì e si chinò a guardare il pennacchio di ceneri. — Pensa che sia sicuro? Trumbo borbottò qualcosa di volgare. — Dimmi una sola cosa che valga la pena fare e che sia anche sicura! — Accennò al telefono. — Chiama Ha- stings. — Sarà al lavoro nell'osservatorio... — Me ne frego anche se è lì che si sbatte la vecchia — replicò Trumbo, sgranocchiando un frutto preso dal minifrigo posto sotto il tavolino. — Chiama Hastings. Il Gulfstream 4 volò in tondo a ottomila metri, quindici chilometri al largo della costa di Kohala, tenendosi a nord del tappeto di fumo grigio e di ceneri che sgorgava dal Mauna Loa e si allargava a ovest sul Pacifico. Il sole era basso e particelle dell'eruzione trasformavano il cielo di ponente in un guazzabuglio di rosso e di arancione. L'effetto era sconvolgente, come guardare un tramonto attraverso il fumo di un edificio in fiamme. Di tanto in tanto, mentre l'aereo s'inclinava in senso antiorario per risali- re nella virata, Trumbo scorgeva per un attimo, attraverso la foschia, l'eru- zione stessa... un pennacchio di fiamma arancione che si alzava per più di trecento metri sopra i 4362 della vetta... mentre altri bagliori arancione, ve- lati dal fumo, lasciavano intuire le eruzioni del Kilauea, più a sud. Il vapo- re che scaturiva dal punto dove la colata di lava del Kilauea incontrava l'o- ceano si levava più in alto della stessa nube di ceneri e il pennacchio bian- castro superava i novemila metri. — Cristo, per questo spettacolo ogni albergo dell'isola ha fatto il pieno e noi abbiamo cinquecento merdose stanze vuote... Will Bryant uscì dalla cabina di pilotaggio. — La torre di Keahole ha chiamato. Possiamo atterrare fra circa dieci minuti. Ho in linea il dottor Hastings. — Porse a Trumbo il telefono. Il miliardario lo sistemò nell'alloggiamento praticato nel bracciolo della poltroncina e accese l'altoparlante. — Voglio che ascolti anche tu, Will... Dottor Hastings? — Sì, signor Trumbo? — Il vulcanologo era anziano, la linea crepitava di scariche e la voce pareva una registrazione di un'epoca precedente. — Dottor Hastings, è sul diffusore. Il mio direttore generale, Will Bryant, è qui con me. Siamo sul Gulfstream, pronti per la fase finale del- l'atterraggio a Keahole. Seguì qualche momento di silenzio pieno di scariche. — Credevo che l'aeroporto fosse... — L'ho appena riaperto. Dottore, la chiamo perché ci servono alcune in- formazioni sull'eruzione in corso. — Sì, be', sarò lieto di parlarne con lei, signor Trumbo, come previsto dal nostro accordo, ma purtroppo al momento siamo occupatissimi e... — Sì, lo so... ma dia un'occhiata al contratto. In parole povere, il suo im- pegno come consulente ha la precedenza sul lavoro all'osservatorio. Lo sa Iddio se noi non la paghiamo più di loro. Potrei ordinarle di andare al Mauna Pele e di stare lì seduto a rispondere alle domande dei turisti. L'altoparlante crepitò, mentre il dottor Hastings taceva. — Naturalmente non voglio una cosa del genere — continuò Trumbo in tono soave. — Non mi piace neppure interrompere i suoi studi sulle eru- zioni. Tuttavia c'è la piccola faccenda del villaggio turistico da seicento milioni di dollari per il quale lei è stato assunto come consulente e ora ci serve una consulenza. — Sì, vada avanti, signor Trumbo. Trumbo sorrise a Will. — D'accordo, dottore, vogliamo sapere che cosa accade. Qualcosa di simile a un sospiro superò le scariche. — Be', di sicuro si rende conto della concomitante attività a Moku'aweoweo estesa lungo la faglia sudoccidentale e l'accresciuto flusso a O'o-Kupaianaha... — Accidenti, doc — disse Trumbo. — Credevo che fossero attivi il Mauna Loa e il Kilauea. Non so nemmeno dove si trovino il Moku- vattelapesca e l'O-o-comesichiama! Stavolta il sospiro fu più percettibile. — Signor Trumbo, era tutto nel mio rapporto dell'agosto scorso... — Me lo ripeta, dottor Hastings. — Il tono non lasciava spazio a discus- sioni. — L'eruzione del Kilauea è irrilevante per i suoi interessi. L'eruzione dell'O'o-Kupaianaha, ora in corso, è semplicemente una più violenta conti- nuazione di un flusso di lava che perdura dal 1987. È vero che c'è un'ac- cresciuta attività a Pu'u O'o e a Halemaumau, tutt'e due parte del vulcano Kilauea, ma qui il flusso di lava scorre invariabilmente a sudest e non co- stituisce minaccia per il suo complesso turistico. Moku'aweoweo, d'altro canto, è la caldera più alta del Mauna Loa. — La stridula voce di Hastings acquistava timbro. — L'eruzione in corso è iniziata tre giorni fa. L'attuale flusso di lava e di gas, naturalmente, si è presto diffuso a numerose fendi- ture e condotti di lava lungo la faglia di sudovest... — Un momento — disse Trumbo, sporgendosi verso il finestrino. — Si tratta di quella sorta di cortina di fuoco che vedo estendersi giù per il pen- dio a partire dal grosso zampillo? — Sì — rispose Hastings. — L'attuale eruzione del Mauna Loa segue lo stesso canovaccio di quelle del 1975 e del 1984... ossia, gli zampilli di lava iniziano a Moku'aweoweo, nei pressi della vetta, e si allargano lungo le zone della faglia. La differenza stavolta consiste nel fatto che le fenditure si sono allargate lungo la zona di faglia di sudovest; nel 1984 l'attività era incentrata nella zona di faglia di nordest... — Verso Hilo — disse Will Bryant. — Sì — confermò Hastings. — Ma stavolta eruttano verso sudovest — disse Trumbo. — Verso il mio impianto. — Sì. — Per caso non significa che nei prossimi giorni il mio investimento da seicento milioni di dollari, per non parlare di me stesso e dei giap che vo- gliono comprarlo, saranno sepolti sotto la lava, dottor Hastings? — do- mandò Trumbo, con tono dolce. — Molto poco verosimile — rispose il vulcanologo. — Le attuali colate di lava scendono lungo la faglia fino a circa duemila metri... — Un momento — disse Trumbo, sporgendosi contro il finestrino. — Pare che laggiù ci siano fuoco e lava fin quasi sul mare. — Molto verosimile — rispose ironicamente Hastings. — La "cortina di fuoco", come l'ha chiamata lei, si estende al momento per circa trenta chi- lometri... — Trenta chilometri — fischiò Trumbo. — Sì — disse il dottor Hastings. — Ma il flusso di lava passa a sud del suo impianto e dovrebbe raggiungere l'oceano nell'area desertica e relativa- mente spopolata di Ka'u, a ovest di capo South Point. — È certo? — domandò Trumbo. Sopra di lui lampeggiava l'invito ad allacciare le cinture di sicurezza. Trumbo non vi badò. — Niente è sicuro, signor Trumbo. Ma è molto poco probabile che si ve- rifichi simultaneamente una colata di lava sia a ovest sia a est della zona di faglia. — Molto poco probabile — ripeté Trumbo. — Rassicurante. — Sì — disse il dottor Hastings. Era chiaro che non aveva colto il sarca- smo nel tono di Byron Trumbo. — Dottor Hastings — intervenne Will Bryant — nella sua conferenza dello scorso agosto e nel rapporto sulla sicurezza fatto per noi prima della costruzione dell'impianto, non diceva che erano maggiori le probabilità di una catastrofe dovuta all'onda di marea che a quella di una incursione di lava? — Oh, sì — rispose Hastings, con una traccia dell'orgoglio di uno scrit- tore le cui opere siano state lette. — Come ho spiegato nel rapporto, il pro- posto impianto Mauna Pele... be', immagino che non si possa più definire "proposto"... l'impianto da lei costruito si trova sul pendio sudovest del Mauna Loa e il pendio si estende in profondità nell'oceano. Di fatto è uno dei più ripidi pendii sottomarini di tutto il pianeta. Quel pendio è del tipo che noi definiamo privo di contrafforti ed è soggetto a grandi frane sotto- marine... — In altre parole — lo interruppe Trumbo — l'intera merdosa sezione di costa potrebbe semplicemente scivolare nel Pacifico. — Be' — disse lentamente Hastings fra le scariche — sì. Ma non era questo il mio punto. Trumbo roteò gli occhi e si abbandonò contro lo schienale, con un cigo- lio di cuoio. Ora il Gulfstream scendeva ripidamente e il rombo dei motori aveva cambiato intensità. Ceneri e fumo sferzavano i finestrini. — Qual è il suo punto, dottore? — domandò Trumbo. — Il mio punto... il punto in tutt'e due i documenti che ho preparato per lei... è questo: anche un blocco secondario di frane sottomarine e la corre- lata attività sismica che una simile frana crea, possono causare e causeran- no uno tsunami... — Un'onda di marea — spiegò Will. — So che cos'è un merdoso tsunami — replicò Trumbo, brusco. — Prego? — disse Hastings. — Niente, doc — rispose Trumbo. — Concluda. Fra un minuto atter- riamo. — Be', c'è ben poco da aggiungere. Nel 1951 un terremoto d'intensità 6,5 colpì l'area costiera dove sorge ora il Mauna Pele. Da quando è iniziata la nuova serie di eruzioni, quattro giorni fa, abbiamo registrato più di mille scosse sismiche. Per fortuna sono scosse di bassa intensità, ma pare che la pressione aumenti... — Penso d'avere capito, doc — lo interruppe Trumbo, allacciandosi la cintura di sicurezza, mentre il Gulfstream entrava nella zona di turbolenza della nube di ceneri. — Se il Mauna Pele non sarà sepolto dalla lava, fra- nerà in mare o sarà spazzato via da uno tsunami. Grazie, doc. Mi farò vivo. — Con una manata spense il telefono. Il Gulfstream s'impennò e sgroppò. — Will — disse Trumbo — perché gli aerei vengono tenuti lontano da nubi come questa? Will, che in quel momento esaminava un contratto, alzò gli occhi. — Nella nube ci sono pietre e particelle di cenere che potrebbero ingorgare i motori di un jet. Byron Trumbo sogghignò. — Adesso me lo dici — commentò piano. Dal finestrino si vedeva solo un velo nerastro. Il Gulfstream si imbardò e rimbalzò. Will Bryant inarcò il sopracciglio. Certe volte non capiva se il gran capo scherzasse o no. — Be', merda — rise Trumbo. — Se l'aereo si schianta, probabilmente ci farebbe un favore. O se si schianta l'aereo dei giap. Se quel merdoso di Sato non compra l'impianto, rimpiangeremo di non essere già morti. Will Bryant rimase in silenzio. — Le gente è proprio buffa, no, Will? — In che senso? Trumbo accennò alla nube di ceneri che sferzava il finestrino. — Mi- gliaia di persone pagano cifre esagerate per venire a vedere un'eruzione come questa... rischiando un'onda di marea e una tomba di lava, pur di go- dersi lo spettacolo... ma se in giro c'è un merdoso assassino e sei persone scompaiono, tutti corrono a rintanarsi. Buffo, no? — Nove persone. — Eh? — Trumbo girò le spalle al finestrino. — Sono scomparse nove persone. Non dimentichi i tre di ieri. Trumbo emise un borbottio e tornò a guardare la nube di ceneri. Dalla fusoliera proveniva un picchiettio, come se dei bambini tirassero sassi con- tro una caldaia. Il Gulfstream continuò a scendere. 5 Un maschio questo, la femmina quella. Un maschio nato nel tempo di nera tenebra. La femmina nata nel tempo di brancolamento nella tenebra. Dal Kumulipo, canto di creazione hawaiano composto intorno al 1700 Eleanor scostò la scarna piantina dell'agenzia d'autonoleggio e aprì sul bancone la propria carta geografica dell'isola. — Vuol dire che da qui non posso andare laggiù? La magra biondina dietro il banco scosse la testa. — No, no. Solo, non può andare a sud da quella parte. Ceneri e lava hanno interrotto la Statale 11. — Con il dito ossuto indicò l'unico nastro nero che correva intorno alla parte meridionale dell'isola. — Qui, proprio dopo il Parco Nazionale dei Vulcani. — Ossia... quanto? Sessanta chilometri da qui? — Già — disse la biondina, asciugandosi il sudore sotto la frangetta. — Ma la Statale 19 è aperta. — Il percorso settentrionale — disse Eleanor. — Risalire la costa, ta- gliare per Waimea o Kamuela... qual è il nome giusto? Ho visto che la città è segnata con l'uno e l'altro. La biondina si strinse nelle spalle. — L'ufficio postale dice Kamuela. Qui tutti la chiamiamo Waimea. — Tagliare fra le montagne fino a Waimea — continuò Eleanor, se- guendo col dito il percorso. — Scendere fino alla costa del Kohala, e poi andare a sud fino al Kona... — Lì la Statale 19 diventa Statale 11 — disse la biondina. Masticava una gomma con un residuo di profumo di menta verde. — E poi giù fino al Mauna Pele — concluse Eleanor. — Circa centot- tanta chilometri? La biondina si strinse di nuovo nelle spalle. — A occhio e croce. È sicu- ra di voler fare il viaggio? È quasi buio. Parecchi altri ospiti della costa Kona sono alloggiati in albergo qui a Hilo, in attesa che gli stabilimenti mandino i pulmini domani mattina. Eleanor si strofinò il mento. — Sì, anche la United ci ha offerto una si- stemazione, ma preferisco arrivare stanotte. — È quasi buio — ripeté la biondina, in un tono che lasciava capire quanto poco le interessasse se quella haole voleva andare in giro per l'Isola Grande anche al buio. — E questa strada? — domandò Eleanor, seguendo col dito una linea nera e curva che usciva da Hilo e tagliava la parte centrale dell'isola. — La Saddle Road? La biondina scosse la testa con tanta decisione da far saltellare la fran- getta. — No no, quella non la può usare. — Perché no? — Eleanor si appoggiò al bancone. La fila di sportelli d'autonoleggio si trovava all'esterno, proprio dall'altra parte del terminal principale. L'aria era densa d'umidità e fragrante di salsedine e di mille profumi floreali. Per quante volte fosse già stata ai tropici, Eleanor dimen- ticava sempre la piacevole sorpresa del caldo, dell'umidità e degli spazi aperti che assaliva chi fosse appena sceso dall'aereo o uscito dal terminal. Lì a Hilo il terminal era piccolo e aperto, tanto che gli odori e i rumori di Hawaii l'avevano avviluppata l'attimo stesso in cui aveva messo piede fuo- ri del portello. In quasi trent'anni di viaggi, Eleanor era solo passata dalle Hawaii, mentre si recava in qualche paese più lontano e più esotico, quindi era rimasta sconvolta dal senso di americanità di tutto l'ambiente. — Perché non posso prendere la Saddle Road? — ripeté. — Pare più breve del percorso lungo tutta la Statale 19. La biondina scuoteva ancora la testa. — Non può. Viola il contratto di noleggio. — Indicò i moduli che Eleanor aveva appena terminato di com- pilare. — Non è asfaltata? — Be'... sì, più o meno... ma non la può percorrere. È troppo accidentata. Troppo fuori mano. Niente assistenza. Niente case. Se le capita un guasto, non possiamo raggiungerla. Eleanor sorrise. — Ho appena noleggiato una jeep! Per settanta dollari al giorno. Vuol dire che la vostra jeep rischia di guastarsi? La biondina incrociò le braccia. — Non può prendere la Saddle Road. Non è neppure segnata sulla cartina che le abbiamo dato. — Me ne sono accorta. — Violerebbe il contratto. — Capisco. — Non permettiamo che i nostri veicoli percorrano quella strada. — Le credo — disse Eleanor. Toccò il contratto, poi indicò il cielo sem- pre più scuro. — Ora posso avere le chiavi della jeep? Comincia a fare buio. Eleanor impiegò quasi mezz'ora a trovare il punto dove la Saddle Road lasciava la periferia di Hilo. Serpeggiando fra le ultime case e le palme per entrare nel terreno coperto d'arbusti di montagna, continuò a lanciare oc- chiate allo specchietto che rifletteva la muraglia di nuvole in movimento da est. A un paio di chilometri dalla riva pioveva a dirotto e la pioggia si dirigeva dalla sua parte. Eleanor aveva sprecato quindici minuti per controllare la jeep. Era una Wrangler scoperta, quasi nuova, con meno di trenta chilometri, dotata di cambio automatico (di cui Eleanor avrebbe fatto a meno anche a costo di pagare un supplemento) ma non aveva, né nel cassone né sotto il sedile, la capote di plastica. Eleanor aveva noleggiato in quattro continenti veicoli a quattro ruote motrici, e perfino le più vecchie e ammaccate Rover o Toyota scoperte avevano qualcosa da stendere sulla barra di protezione dell'abita- colo, in caso di maltempo. — Ah, si riferisce al "bikini" — disse la biondina, quando Eleanor tornò indietro ed ebbe aspettato che un altro cliente avesse terminato la pratica di noleggio. — Lo chiami come vuole. Di solito si lega o si aggancia con le chiusure Velcro. La biondina annuì, chiaramente annoiata. — Non lo includiamo più. Non con questo nuovo gruppo di veicoli. Li togliamo e li mettiamo in ma- gazzino. Eleanor provò il vecchio trucco di contare da uno a dieci in greco: a vol- te la tratteneva dall'assalire gli idioti. — Come mai? — domandò infine, con quel tono dolce che invariabilmente rendeva nervosi i suoi allievi. La biondina masticò la gomma. — La gente continua a perderli. O a per- dere gli affarini per agganciarli. Eleanor sorrise e si sporse verso di lei. — Abita a Hilo, signorina? La biondina fece scoppiare il palloncino di gomma e riprese il ciclo di masticazione. — Certo. — Sa quanta pioggia cade in questa parte dell'isola? Quanti centimetri all'anno? La biondina scrollò le spalle. — Io non vivo qui — continuò Eleanor — ma posso dirle il valore delle precipitazioni annuali. Più di tremilaottocento millimetri. All'anno. A volte quattromilacinquecento millimetri, solo nella vallata. — Si sporse ancora. — Perciò si decide a munire la mia jeep di una qualche copertura oppure devo montare con la macchina su questi gradini e aspettare che spuntino i giornalisti mentre telefono in America al presidente della vostra compa- gnia d'autonoleggio? Adesso il "bikini" schioccava e sbatteva nelle raffiche di vento che pre- cedevano la tempesta, mentre la jeep percorreva Waianuenue Avenue, ol- trepassava le Rainbow Falls e girava a ovest sulla Saddle Road; ma Elea- nor si disse che lo stupido pezzo di plastica l'avrebbe mantenuta ragione- volmente asciutta, a meno che non si scatenasse un uragano. Era il crepuscolo, mentre Eleanor spingeva la jeep su per una serie di curve, oltrepassava cartelli indicatori delle grotte Kaumana e del campo da golf di Hilo ed entrava nel regno degli arbusti di montagna. La strada di- venne sempre più stretta, appena sufficiente per due veicoli, ma fino a quel momento Eleanor aveva incontrato poche auto e l'asfalto lì era in buone condizioni. La pioggia la raggiunse a meno di quindici chilometri a ovest di Hilo. L'ingegnoso progetto della divisione jeep della Chrysler aveva fatto in mo- do che la combinazione del tergicristallo verticale e degli sbattimenti del telo di plastica incanalassero la pioggia all'interno del parabrezza e anche nel colletto e lungo la schiena di chi era al volante. Le goffe spazzole trac- ciavano archi per ripulire il parabrezza esterno, ma Eleanor fu obbligata a cercare nella borsa un kleenex per ripulire la parte interna. Il compartimen- to posteriore della jeep si riempì d'acqua nel giro di qualche minuto, perciò Eleanor spostò sul sedile anteriore la borsetta e la sacca da viaggio per te- nerle asciutte. Da qualche parte c'era ancora uno splendido tramonto, ma lì le basse nubi e la pioggia avevano portato anzitempo il buio della notte. Eleanor colse nel retrovisore un ultimo barlume delle luci di Hilo; poi, superata una cresta, non c'era più niente da vedere, a parte la massa dei due vulcani da una parte e dall'altra della stretta strada e un intrico di bassi al- beri. Più avanti non c'erano fari e la strada non aveva la striscia bianca cen- trale: Eleanor ebbe l'impressione di entrare in un tunnel di tenebra. Provò ad accendere la radio, trovò solo scariche d'elettricità statica e spense l'ap- parecchio; si mise a canterellare a bocca chiusa, seguendo il ritmo dello sciacquio dei tergicristalli. All'improvviso la strada entrò in una parte più ampia della vallata fra i due vulcani, il Mauna Kea a destra e il Mauna Loa a sinistra; per un istante le nubi si aprirono ed Eleanor scorse il bagliore del tramonto riflesso in al- to sulle pendici ghiacciate del Mauna Kea. Un oggetto metallico, forse il riflesso di uno degli osservatori, lanciò nella vallata lampi simili a segnali fatti con uno specchietto. Ma ancora più impressionante era il bagliore ros- sastro della eruzione del Mauna Loa. Prima nascosta dalle nubi, la massa del vulcano era adesso rivelata dalla luce di fiamme e di roccia fusa, rifles- sa dal basso pennacchio di ceneri. Eleanor ebbe la fuggevole impressione di viaggiare lungo un corridoio in una casa in fiamme, con massicce co- lonne sui due lati. A ovest l'ultima luce dell'infocato tramonto si univa al bagliore del vulcano e accendeva le nubi in una lenta combustione di colo- ri. Eleanor vide alla sua sinistra un doppio arcobaleno andare al passo con la jeep, e malgrado avesse letto da qualche parte che le leggi dell'ottica non consentono di raggiungere un arcobaleno, lo attraversò. Poi la pioggia riprese e il tramonto scomparve; la luce riflessa dell'eru- zione dall'altro lato del Mauna Loa si ridusse a una fosca luminescenza. Eleanor cominciò a capire perché gli impiegati dell'autonoleggio diven- tassero così nervosi alla prospettiva che un loro cliente percorresse la Sad- dle Road. La stradina serpeggiava in un continuo saliscendi, come se, infa- stidita, volesse scrollarsi di dosso qualsiasi veicolo. In quella vallata gli al- beri erano bassi e brutti, ma tanto fitti da impedire la visuale, e quindi Ele- anor era costretta a rallentare a ogni curva. In due occasioni incrociò un al- tro veicolo e in ognuna riuscì a scorgere i fari solo qualche secondo prima dell'incontro. Dopo una trentina di chilometri di guida estenuante, Eleanor vide l'unica altra strada che tagliava la Saddle Road: un piccolo cartello in- dicava uno stretto sentiero che correva a destra verso il parco statale Mau- na Kea e il vulcano stesso. Eleanor sapeva, avendo consultato la cartina e la guida per turisti, che quella strada terminava nei pressi della vetta del Mauna Kea, una ventina di chilometri più avanti e 2500 metri più in alto; ma lì sarebbe stato più facile imboccare una curva sbagliata e scoprire nel modo più doloroso l'errore. Eleanor cercò d'immaginare la dedizione degli astronomi che vivevano e lavoravano lassù, ansimando nell'aria gelida e rarefatta a quasi 4500 metri di quota, cercando di scattare fotografie e di fare misurazioni, prima che il malessere causato dall'altitudine e l'intonti- mento dovuto alla scarsità d'ossigeno li costringessero a scendere per un breve periodo di licenza. Eleanor aveva sempre pensato che l'ambiente ac- cademico portasse a un simile intontimento forzato, ma nei campus alme- no si poteva respirare. Dopo la deviazione per il Mauna Kea, la strada si deteriorava. Alcuni cartelli, appena visibili nel bagliore rossastro, proclamavano che era vieta- to fermarsi ai margini della carreggiata e mettevano in guardia dal pericolo di bombe inesplose. In due occasioni Eleanor scorse grossi veicoli coraz- zati che si aprivano rumorosamente la via nella boscaglia alla sua sinistra e con i fari lanciavano fasci di luce sbiadita come quella delle lanterne. Al- l'improvviso fu costretta a frenare di colpo e restò a bocca aperta per la sorpresa, mentre poco più avanti quattro di quei mostri corazzati attraver- savano la strada facendo schizzare dai cingoli asfalto come se fosse fango. Scomparsi i quattro mezzi corazzati, Eleanor riprese lentamente la mar- cia, scrutando a destra e a sinistra, senza riuscire a scorgere fra gli arbusti i maledetti mostri, di cui però udiva benissimo il fracasso. Nella scarsa luce comparve un cartello, con la ridondante scritta resa quasi invisibile per la pioggia: ATTENZIONE. ATTRAVERSAMENTO VEICOLI MILITARI. Eleanor pensò che l'intera vallata fosse una sorta di riserva militare. Si au- gurò di non sbagliarsi: altrimenti pareva che gli Usa avessero dichiarato guerra alle Hawaii. Proseguì nella corsa, continuando ad asciugare la parte interna del para- brezza; aveva i capelli zuppi di pioggia e le scarpe di tela a mollo nella pozza d'acqua piovana che sciaguattava fra il sedile e il pedale dell'accele- ratore. Muoveva a scatto gli occhi a destra e a sinistra come il pilota di un caccia, sempre pronta a incrociare un altro convoglio di carri armati o di stegosauri o di chissà quali altre diavolerie che in quel posto comparivano e scomparivano con un preavviso di solo qualche secondo. All'improvviso, proprio mentre usciva da una curva a destra, in un tratto d'asfalto così ondulato da farle vibrare le otturazioni dei denti, Eleanor fu costretta a sterzare per scansare una macchina grigio scuro per metà sulla carreggiata e per metà nel fossato. Sulla strada una sagoma umana guarda- va sotto la parte posteriore sinistra del veicolo. Eleanor si morsicò il labbro e lottò con il grosso votante per impedire alla jeep di scivolare lateralmente nel sottobosco a sinistra della strada; impiegò mezzo minuto a riprendere il controllo del pesante automezzo e riportarlo al centro della stretta striscia d'asfalto. Diede un'occhiata al retrovisore, ma l'auto e la sagoma umana e- rano già fuori vista dietro la collinetta appena superata. — Maledizione — brontolò Eleanor e fermò la jeep. La pioggia le sferzò la nuca. La sagoma, bassa e tozza, non aveva alzato gli occhi al passaggio della jeep. Non aveva gesticolato per chiedere aiuto. Ma Eleanor aveva la me- moria residua di un vestito informe incollato su di un corpo tozzo. La strada era troppo stretta e costeggiata da fossati in quel punto troppo profondi per rischiare un'inversione: Eleanor spostò su retromarcia il selet- tore automatico e risalì a marcia indietro l'altura, augurandosi di avere al- meno un secondo di preavviso, se fossero comparsi all'improvviso dei fari. Non ci furono fari. Togliendosi la pioggia dagli occhiali, Eleanor scese l'altura e si fermò accanto alla macchina per metà nel fosso. Era una sorta di scalcinato pulmino da autonoleggio. La parte posteriore sinistra era stata sollevata col cric, ma l'asfalto aveva ceduto sotto la stretta base dell'attrez- zo, facendo scivolare maggiormente nel fossato il veicolo. La persona ac- quattata accanto alla parte posteriore dell'automezzo si alzò. — Miserabile pezzo di merda — disse con voce rauca. — La ruota di scorta è uno di quei pisciosi affari d'emergenza che in teoria ti fanno arri- vare alla più vicina stazione di servizio. Appena quel cric da quattro soldi ha fatto presa sul bordo della carreggiata, il maledetto telaio è venuto giù di colpo sulla ruota di ricambio e l'ha ridotta a una merda. — Lei sta bene? — domandò Eleanor. Ora vedeva che si trattava di una donna, piccolina, con una faccia da luna piena, capelli lunghi e radi incol- lati alla fronte e alle orecchie, un abito leggero (quello che la madre di Ele- anor avrebbe chiamato un "vestito da casa") talmente inzuppato da parere dipinto sopra cosce pesanti, stomaco sporgente e seni piuttosto piccoli. La donna si scostò dal viso i capelli e socchiuse gli occhietti per guarda- re sotto la pioggia Eleanor. — L'ho noleggiato e lo lascerò qui. Va verso la costa ovest? — Sì — disse Eleanor. — Vuole un passaggio? — Prima che lei finisse di parlare, la donna aveva aperto il portellone, aveva tolto dal veicolo due vecchie valigie e le aveva gettate sul cassone della jeep, senza badare alla pozza d'acqua che vi si era formata. Si issò sul sedile a fianco del posto di guida, ne tolse la borsetta e la sac- ca da viaggio di Eleanor e disse: — Le dispiace se le metto dietro sulla mia roba? — No, faccia pure. — Si bagneranno. Ma si bagnano anche se le metto qui per terra. Eleanor annuì. — Dietro va benissimo. — Non era un'esperta, ma si pic- cava di riconoscere i dialetti. Quella donna non era nativa delle Hawaii. Proveniva dal Midwest. Eleanor ritenne che fosse originaria dell'Illinois, ma non avrebbe scartato a priori alcune zone dell'Indiana e dell'Ohio. Mise la marcia e risalì il dosso. La strada, assai accidentata, continuava a serpeggiare fra bassi alberi. Il riflesso delle fiamme del Mauna Loa confe- riva a ogni cosa un bagliore spettrale. — L'auto è solo uscita di strada? — domandò Eleanor, notando d'avere assunto anche lei la cadenza del Midwest... un'abitudine che si concedeva quando si trovava fuori del campus; a lungo andare, negli anni alla Co- lumbia University e a Harvard, prima di tornare a Oberlin, aveva quasi perduto la cadenza dello Stato dov'era nata. La donna si asciugò il viso, con mani sporche di grasso per il tentativo di cambiare la ruota. Eleanor notò la mancanza d'imbarazzo del gesto, più da uomo che da donna. — Non sono semplicemente uscita di strada — disse la donna. — Un maledetto TCT è uscito dalla boscaglia e mi ha quasi centrato. Sono finita con una ruota nel fosso e un'altra sgonfia, ma almeno ho evitato di diventa- re vittima del Desert Storm. Il maledetto TCT non mi ha degnato neppure di un'occhiata. — Cos'è un TCT? — domandò Eleanor. Usò il pacchetto di kleenex per asciugare l'interno del parabrezza. La pioggia pareva diminuire. — Trasporto corazzato truppe — spiegò la donna. — Appartengono al campo militare di Pohakuloa, quello che stiamo attraversando. Ragazzi im- pegnati nei loro giochi. Eleanor annuì. — Ha qualche collegamento con i militari? — Io? — rise la donna, con la stessa mancanza d'imbarazzo con cui si era asciugata il viso. Aveva una risata profonda, di gola... quella che zia Beanie chiamava "risata da whisky". — Diavolo, no — riprese, ancora divertita. — Non ho niente in comune con l'esercito, a parte i due dei miei sei figli che hanno fatto il servizio di leva. — Ah — disse Eleanor, un po' delusa per l'errata congettura. Le era par- so ragionevole che una donna così piena di spirito pratico fosse collegata con l'esercito. — Sapeva che cos'è un TCT — soggiunse e si rese conto, mentre lo diceva, di quanto poco reggesse la scusa. La donna rise di nuovo. — Sì, ma lo sanno tutti. Non ha guardato la Cnn durante la guerra del Golfo? — Senza troppa attenzione — confessò Eleanor, con la voce che vibrava su e giù per la scala, mentre sobbalzavano sull'asfalto ondulato come u- n'asse per lavare i panni. La strada saliva di nuovo. La donna parve fissarla nel buio e scrollare le spalle. — Be', il mio ra- gazzo, Gary, era laggiù; forse avevo più degli altri un motivo per seguire i servizi. E poi, lo confesso, dopo il Vietnam e la storia degli ostaggi in Iran, non mi dispiaceva guardare che prendevamo qualcun altro a calci nel sede- re. — Come se solo allora se ne fosse ricordata, tese la mano. Sorpresa, Eleanor lasciò il volante per stringergliela. Sentì i calli sulla palma dell'altra. — Mi chiamo Cordie Stumpf... S-T-U-M-P-F... e le sono riconoscente perché si è fermata. Chissà quanto sarei rimasta lì, vista la scarsità di traf- fico. A parte i maledetti TCT, naturalmente. Ma non credo che mi sarebbe piaciuto andare dove vanno quelli. — Eleanor Perry — si presentò Eleanor, lasciandole la mano per lottare meglio contro la jeep in una nuova difficile curva. — Diceva d'essere di- retta sulla costa occidentale. Da che parte? — Uno di quegli impianti di lusso — disse Cordie Stumpf. Si strofinava le braccia nude come se avesse freddo. Eleanor si accorse che faceva fred- do davvero, a quell'altitudine, nel buio e sotto la pioggia. — Quale? — domandò, accendendo il riscaldamento. — Io vado a sud, al Mauna Pele. — Infatti — disse Cordie. Eleanor la guardò, incuriosita. Era difficile credere che quella donna nel vestito a cotone stampato, con quelle vecchie valigie, andasse in uno dei più cari impianti turistici delle Hawaii. "Non dovrei essere proprio io a dir- lo" pensò. "In questa sola settimana di sciocca avventura consumerò i ri- sparmi di cinque anni!" — Già, proprio quello dove vado io — disse Cordie. — Era sull'aereo della United dirottato a Hilo? — Sì — rispose Eleanor. Sull'aereo non aveva notato l'altra donna, ma c'erano almeno duecento passeggeri su quel volo. Si piccava d'essere una buona osservatrice, ma non avrebbe avuto motivo di notare proprio quella donna, a parte forse per il suo aspetto ordinario un po' fuori posto. — Ero in prima classe — disse Cordie, come se le avesse letto nel pen- siero. — Immagino che lei fosse nella turistica. — Non c'era snobismo, nel commento. Eleanor annuì di nuovo, con un lieve sorriso. — Volo di rado in prima. Cordie rise. — Non l'avevo mai presa. È proprio uno stupido spreco di denaro. Ma il biglietto faceva parte del premio. — Premio? — "Vacanza con i Miliardari" — ridacchiò Cordie. — Quel concorso di People, ricorda? — Mi è sfuggito — disse Eleanor. Leggeva People esattamente una vol- ta all'anno, in sala d'attesa, dal ginecologo. — Anche a me — disse Cordie — ma non al mio ragazzo, Howie. Ha mandato il tagliando a mio nome e ho vinto io. Per l'Illinois, almeno. — Per l'Illinois? — ripeté Eleanor. "Lo sapevo" pensò. "Dintorni di Chi- cago. Sud dello Stato, da qualche parte." — Già, l'idea era che un fortunato di ogni Stato avrebbe vinto una setti- mana con i miliardari a Mauna Pele. La brillante trovata di Byron Trumbo. L'uomo che ha costruito il complesso, secondo People. Per cui io ero una sorta di "Miss Illinois", solo che non sono più "signorina" dal 1965. Co- munque, la cosa divertente è un'altra: quelli del concorso non me lo vole- vano dire, ma sono l'unica dei cinquanta vincitori a fare il viaggio. Gli altri hanno rinunciato e si sono presi, o aspettano di prendersi, l'equivalente in denaro. — Come mai? — domandò Eleanor, anche se immaginava già la rispo- sta. Cordie Stumpf piegò di lato la testa. — Non ha sentito delle sei persone scomparse in quel villaggio turistico? Si dice che altre siano state uccise e che i dipendenti di Trumbo abbiano coperto tutto. C'era sull'Enquirer. Il ti- tolo era: "Turisti muoiono e scompaiono in un complesso da un miliardo di dollari costruito su antico terreno sepolcrale hawaiano". Ora la strada era più dritta e saliva con pendenza maggiore. I pendii oc- cidentali del Mauna Kea e del Mauna Loa erano presenze nel buio, ai lati della strada nella valle che si allargava. — Sì, ho letto qualcosa al proposi- to — disse Eleanor, sentendosi una bugiarda: in realtà aveva ritagliato tutti gli articoli che era riuscita a trovare sulle sparizioni, compreso l'assurdo pezzo del National Enquirer. — Non si sente nervosa, a recarsi lì? Cordie rise piano. — E perché mai? Perché l'albergo è costruito su terre- no sepolcrale indiano e gli spiriti dei morti se la prendono con i turisti? Uff, l'ho già visto in Poltergeist, un mucchio d'anni fa, e in un altro centi- naio di film simili. I miei ragazzi noleggiavano sempre le cassette di quei film dell'orrore. Eleanor decise di cambiare argomento. — Ha sei figli? Di che età? — Ventinove il più vecchio. Trenta a settembre. Diciannove il più gio- vane. E i suoi? Di solito Eleanor si risentiva, se la gente le faceva domande del genere presumendo che fosse sposata; ma in Cordie Stumpf trovava qualcosa che le impediva di prendersela. Si trattava della mancanza d'imbarazzo, analo- ga a quella dei suoi gesti. Ampi, quasi volgari, ma, alla fine, niente di più di ciò che erano. — Niente figli — rispose. — Niente marito. — Mai sposata? — Mai. Sono professoressa. Un impegno continuo. E mi piace viaggia- re. — Una professoressa — disse Cordie. Parve cambiare posizione sul se- dile per guardarla più attentamente. Ora la pioggia era cessata e i tergicri- stalli facevano sul parabrezza un rumore secco, raspante. — Ho avuto una certa sfortuna, con le professoresse, quando andavo a scuola — proseguì Cordie. — Ma ho il sospetto che lei sia docente universitaria. Di storia, forse? Sorpresa, Eleanor annuì. — In quale periodo è specializzata? — domandò Cordie, con chiaro e genuino interesse. Eleanor restò ancora più sorpresa. Di solito la gente reagiva come aveva fatto quel venditore sull'aereo... occhi vacui, sguardo spento, tono indiffe- rente. — A dire il vero la mia materia di studio e d'insegnamento riguarda il periodo storico dell'Illuminismo — rispose, alzando la voce per farsi udire al di sopra del motore affaticato della jeep e del gemito e del frastuono dei pneumatici, più grossi del normale. — Il diciottesimo secolo. Sorprendentemente, Cordie Stumpf annuì. — Voltaire, Diderot, Rousse- au... quella gente lì. — Esatto — disse Eleanor, ricordando a se stessa quanto zia Beanie le aveva insegnato, trent'anni prima: "Non sottovalutare mai la gente". — Ha letto... voglio dire, conosce le loro opere? Cordie rise più forte che mai. — Io? Leggere Voltaire? Cara mia, al massimo posso trovare il tempo per leggere Jokes for the John quando va- do al cesso. — Girò verso la strada più avanti quel suo faccione da luna piena. — No no, Eleanor, non ho letto nessuno di loro. Il mio secondo ma- rito... Bert, era... voleva farsi una cultura e ordinò l'intera Enciclopedia Bri- tannica per i ragazzi e tutto il resto. Con quella ebbe anche la serie di clas- sici... i Grandi Libri. Mai sentiti? — Sì — disse Eleanor. — Una serie di libri importanti per gente che si preoccupa di non avere una gran cultura. Comunque, ognuno dei Grandi Libri aveva una sorta di tabella del periodo storico nei comesichiamano... — indugiò Cordie — i ri- svolti. Voltaire e tutti gli altri. Quando nacquero. Quando morirono. Una volta aiutai Howie a fare una ricerca per la scuola, usando quei risvolti. Eleanor annuì. Ricordò che cos'altro aveva detto zia Beanie, trent'anni prima: "Ma non sopravvalutarla neppure". All'improvviso la Saddle Road raggiunse una cresta e si trovarono a guardare quello che senza dubbio era l'inizio della costa occidentale dell'I- sola Grande delle Hawaii. Bagliori vulcanici scintillavano su quello che doveva essere il Pacifico, molti chilometri più a ovest. Eleanor credette di scorgere alcune luci, molto lontano, verso nord. Giunsero a una biforcazione. Un cartello puntava a nord: WAIMEA. — Noi andiamo a sud — disse Cordie Stumpf. Lungo la costa faceva più caldo e il cielo era sereno. Eleanor si rese con- to di quanto freddo facesse in alto sulla Saddle Road, con i gelidi alisei contro la schiena e la pioggia addosso. L'aria si era fatta più densa e più mite, da quando avevano percorso la Statale 190 fino alla deviazione per Waikoloa e proseguito, fra le luci sparse dei primi insediamenti, giù fino alla statale costiera. Lì era tornato il senso dei tropici, l'odore di salsedine e di marciume del mare, l'aria densa che arruffava i corti capelli di Eleanor, il rumore quasi subliminale dei frangenti sotto quello delle ruote e del mo- tore. Sulla strada costiera c'era poco traffico, quella notte; ma anche un'occa- sionale automobile era una nota stonata, dopo la desolazione della Saddle Road. Eleanor si era aspettata da quelle parti una zona molto più popolata, ma a parte le luci appena intraviste di Waimea, cinquanta chilometri prima, e le sporadiche abitazioni di Waikoloa nel tratto verso la costa, gli inse- diamenti parevano scarseggiare. I fari mostravano soprattutto i contorni di vasti campi di lava, a volte addolciti da alberi rachitici. Mentre si avvici- navano alle zone degli impianti turistici, nella lava comparvero messaggi... parole e frasi composte con pezzetti di corallo bianco disposti sulla lava nerastra. Per la maggior parte i messaggi rientravano nell'universale cate- goria di graffiti d'adolescenti... DON E LOVEY, PAULA AMA MARK, CIAO DA TERRY... ma mancavano, Eleanor lo notò subito, le frasi osce- ne, le volgarità, come se la fatica per trovare e deporre decine di pezzi di corallo bianco per ogni messaggio eliminasse l'indifferente squallore dei graffiti urbani. Molti messaggi erano di saluto... I TAJEDA DANNO IL BENVENUTO A GLENN E A MARCI, ALOHA TARA!, DAVID SA- LUTA DAWN E PATTI, MAHALO AI LAYMAN... e in breve Eleanor si trovò a cercare il proprio nome, aspettandosi quasi un benvenuto scritto con i coralli. Gli insediamenti turistici erano in pratica invisibili, rappresentati lungo la statale solo da cancelli illuminati da torce e sorvegliati, e da strade diret- te al mare attraverso i neri campi di lava. Mentre procedevano verso sud, Eleanor diede un'occhiata a parecchi di quegli ingressi: lo Hyatt Regency Waikoloa, dove il venditore di apparecchiature microelettroniche avrebbe dormito l'indomani notte, poi le distanti luci del Royal Waikoloan, l'Aston Bay Club, poi quindici chilometri di strada deserta, poi l'ingresso illumina- to da torce del Kona Village, il cui vero impianto era invisibile al di là dei campi di lava, poi altri quindici, venti chilometri di buio prima che le lam- pade al sodio lungo la statale e luci più vivide dalla parte del mare annun- ciassero l'aeroporto Keahole. — Sta per atterrare un jet — disse Cordie Stumpf. Eleanor sobbalzò, tanto era stata immersa nei propri pensieri. Aveva quasi dimenticato d'essere in compagnia. — Avranno riaperto l'aeroporto — disse, con un'occhiata al cielo stellato. — Forse la nube di ceneri si è fermata o si è spostata più a sud. — Sì — convenne Cordie. — Oppure quel jet porta passeggeri più im- portanti di noi. Le regole sono molto meno rigide per chi ha potere. Eleanor corrugò la fronte a quel cinismo così semplicistico, ma non re- plicò. Parecchi chilometri al di là dell'aeroporto, verso ovest, sfolgoravano le luci di Kailua-Kona. Eleanor entrò in città per fare il pieno e trovò una sola stazione di servizio aperta. Notò con sorpresa che non c'erano pompe self-service. Un addetto assonnato uscì per manovrare la pompa di benzi- na... e Eleanor rimase ancora più sorpresa nel vedere che mancava poco a mezzanotte. Aveva impiegato più di tre ore per i centoventi chilometri da Hilo a lì. — Quanto dista il Mauna Pele? — domandò all'addetto, un hawaiano so- vrappeso. Stanca morta, quasi s'aspettava che l'uomo alzasse gli occhi, la- sciasse cadere il manico della pompa e dicesse: "Oh, no, non vorrà certo andare laggiù!", proprio come in un vecchio film d'orrore della Hammer. Invece l'hawaiano non distolse lo sguardo dalla pompa e rispose: — Trentatré chilometri. Fa sette e cinquantacinque. Dopo Kona, la strada divenne ancora più insidiosa; le scogliere scende- vano a picco sul mare e le nubi nascosero di nuovo le stelle. — Cristo — disse stancamente Cordie, superando il sibilo del vento — non è che sia facile da raggiungere, quel posto. — Forse dovevamo restare a Hilo come gli altri — disse Eleanor, par- lando solo per tenersi sveglia. — E lasciare che ci portassero lì domani. — Diede un'occhiata all'orologio. — Oggi, anzi. Cordie scosse la testa. — No no. Il premio consisteva in sette giorni e sei notti di soggiorno, a cominciare da stanotte. Non voglio perdermi tutta una notte delle mie vacanze gratuite. Eleanor sorrise. In quel punto i pendii si levavano più ripidi verso est e s'intuiva nel buio la massa del Mauna Loa. Tra le nubi sempre più basse era visibile solo un barlume del bagliore rossastro della lontana eruzione. A parte alcune case e alcuni bui edifici commerciali a sud del Kona, lungo quel tratto di strada pareva non ci fossero altro che lava e scogliere. Man- cavano anche i messaggi scritti con corallo bianco e questo faceva sembra- re più scuri e più marcati i campi di a'a. Alla stazione di servizio Eleanor aveva guardato il contachilometri; ora, dopo una trentina di chilometri, la strada non seguiva più le scogliere, ma si snodava un paio di chilometri nell'entroterra e alla luce dei fari l'asfalto nero della statale diventava quasi inseparabile dalla lava, se non per le stri- sce bianche e i catarifrangenti, rendendo più netta l'impressione d'essere entrati in un deserto di rocce. — Ah, non sembra certo il Midwest! — disse Eleanor, col desiderio di sentire ancora il suono di voci. La stanchezza e la tensione per il lungo pe- riodo al volante le avevano fatto venire il mal di testa. — Non sembra nessuna parte dell'Illinois che abbia visto io — convenne Cordie Stumpf. — E neppure dell'Ohio. I dintorni di Oberlin sono davvero belli. — C'è stata? — Il tizio con cui ero sposata prima del compianto signor Stumpf aveva un'attività che riguardava anche quel college. Quando se la svignò con la ragazza di Las Vegas... parlo di Lester, perché il signor Stumpf era troppo coscienzioso anche solo per andare a Las Vegas..., sono subentrata nell'at- tività e ho visitato il college di Oberlin. — Di quale attività si trattava? — domandò Eleanor. Aveva pensato che la signora Stumpf fosse "solo" una casalinga. — Raccolta rifiuti — disse Cordie. — Ehi, là c'è qualcosa. Il "qualcosa" si rivelò un cancello, un muro di pietra e una guardiola a forma di capanna dal tetto di stoppie, il tutto illuminato da sei torce a gas. Le grosse lettere di rame fissate sul muro di pietra... in un carattere che era una via di mezzo fra quello di Jurassic Park e quello degli Antenati... di- cevano: MAUNA PELE. Eleanor si ritrovò a emettere il fiato che non ricordava d'avere trattenuto. — L'abbiamo trovato — disse Cordie, tenendosi più dritta e spingendo dietro le orecchie le ciocche di capelli lisci e flosci. Mentre si fermavano, un uomo assonnato con la divisa delle guardie di sicurezza uscì dalla guardiola illuminata. Una grossa catena correva dalla guardiola al muro di cinta. — Aloha — disse l'uomo. Parve sorpreso di ve- derle. — Posso esservi utile? — Abbiamo prenotato al Mauna Pele — rispose Eleanor. Guardò l'oro- logio: mezzanotte passata da più di trenta minuti. Il guardiano annuì e consultò un portablocco a molla. — I nomi, prego? Eleanor diede il proprio nome e quello di Cordie; provò un istante di stranezza, come se lei e quella bizzarra donna... Cordie Stumpf, faccia di luna piena, vestito da casa, dita arrossate... fossero vecchie amiche e com- pagne di viaggio. Attribuì la sensazione a una mistura di déjà-vu e di puro sfinimento. Amava viaggiare, ma non dormiva mai bene la notte prima di un viaggio. — Sì, benvenute al Mauna Pele — disse il guardiano. — Pensavamo che gli ospiti in arrivo stasera si fossero fermati tutti a Hilo. — Staccò dal gan- cio la catena e la lasciò cadere a terra. — Seguite la stradina per circa tre chilometri. È un po' irregolare per via di un certo traffico per il cantiere, ma migliora appena ci si avvicina alla Grande Hale. Non seguite le strade non asfaltate in mezzo alla lava... finirete solo in una baracca da cantiere. Lasciate la jeep sotto la porte cochere, con le chiavi nel cruscotto, e ve la parcheggeranno. D'accordo? Cordie si sporse verso di lui. — Cos'è la Grande Hale? L'uomo sorrise e la luce di torcia giocò sui suoi lineamenti. — Hale si- gnifica semplicemente casa. Il Mauna Pele ha più di duecento piccole hale, simili a capanne di paglia, ma molto più comode; la Grande Hale è in real- tà l'edificio principale di sette piani, con il centro conferenze, le sale da pranzo e i negozi. Ci sono anche circa trecento stanze. — Grazie — disse Eleanor. — Mahalo. L'uomo rispose con un cenno e le guardò proseguire. Dal retrovisore E- leanor notò che rimetteva a posto la catena. — Cos'è una porte cochere? — domandò Cordie. Da quando aveva tre anni, Eleanor aveva sempre avuto un eccessivo ti- more di fare quella che pareva una domanda sciocca. Di conseguenza ave- va cominciato presto a cercare spiegazioni sui libri, per non dover mostrare la propria ignoranza. Provò rispetto per la capacità di Cordie di fare do- mande su cose che non capiva. — La sezione coperta di un ingresso — rispose. — Di solito si estende sul vialetto. Utile, ai tropici. Cordie annuì. — Come una tettoia per auto, solo che puoi proseguire. La stradina era in condizioni peggiori della Saddle Road. La jeep vibra- va sopra asfalto rattoppato e Eleanor si concentrò sul percorso per non fini- re nei campi di lava ai lati. Vide di sfuggita macchinari per il movimento terra parcheggiati ai margini della strada principale e in due occasioni scorse baracche di lamiera, con recinti e luci di sicurezza. — Un approccio davvero primitivo per uno degli impianti turistici più cari del mondo — commentò. — Quanto costa una stanza o una hale... per notte? — domandò Cordie. — Mmm... penso che la mia venga a costare sui cinquecento e passa — rispose Eleanor. — Compresa però la prima colazione. Cordie emise un verso strozzato. — Con prezzi del genere potrebbero anche asfaltare la strada. Dopo due chilometri e quattrocento metri (Eleanor aveva controllato il contachilometri) la strada divenne più ampia e più liscia. All'improvviso si divise in due corsie: due siepi di bougainvillee viola fiancheggiavano la carreggiata e una curatissima profusione di fiori tropicali e di felci riempi- va la parte mediana; torce a gas, a intervalli di dieci metri, illuminavano il percorso attraverso l'oasi di palme. Eleanor si rese conto che la tortuosa stradina attraversava un elaborato campo da golf privo d'illuminazione. Spruzzatori invisibili nel buio parvero salutare con alterigia la jeep che passava e l'aria odorava d'erba bagnata e di terra grassa. Intorno alla curva della strada comparvero luci elettriche. Una donna robusta con un'ampia veste a disegni e colori vivaci, la muu- muu, uscì nella porte cochere ad accoglierle con le ghirlande di fiori, fo- glie e conchiglie, le lei, e a guidarle nell'atrio. La Grande Hale era in parte albergo e in parte gigantesca capanna di paglia, con tetti di stoppie in stile finto-Disney, una veranda, o lanai, privata all'esterno d'ogni stanza e ca- scate di piante in fiore a ogni balconata, come se quel posto tentasse di ri- creare i giardini pensili di Babilonia. Scendendo dalla jeep, Eleanor si sentì strana. Aveva male alla schiena. Un dolore sordo alla testa. Il profumo della lei le giungeva come un grido remoto attraverso la confusione mentale causata dalla stanchezza. La don- na con la muumuu si era presentata come Kalani e ora Eleanor seguì lei e Cordie, la muumuu a disegni floreali e l'inzuppato abito da casa a fiori, su per gli scalini in un bel vestibolo a piastrelle, con due Buddha dorati ai lati dell'ingresso, attraverso un atrio con gabbie alte tre metri dove dormivano uccellini, al di là di una terrazza prospiciente le cime delle palme le cui fronde fruscianti riflettevano la luce delle torce, fino all'accettazione, per la formalità di firmare il registro e lasciare gli estremi della carta di credito... Cordie non ebbe bisogno di mostrare la propria carta di credito e ricevette invece le congratulazioni di Kalani: erano davvero entusiasti di accogliere una vincitrice del concorso... "loro" si riferiva a Kalani e all'ometto scuro di pelle, comparso accanto a lei, dietro il bancone. Eleanor notò che l'o- metto indossava una camicia hawaiana su calzoni bianchi e mostrava lo stesso ampio sorriso di Kalani. Poi si ritrovò a salutare Cordie, che intanto era scortata a un ascensore (evidentemente i vincitori del concorso alloggiavano nella Grande Hale) mentre l'ometto accompagnava lei sulla terrazza. Eleanor capì confusa- mente che la Grande Hale era stata costruita contro un pendio: l'ingresso a pianterreno dal lato della porte cochere era almeno a tre metri da terra, sul lato dell'oceano. L'inserviente la precedette lungo una scalinata fino a un carrello elettrico in attesa, sul quale era già stata sistemata la sua sacca da viaggio. — Sta nella tahitiana 29? — domandò l'inserviente. Eleanor guardò la chiave, ma in realtà l'uomo non le aveva fatto una domanda. — Quelle ha- le sono molto belle — continuò infatti l'inserviente. — Molto belle. Lonta- no dal chiasso della Grande Hale. Mentre partivano con un ronzio di motore elettrico lungo una stretta stri- scia d'asfalto fra le palme, Eleanor lanciò un'occhiata alla Grande Hale. L'albergo principale era buio; solo poche camere mostravano una traccia di luce dietro le tende. Le torce sfrigolavano nel vento notturno. Eleanor non riusciva a immaginare che ci fossero molti clienti quella notte, né che la Grande Hale potesse essere chiassosa. Oltrepassarono laghetti, scesero a zigzag in un giardino che la intontì con i suoi intensi profumi, attraversarono un ponte che si estendeva sopra uno stretto stagno, superarono una cascatella, un altro ponte, girarono in- torno a una piccola piscina, vennero in vista di una spiaggia con bianchi frangenti soffusi di fosforescenza, tornarono in un più folto boschetto di palme. Eleanor si accorse che fra le palme c'erano piccole capanne rialzate da un metro e mezzo a tre metri rispetto al sentiero. Lampade elettriche schermate brillavano a pochi centimetri da terra, nel folto della vegetazio- ne tropicale; ma in quel punto le torce, disposte a intervalli di qualche me- tro, non erano accese, forse venivano spente a un'ora ragionevole. Con bizzarra certezza Eleanor intuì che quella notte le costose hale era- no quasi tutte vuote, che il Mauna Pele, Grande Hale e piccole hale, era quasi deserto, che le parecchie migliaia di acri dell'impianto turistico erano quasi del tutto vuote, a parte il personale e i lavoratori del turno di notte nell'isola di luce costituita dal vestibolo principale, dall'atrio e dalla terraz- za. Girarono intorno a un altro laghetto costeggiato di rocce, svoltarono a sinistra in un sentierino, si fermarono davanti a una hale dal tetto di stop- pie posta in cima a una scalinata di tre metri. — Tahitiana 29 — disse l'inserviente. — Molto bella. — Prese la sacca da viaggio di Eleanor, salì gli scalini e tenne aperta la porta. Eleanor entrò come in sogno. La hale era molto ben fatta: veranda, pic- colo ingresso, stretto corridoio che portava alla zona bagno, soggiorno e zona letto più in là, ampio letto con una vivace coperta a disegni locali, due lampade accese ai lati del letto dall'aria assai comoda, finestre con- trapposte e persiane per metà abbassate, alto soffitto con ingraticciatura ai timpani, almeno due ventilatori in lenta rotazione. Eleanor vide una lanai privata al di là della porta-finestra chiusa e udì il rumore della pompa di ri- ciclaggio che scaldava l'acqua della vasca da bagno. — Molto bella — ripeté l'inserviente, con una lieve traccia di domanda nel tono. — Molto bella — disse Eleanor. L'inserviente sorrise. — Mi chiamo Bobby. Mi faccia sapere, a me o a qualsiasi altro membro del personale, se possiamo renderle in qualsiasi modo più piacevole il soggiorno. La prima colazione è servita dalla sette alle dieci e mezzo sulla terrazza della Grande Hale e su quella del Bar del Relitto. Lì c'è tutto... — Indicò una pila di dépliant e di guide di servizio, posta sul comodino. — Qui non abbiamo cartelli NON DISTURBARE, ma se desidera essere lasciata in pace, metta sulla veranda questa noce di cocco e nessuno la disturberà. — Le diede una noce di cocco su cui era di- pinto il marchio a forma di vulcano del Mauna Pele. — Aloha! "La mancia" pensò Eleanor, fra la nebbia della stanchezza, e frugò nella borsetta. Trovò solo un biglietto da dieci; tuttavia quando si girò, bancono- ta in mano, vide che Bobby era scomparso. Udì il ronzio del carrello elet- trico e si accostò alla finestra, ma il veicolo era già fuori vista. Per qualche minuto Eleanor esplorò la hale, accese e spense le luci nelle varie zone, poi si assicurò che la porta a fisarmonica sul lato posteriore e quella a un solo battente sulla facciata fossero chiuse a chiave. Si sedette sul letto, troppo stanca per disfare i bagagli o anche solo per svestirsi. Era ancora lì seduta, assopita, rivedendo la Saddle Road e l'enorme bel- va di metallo che procedeva con fracasso fra gli arbusti, quando qualcuno cominciò a urlare proprio sotto la sua finestra. 6 Mentre mi preparo per andare a letto, nella quiete notturna si leva una voce profonda e in essa, lontana com'è lontano dagli altri capi del mondo questo scoglio oceanico, riconosco un familiare motivetto di casa. Ma le parole paiono alquanto fuori quadro: "Waikiki lantoni oe Kaa hooly hooly wawhoo". Tradotto, significa: "Quando marciavamo attraverso la Georgia". MARK TWAIN Roughing It in the Sandwich lslands 7 giugno 1866, Hilo, Hawaii Il nostro signor Clemens comincia a diventare una sorta di bella sec- catura. Il viaggio di due giorni da Honolulu all'isola Hawaii potrebbe essere ge- nerosamente descritto come una delle esperienze meno piacevoli della vita di ciascuno. Eravamo appena usciti in mare, quando la nave, la Boome- rang, un bastimento a elica di circa 300 tonnellate, ormai vecchiotto, co- minciò a diguazzare e a rigirarsi da ventre a cresta d'onda, da cresta d'onda a ventre. I miei colleghi passeggeri hanno avuto, per la maggior parte, la buona grazia di ritirarsi nella propria cuccetta a vomitare in relativa intimi- tà... per quanto non ci fosse intimità, a bordo di quell'orribile nave, né se- parazione per sesso, poiché tutti, indigeni hawaiani, signori di Honolulu, dame britanniche, cinesi e mandriani paniolo, erano gettati insieme nelle più promiscue circostanze, essendo la "cabina letto" di poppa un semplice prolungamento del rozzo salone dove si mangia, si beve, si passeggia e si gioca a carte. Dopo la mia già descritta vittoria verbale sul fastidioso signor Clemens, ero scesa alla mia cuccetta in quella cabina senza fondo, ma subito dopo l'ingresso nei bui confini della lunga sala comune, mi trovai di fronte a due scarafaggi sulla cuccetta a me riservata. Pur avendo spesso annotato quan- to io detesti gli scarafaggi e come abbia più paura di essi che non degli orsi bruni o dei puma delle Montagne Rocciose, devo precisare che quelli non erano normali scarafaggi. Quei mostri avevano le dimensioni delle arago- ste, con occhietti rossi e antenne sulle quali avrei potuto appendere cappel- lino e parasole. Oltre agli indelicati rumori dei nostri più delicati passeggeri che vomita- vano il pranzo di festeggiamento gustato prima della partenza da Honolu- lu, c'era il russare di persone che dormivano con indifferenza, impilate come legna da ardere lungo le pareti della cabina comune. Notai che la si- gnora Windwood usava come poggiapiedi la testa d'un signore appisolato e più tardi scoprii che il signore in questione era il Governatore di Maui. Tenendo d'occhio con diffidenza gli scarafaggi, che parevano spri- macciare il mio guanciale in previsione di un loro lungo sonnellino, mi ri- tirai di nuovo sul ponte superiore e accettai come "cuccetta" un materasso vicino all'arcaccia o quadro di poppa. A quanto pareva, anche il signor Clemens aveva progettato di trascorrere gran parte del viaggio "là fuori dove l'aria è stata respirata solo una volta" e così ci trovammo di nuovo a conversare. Per alcune ore, prima che lo sfinimento ci spingesse alle rispet- tive "cuccette" sul ponte, il signor Clemens e io parlammo di cose irrile- vanti e spesso irriverenti. Credo che il corrispondente fosse sorpreso di trovare una signora cui piacesse quanto a lui canzonare e raccontare aned- doti divertenti. Non abbandonò mai la sua giovanile bifolcheria, né l'orribi- le abitudine d'accendersi un sigaro da quattro soldi senza neppure un "con permesso"; ma io, avendo girato le zone desolate delle Montagne Rocciose e il Selvaggio West da lì a San Francisco, ero quasi avvezza a una simile mancanza di buone maniere. Riconosco comunque che il garrulo giovanot- to tenne la mia mente e il mio stomaco lontano dal beccheggio della Boo- merang e dalla possibilità d'essere assassinata dagli scarafaggi. Quando accennai al mio disgusto alla vista di quelle creature, il signor Clemens ammise che esse erano "una buona parte" del motivo per cui era salito sul ponte. "I miei coinquilini scarafaggi erano grossi come foglie di pesca" disse. "Con lunghe, vibranti antenne e occhi ardenti, maligni. Digrignavano i denti come vermi del tabacco e parevano insoddisfatti di qualcosa." Descrissi le blatte grosse come aragoste che avevano reclamato il mio guanciale. "Ho provato a pungolare uno scarafaggio usando il parasole" raccontai "ma il più piccolo dei due si è appropriato dell'attrezzo e l'ha usa- to come una sorta di tenda." "Ha fatto bene a evitare ulteriori scontri" sostenne il signor Clemens. "Autorità degne di credito mi hanno riferito che quegli insetti grossi come rettili hanno l'abitudine di rosicchiare fino alla carne le unghie dei piedi dei marinai addormentati. Proprio questo pensiero mi ha procurato un'irrefre- nabile bramosia di venire sul ponte e di dormire alla pioggia." Con insulsaggini su questa vena trascorremmo una buona parte di quella sera. Alle cinque del mattino la nave sostò a Lahaina, il più esteso villaggio della verdeggiante isola Maui, e il signor Clemens parve molto desideroso di scendere a terra. Sfortunatamente per lui e per la vostra interlocutrice (a dire il vero, avrei accolto volentieri un momento di requie senza la sua lo- quace presenza) il capitano della Boomerang mandò a riva solo scialuppe con la posta e varie provviste, ricevendone di simili in cambio, e il signor Clemens fu obbligato a restare contro la murata, a inalare il profumo di sandalo di quell'isola meridionale e a deliziarmi con storie della sua prece- dente visita in quelle verdeggianti alture, nel corso del suo soggiorno di tre mesi nell'arcipelago. Nel primo pomeriggio lasciammo Maui e il canale fra quell'isola e la sua più vasta sorella verso meridione era un tratto di mare ancora più agitato di quelli incontrati fino a quel momento. La traversata in sé richiese sempli- cemente sei ore, ma di sicuro era parsa più lunga alla maggioranza dei no- stri compagni di viaggio, alcuni dei quali, prima che raggiungessimo le ac- que costiere di Hawaii, supplicavano la morte come liberazione dal loro mal de mer. Il signor Clemens continuò a non essere toccato da tutto quel- l'agitarsi e dibattersi, cioè della nave, perché parve piuttosto scoraggiato dall'agitarsi e dibattersi dei passeggeri sofferenti, e quando feci un com- mento sulla sua resistenza a un simile beccheggio, mi confidò d'avere "scontato la pena" come pilota di battello fluviale prima della guerra. Gli domandai perché avesse barattato quel mestiere con la professione di corrispondente. Il signor Clemens si appoggiò alla murata, si accese uno di quei detestabili sigari e con un certo luccichio negli occhi mi disse: "Non mi piaceva affatto, signorina Stewart. Far parte della vita letteraria, voglio dire. Ho cercato un lavoro onesto... la Provvidenza mi tramuti in metodi- sta, se non è vero. Ma ho fallito e ho ceduto alla tentazione di procacciarmi da vivere senza dover lavorare". Per non fermi distrarre dalla sua burla infantile, dissi: "Ma le manca davvero l'attività di pilota, signor Clemens?". Invece di tentare un'altra goffa spiritosaggine, il corrispondente guardò l'oceano, come se vi scorgesse qualcosa d'assai remoto dalla scena sotto i nostri occhi. Per la prima volta era serio. "Amavo il mestiere di pilota co- me forse non amerò mai un altro mestiere o un'altra persona" disse, con voce e inflessione meno esagerate di prima. "In quel periodo sul fiume ho provato tutta la libertà che potrei immaginare per la vita di un essere uma- no. Non consultavo nessuno, non ricevevo ordini da nessuno, ero così pri- vo d'impedimenti come ogni anima aspirerebbe in questa vita." Un po' sorpresa dalla serietà della sua risposta, dissi: "E il suo fiume era bello come questo non tanto pacifico oceano?". Il signor Clemens perdette qualche istante per aspirare il venefico fumo del sigaro. "I miei primi giorni sul fiume erano seducenti come una visita al Louvre, signorina Stewart. Da ogni parte c'erano bellezze inaspettate. Ero, come disse il mandriano che si trovò nello stivale un serpente, un po' impreparato. Però, mentre diventavo più abile come pilota, quella bellezza sbiadì." "A causa della dimestichezza?" suggerii. "No" rispose il signor Clemens, gettando in acqua il mozzicone del siga- ro. "A causa della mia padronanza del linguaggio del fiume." Lo guardai senza capire e giocherellai col parasole. Il corrispondente mi rivolse di nuovo quel suo sorriso fanciullesco. "Il fiume era come un libro, signorina Stewart. La superfice dell'acqua, viag- giando a monte e a valle, era come una pergamena antica, ma scoperta di recente, scritta in una lingua morta. Mentre imparavo quella lingua... la lin- gua degli infidi tronchi galleggiati e degli scogli nascosti e delle spiagge boscose ricordate ora non per la loro bellezza ma come promemoria per l'individuazione del canale sicuro... mentre quel libro meraviglioso mi ce- deva i suoi segreti, anche la naturale bellezza del fiume mi si rivelava... il silenzio all'alba, i rumori soffocati al crepuscolo... e tuttavia tutto si affie- voliva, come se il fascino fosse legato al mistero." Ammetto che l'improvvisa trasformazione di quell'uomo, da noioso im- brattacarte a poeta frustrato, mi zittì per qualche istante. Forse il signor Clemens se ne accorse, o restò imbarazzato per il suo volo di fantasia, per- ché pescò di tasca un altro sigaro e lo agitò come una bacchetta. "Comun- que, signorina Stewart, un battello fluviale potrebbe uccidere... la caldaia può scoppiare, lo scafo può essere lacerato in un secondo da quelle grazio- se scogliere... ma non spinge mai il corpo umano a rivoltarsi come questa zattera oceanica è riuscita a fare con i nostri poveri colleghi passeggeri." Lasciai allora il signor Clemens e m'impegnai in un'animata conver- sazione con Thomas Lyman, col signorino Wendt e con l'anziano reveren- do Haymark, sul pro e il contro dei missionari e sul loro effetto nelle isole. Il signorino Wendt e il signor Lyman sostenevano la tesi attualmente di moda, secondo la quale i missionari si sono rivelati disastrosi per l'econo- mia delle isole, per la loro prosperità e la loro autonomia; mentre il patito del tabacco da fiuto reverendo Haymark sosteneva la tesi tradizionale, se- condo la quale i nativi sacrificavano bambini ai loro dèi pagani, prima che, una generazione addietro, suo padre e i suoi amici portassero loro la Buona Novella e la civiltà. Riconosco, mentre la conversazione seguiva la sua i- nevitabile traiettoria, d'essermi domandata quali impertinenti osservazioni avrebbe potuto inserire nell'argomento il signor Clemens. Ma il signor Clemens aveva reclamato per sé una stuoia sotto un tendone di tela e dor- miva, lasciando così trascorrere la parte più calda della giornata tropicale. Nel tardo pomeriggio giungemmo in vista di Hawaii, ma le nubi ve- lavano tutta l'isola, tranne la sommità dei due possenti vulcani, che pareva luccicare di neve. Il semplice pensiero di neve a quelle latitudini bastò a darmi le vertigini e in quel momento decisi di rompere le solenni promesse fatte a tutti i miei amici missionari di Honolulu, che m'avevano spinta a giurare di non tentare di raggiungere la cima del Mauna Loa o del vulcano suo gemello. Era già buio, quando facemmo scalo a Kawaihae sulla costa nordovest di Hawaii. Anche lì vi fu il brevissimo scambio di posta e di merci; al termi- ne ripartimmo e avanzammo nel canale che separa Maui dalla punta setten- trionale di Hawaii. Lì, anche se il cielo era sereno e le stelle erano più lu- minose di quanto avessi mai visto se non nelle escursioni sulle più alte vet- te delle Montagne Rocciose, il mare era più mosso di prima e mutava la sala comune sottocoperta in un beccheggiante ricettacolo d'umanità soffe- rente. Quella notte non ci fu conversazione lungo la murata, con il signor Clemens o con altri passeggeri: accettai con gratitudine il "materasso" sot- to il tendone vicino al fumaiolo e trascorsi la maggior parte delle sette ore seguenti a tenermi aggrappata a cavi di ritenuta e a staffe d'ottone, per non rotolare di persona giù dal ponte. A volte, quando scivolavo nel sonno e al- lentavo la presa, il materasso scivolava davvero verso la murata, ma solo per compiere poco dopo il percorso inverso e riportarmi nel posto di par- tenza accanto al fumaiolo, mentre la nave rollava nell'altra direzione. Co- minciavo a capire perché l'avessero chiamata boomerang. Il sole spuntò in uno splendore di rovesci di pioggia e d'arcobaleni e il mare si calmò, come spianato da una mano invisibile. La costa nordorien- tale di Hawaii venne in bella vista e non sarebbe potuta essere più diversa dalle riarse montagne sorprendentemente marroni e dai neri campi di lava intravisti sulla riva nordoccidentale al crepuscolo della notte precedente. Qui tutto era verdeggiante... migliaia di gradazioni di verde, dal fulgido verde smeraldo alle più tenui e smorte sfumature del verde sedano... e la costa settentrionale era uno spettacolo da lanterna magica dei Mari del Sud, con sensazionali scogliere perfettamente verdi di vegetazione, anche se nessuno di noi riusciva a immaginare come le piante potessero prospe- rare su simili pareti a picco, punteggiate di ripidi canaloni che si aprivano in verdeggianti vallate, guarnite di tanto in tanto di piccole spiagge d'un bianco o d'un nero abbacinanti sotto le pareti verdi e accentuate da una se- rie in apparenza infinita di cascate che dalla giungla in cima agli inat- taccabili promontori si riversavano liberamente per mille o più piedi in la- ghetti rocciosi e inondati di spruzzaglia. Dappertutto, lungo l'impressionante tratto di costa, rumoreggiavano i frangenti, con un fragore, mi garantì il reverendo Haymark, simile a quello dell'artiglieria nella recente guerra. In alcuni punti i frangenti si schianta- vano contro grotte e fenditure delle ripide pareti e lanciavano dovunque al- ti rampicanti di spuma tra la profusione di felci lungo le pareti di roccia grigia. Per quasi trenta miglia o più lungo la costa ci beammo gli occhi di quella magnificenza, senza vedere alcun segno di meschine abitazioni umane, salvo alcune chiese di nativi, fatte di frasche e poste in radure nei pressi del bordo delle scogliere; ma a una decina di miglia da Hilo scorgemmo le prime piantagioni di canna da zucchero, campi addirittura più verdi del ri- goglio a cui i nostri occhi erano quasi abituati, ai quali le bianche case per la bollitura e le ciminiere aggiungevano un piacevole elemento di contrasto a tutta quell'incurante materia vegetale. E poi ci furono altre case, altre val- late, una profusione di capanne di paglia, altre piantagioni, mentre le sco- gliere e i precipizi lungo la costa si abbassavano di colpo, tanto da ricor- darmi la più clemente riva della Nuova Inghilterra; e allora arrivammo a destinazione, a Hilo. Fin dal primo momento del nostro ingresso nella baia a forma di mezza- luna che serviva e proteggeva quella comunità, potevo vedere che Hilo era il vero paradiso del Pacifico... il paradiso che sedicenti città come Honolu- lu potevano solo guardare con invidia. A causa del clima umido e delle perfette condizioni per la crescita presenti nell'aria e nel terreno, la città stessa era suggerita, più che visibile. Dovunque le alte palme da cocco, gli alberi di myrica cerifera, gli alberi del pane e mille altri fiori tropicali, felci e festoni di rampicanti, consentivano solo una brevissima visione di legno bianco o d'un campanile. Lì il rumore dei frangenti non era rombo d'artiglieria, ma un più blando coro di voci infantili, al quale l'intero baldacchino di verzura sulle dimore signorili e parimenti sulle capanne di paglia pareva ondeggiare a tempo con la musica della Natura. Era come se la nostra nave, così infetta d'indi- sposizioni e di parassiti durante i due giorni di traversata, si fosse trasfor- mata d'incanto in un maestoso e celestiale vascello che portasse i suoi for- tunati pellegrini in quella terrestre anticamera del paradiso. Fu un momento sublime. E sarebbe stato un momento perfetto... se il si- gnor Clemens non avesse strofinato contro la suola dello stivale uno zolfa- nello, se non avesse acceso uno dei suoi innominabili sigari e se non aves- se detto in tono sarcastico: "Quegli alberi paiono una sorta di collezione di piumini per la polvere colpiti dal fulmine, vero?". "Nient'affatto" gli risposi, il più gelidamente possibile, ancora colpita dallo spettacolo sublime che il nostro arrivo aveva offerto a ogni animo sensibile. "E quelle capanne di paglia..." continuò il signor Clemens. "Paiono così ispide che potrebbero essere fatte con pelli d'orso, non crede?" A questo non replicai, augurandomi che il mio silenzio agisse da rim- provero. Incurante del mio disprezzo, quello sciocco dai capelli rossi esalò una nuvola di fumo di sigaro fra me e il panorama. "Non vedo teschi né caccia- tori di teschi" disse. "Eppure non è poi passato molto tempo, da quando il vecchio Kamehameha e i suoi ragazzi decoravano queste spiagge con le te- ste di loro nemici e di loro vittime sacrificali umane infilate su pali alzati lungo le pareti dei loro templi." Aprii il parasole e mi girai, rifiutandomi d'ascoltare ancora le sue sgra- devoli punzecchiature. Ma prima di poter andare a prua, dove si erano rag- gruppati i miei veri compagni di viaggio, udii quel noioso corrispondente mormorare, come tra sé: "È una maledetta vergogna... come si riduce un luogo, per il fatto che i suoi abitanti siano portati alla salvezza e alla civil- tà. Quale disappunto presenta, agli occhi d'un turista". 7 Quando ti senti giù di giri, ecco cosa devi fare, non lasciarti imbrogliare, dimena i fianchi con l'hula, con l'hula, ridacchia con l'hula, con l'hula, con l'hula, con il buon vecchio hula blues! Canzone popolare degli anni Trenta Il mattino spuntò chiaro e frizzante sul complesso turistico Mauna Pele; la luce del sole strisciò intorno all'estremità meridionale del vulcano e mise in rilievo migliaia di fronde di palma, mentre una brezza moderata sposta- va più a sud la nube di ceneri e mutava il cielo in una conca d'un azzurro perfetto; il mare era calmo e i frangenti parevano una semplice increspatu- ra sulla spiaggia di candida sabbia. Tutte cose di cui Byron Trumbo se ne fregava. La sera prima, i giapponesi erano giunti in orario; l'aeroporto era stato riaperto il tempo sufficiente per fare atterrare il loro jet, un'ora dopo quello di Trumbo; la corsa in limousine e la breve cerimonia di saluto al Mauna Pele si erano svolte secondo i piani. Hiroshe Sato e il suo entourage erano stati alloggiati nella Suite Reale della Grande Hale, situata nell'attico, solo un briciolo meno sfarzosa della Suite Presidenziale occupata da Trumbo stesso. Tutti i componenti del gruppo di Sato si erano ritirati presto, giusti- ficandosi con il jet lag, malgrado il salto di fuso orario rappresenti rara- mente una difficoltà, se si viaggia da est a ovest. Grazie all'ora tarda, il Mauna Pele era parso normalmente tranquillo, anziché insolitamente vuo- to. Trumbo aveva disposto intorno alla Suite Reale una fitta rete dei suoi uomini della sicurezza. Al mattino, il direttore Stephen Ridell Carter riferì che i tre commercianti d'auto del New Jersey non erano stati ritrovati, ma che nessun altro era scomparso nella notte. Byron Trumbo era ancora incazzato. — Qual è il programma di oggi? — domandò a Will Bryant. — Il primo incontro è durante la colazione? — Esatto — rispose Bryant. — I nostri e i loro s'incontrano sulla loro terrazza per la prima colazione. Lei scambia col signor Sato complimenti e regali. Lo accompagna a fare il giro. Poi i nostri e i loro lavorano sulle ci- fre preliminari, mentre lei gioca a golf con Sato. Seduto davanti alla tazza di caffè, Trumbo corrugò la fronte. — I miei? — Tutti sapevano che Byron Trumbo conduceva di persona le trattative, dopo i preliminari. Lui e Sato avevano passato da settimane quel primo stadio. — I suoi sono io — sorrise Will Bryant. Indossava un completo grigio Perry Ellis, di grammatura adatta al clima tropicale. Portava i capelli lun- ghi, sua unica affettazione, accuratamente legati a coda. — Dobbiamo concludere in un paio di giorni — disse Trumbo, senza badare al commento di Will. Indossava l'abbigliamento che portava di soli- to al Mauna Pele: sgargiante camicia hawaiana, short scoloriti e scarpe di tela. Sapeva che anche il giovane Sato avrebbe indossato abiti informali, tenuta da golf, mentre i suoi assistenti, sette o otto, avrebbe sudato in com- pleto grigio. In situazioni del genere, l'abbigliamento informale equivaleva a potere. Will Bryant scosse la testa. — Le trattative sono molto delicate... — Cazzo, saranno molto più delicate se uno degli uomini di Sato ci la- scia la pelle mentre discutiamo! — lo interruppe Trumbo. — Dobbiamo concludere in un paio di giorni, lasciare che Sato si faccia la sua scorpac- ciata di golf e buttarlo fuori da qui mentre l'inchiostro sui documenti è an- cora umido. Capito? — Sì — rispose Bryant. Sfogliò alcune carte, le sistemò perbene, le mise in una cartellina che ripose nella valigetta di vitello. — Pronto per l'inizio dei giochi? Byron Trumbo borbottò qualcosa e si alzò. Eleanor si svegliò in un'orgia di trilli e di cinguettii. Si alzò a sedere, confusa per un momento, poi notò la vivida luce che entrava dalle vene- ziane, luce riflessa da migliaia di fronde di palma, sentì l'aria densa e tiepi- da sulla pelle, il profumo dei fiori, il delicato mormorio dei frangenti. — Il Mauna Pele — mormorò. Ricordò l'urlo sotto la sua finestra nel cuore della notte. Da dietro le per- siane non aveva visto niente e allora, quando le urla inumane si erano ripe- tute, aveva cercato qualcosa di pesante, aveva trovato solo un ombrello omaggio nel ripostiglio accanto alla porta, l'aveva impugnato con fermezza e aveva aperto la porta. Le urla provenivano dalla fitta vegetazione lungo il sentiero della sua hale. Eleanor aveva atteso quasi un minuto intero, prima che il pavone uscisse allo scoperto, posando le zampe come se gli facesse- ro male, allargando a ruota le penne della coda e poi ripiegandole. Il pavo- ne aveva strillato ancora una volta e, sculettando lungo il sentiero, era scomparso. "Benvenuta nel paradiso" si era detta Eleanor. Non era nuova a espe- rienze con i pavoni... una volta, in India, si era accampata in una zona che pullulava di quegli animali... ma il loro verso non mancava mai di sor- prenderla. Però non aveva mai udito un pavone mandare il richiamo di not- te. Ora si alzò, fece la doccia, apprezzando il profumo della saponetta a for- ma di conchiglia, si asciugò alla buona i capelli, indossò calzoncini alla marinara, un paio di sandali e una camicetta bianca senza maniche; prese dal comodino la brochure di benvenuto del Mauna Pele e la piantina, le in- filò nella borsa di paglia, insieme con il diario di zia Kidder, e uscì. La profusione di piante in fiore e la lieve brezza ebbero su di lei l'effetto che sempre avevano i paesi tropicali... la indussero a domandarsi perché viveva e lavorava in una parte del mondo dove inverno e buio reclamavano almeno una metà dell'anno. Il sentiero d'asfalto serpeggiava attraverso una giungla ben curata, le hale si alzavano su trampoli di legno fra le palme fruscianti ai lati del sentiero, mentre uccelli dal piumaggio sgargiante sal- tellavano e svolazzavano sotto il baldacchino di fronde. Eleanor consultò la piantina del Mauna Pele, controllando il percorso quando incontrava al- tri sentieri, laghetti, ponti dì legno, passaggi pedonali di pietra e sentieri ben curati di terra battuta che s'inoltravano nella giungla artificiale. Alla sua destra scorse di sfuggita i campi di lava che si estendevano per chilo- metri fino alla strada statale. A nordest, tra le mobili fronde, era visibile lo scudo del Mauna Loa con la nube di ceneri che pareva solo una pennellata d'acquerello grigio sulla netta linea dell'orizzonte. A sinistra l'oceano era una presenza che toccava tutti i sensi tranne la vista: il sibilante sciacquio dei frangenti, l'odore delle alghe e della vegetazione marina, la carezza dei refoli di vento sulla fronte e le braccia nude, il lieve gusto salmastro sulle labbra. Eleanor girò a sinistra e imboccò il sentiero successivo, una serie di gra- doni di pietra vulcanica attraverso una fantasmagoria di fiori e di palme, e oltrepassò una piscina vuota sul limitare della spiaggia del Mauna Pele. Candida sabbia descriveva una curva di un chilometro verso il promonto- rio roccioso alla sua sinistra e la lunga lingua di rena e di bassa lava a de- stra. Eleanor notò alcune delle hale più costose alzarsi accanto all'acqua in tutt'e due le direzioni: ampi edifici in stile isole Samoa, di levigato legno di sequoia; la Grande Hale, con i suoi sette piani, era visibile attraverso il grappolo di palme lungo il tratto principale della spiaggia. Eleanor scorse fuori della baia onde di una certa altezza, le cui creste bianche si frangeva- no contro scogli e sabbia in zampilli di goccioline, ma all'interno della curva riparata della laguna l'azione delle onde diventava ampia, lenta, e si esauriva sulla spiaggia con un rumore quasi pigro. In quella perfetta mezzaluna di spiaggia non c'era nessuno, a parte due operai che rastrellavano la sabbia, un barista in camicia hawaiana nella ca- panna di paglia, aperta ai lati e adibita a bar, accanto alla piscina e Cordie Stumpf in una sedia a sdraio, appena fuori portata delle onde pigre. Elea- nor sorrise. Il costume da bagno di Cordie era a un pezzo, a fiori, e pareva acquistato negli anni Cinquanta e indossato quel giorno per la prima volta. Le braccia robuste e le cosce di Cordie erano bianche come l'impasto per il pane; il viso tondo era già arrossato e imperlato di sudore, per il sole del mattino. La donna non portava occhiali da sole e socchiuse gli occhi per vedere meglio Eleanor che si avvicinava sulla sabbia, ancora non tanto calda da costringerla a camminare in punta di piedi. — Buon giorno — disse Eleanor. Rivolse a Cordie un sorriso e poi lan- ciò uno sguardo al punto dove la placida laguna incontrava i robusti fran- genti. — Magnifica giornata, vero? Cordie Stumpf emise un borbottio e si schermò gli occhi. — Avrebbe mai pensato che qui non servono la colazione prima delle sei e mezzo? Come si fa a cominciare un giorno di vacanza se si può mangiare solo do- po le sei e mezzo? — Mmm — convenne Eleanor. Aveva lasciato nella hale l'orologio, ma di sicuro era uscita prima delle sette e mezzo. Si alzava presto quando ave- va lezione alla prima ora e nei viaggi estivi, ma in realtà non era un tipo molto mattiniero. Libera di fare i propri comodi, lavorava e scriveva e leg- geva fino alle due o alle tre di notte e dormiva fino alle nove. — Dove ha poi trovato la colazione? Cordie indicò la Grande Hale, senza girarsi a guardare il tetto che si al- zava sopra la cima delle palme. — Lì hanno una sorta di ristorante all'aper- to. — Si schermò gli occhi e guardò Eleanor. — Sa una cosa? O tutti, in questo impianto per ricconi, dormono davvero fino a tardi, oppure qui non c'è molta gente. Eleanor annuì. La luce del sole e il mormorio delle onde le davano una senso d'allegria. Non riusciva a immaginare che in un posto come quello potesse accadere qualcosa di brutto. Inconsciamente spostò sulla spalla la cinghia della borsa di paglia, sentendo contro il fianco il diario di zia Kid- der. — Vado a mangiare un boccone — disse. — Forse ci vediamo dopo. — Sì, certo — disse Cordie, riprendendo a fissare la laguna. Eleanor aveva quasi oltrepassato la capanna col tetto di stoppie (vide che si chiamava Bar del Relitto e allora notò il piccolo veliero rovesciato sul fianco nella sabbia fra gli alberi al di là della piscina) quando Cordie la chiamò. — Ehi, per caso stanotte ha sentito qualcosa? Eleanor sorrise. Immaginava che Cordie Stumpf non avesse mai udito le strida dei pavoni. Le spiegò che cosa aveva udito e visto. Cordie si limitò ad annuire. — Già, ma non mi riferivo agli uccelli. Qualcosa di ben diverso. — Esitò un momento, con la mano a riparare gli occhi socchiusi, il collo increspato in una serie di pieghe. — Ha per caso visto un cane? — Un cane? No. — Rimase in attesa. Il barista si appoggiò al lucido bancone e attese anche lui. — Ah, niente — disse Cordie Stumpf, lasciandosi andare sulla sdraio e chiudendo di nuovo gli occhi. Eleanor aspettò ancora un secondo, lanciò un'occhiata al barista, scam- biò con lui una mentale scrollata di spalle e andò a cercare la colazione. L'incontro a colazione era andato secondo i piani, nella Terrazza Privata prospiciente il Prato a Mare, e dopo il pasto Byron Trumbo accompagnò gli ospiti a fare il giro. Il corteo di golf cart uscì dal garage privato otto piani sotto la Suite Presidenziale, in un ordine stabilito dal protocollo: Byron Trumbo e Hiroshe Sato erano da soli nel primo mezzo, con Trumbo al volante; sul secondo, guidato da Will Bryant, c'erano l'anziano Masayo- shi Matsukawa, principale consigliere del giovane Sato, e, nel sedile poste- riore, Bobby Tanaka (l'uomo di Trumbo a Tokyo) e il giovane Inazo Ono, amico di baldorie di Sato e capo delle trattative. Il terzo cart era guidato dal direttore del Mauna Pele, Stephen Ridell Carter (in completo grigio come gli altri giapponesi) e trasportava il dottor Tatsuro, medico personale di Sato, e altri due collaboratori di quest'ultimo, Seizaburo Sakurabayashi e Tsuneo Takahashi, detto "Sunny". I tre cart seguenti erano pieni di legali e di compagni di golf dei due pezzi grossi. A discreta distanza seguivano al- tri tre cart con un piccolo gruppo di uomini della sicurezza di Trumbo e di Sato. I mezzi procedettero sul liscio asfalto, passando davanti al Belvedere delle Balene, e attraversarono il Prato a Mare... un tratto in graduale pen- dio, liscio come i tratti erbosi intorno alle buche da golf, fiancheggiato di aiuole fiorite e di piante esotiche. Un ruscello artificiale scorreva nel prato e sulle rocce di lava, formava cascatelle e laghetti, per poi terminare in uno stagno ornato di grotte artificiali che separava la zona della spiaggia da quella della Grande Hale. Attraversato uno schermo di palme da cocco, u- scirono sul lungomare. — Ogni giorno pompiamo più di ottanta milioni di litri d'acqua marina in quei laghetti e ruscelli — diceva in quel momento Trumbo. — E altri cinquanta milioni di litri per mantenere freschi gli stagni. — Roba riciclabile? — domandò Hiroshe Sato. Trumbo esitò un istante: aveva udito qualcosa come "loba licicabie". Quando voleva, Sato parlava senza la minima inflessione, ma ben di rado durante le trattative commerciali. — Riciclabile, certo — disse. — Le difficoltà non stanno nei laghetti e nei ruscelli d'acqua marina, ma nelle piscine e negli stagni di carpe koi. Abbiamo tre piscine principali per gli ospiti, più la laguna riservata al nuo- to, più ventisei piscine private per gli ospiti della Hale Gran Lusso nella Penisola Samoana. E l'acqua per gli stagni delle carpe dev'essere della stessa qualità di quella per le piscine. Tutto sommato, si arriva a più di set- te milioni di litri d'acqua dolce al giorno. — Ahhh — fece il signor Sato e sorrise. E poi, misteriosamente: — Koi. Hai. Trumbo spostò il cart verso destra e puntò a nord sul lungomare, lontano dal Bar del Relitto. — Quelli sono i laghetti di mante. Abbiamo un'illumi- nazione alogena di duemila watt, lì, sott'acqua. Di notte si può stare su quella roccia e toccare le mante attirate dalla luce. Sato emise un borbottio. — Questa spiaggia è adesso la più bella della costa del South Kona — disse Trumbo — e forse dell'intera costa occidentale dell'Isola Grande. Non può essere diversamente... vi abbiamo portato più di ottomila tonnel- late di sabbia bianca. La laguna invece è naturale. Sato annuì, sprofondando il mento nelle pieghe del collo. Aveva un viso impassibile e capelli neri che luccicavano nel sole ardente. Il corteo di cart oltrepassò padiglioni da pranzo, giardini e stagni, e attra- versò un'altra fila di palme da cocco. Hale alte e maestose si levavano su robuste palafitte. — Qui inizia la Penisola Samoana — disse Trumbo. I cart percorsero viottoli di fiori tropicali perfettamente curati, superaro- no ampi ponti e passarono fra massi di lava. — Come vede — continuò Trumbo — queste sono le più ampie delle duecento e passa hale del comprensorio. In ognuna possono dormire co- modamente dieci persone. Quelle laggiù, vicino alla punta della penisola, hanno piscina privata e maggiordomo. — Quanto? — domandò Sato. — Prego? — Quanto per notte? — Tremilaottocento a notte per il Bungalow Reale Samoano — disse Trumbo. — Esclusi mance e pasti. Sato sorrise e Trumbo ebbe l'impressione che il miliardario di Tokyo ri- tenesse quella cifra un buon affare. Lasciata la penisola, il corteo di cart si addentrò in una foresta di palme e di pini marittimi. — Quello è il più vicino dei tre centri per il tennis — disse Trumbo. — Ognuno ha sei campi in sintetico Flexi-Pave. Da qui può scorgere fra gli alberi il Centro Vela e il Centro Sub... si può noleggiare qualsiasi cosa, dai kayak e dalle canoe con bilanciere a una delle Motolance Classiche Mauna Pele... ne abbiamo sei... ognuna ci è costata trecentottantamila dollari. Il Centro Sub offre lezioni d'immersione con autorespiratore ed escursioni lungo la costa. In aggiunta, abbiamo parapendio, vela, windsurf, jet- boating, giù lungo la costa, perché i maledetti regolamenti ambientali ci proibiscono di farlo nella nostra laguna, escursioni con cena al tramonto, surf... tutte le solite stronzate. — Tutte re sorite stlonzate — convenne Sato. Dava l'impressione di es- sere sul punto di assopirsi, dietro gli occhiali da sole. Trumbo riportò indietro il corteo di cart, passando davanti alla Grande Hale, verso la laguna. — Quanto è vasto il complesso? — domandò Sato. — Tremilasettecento acri — rispose Trumbo. Sapeva che Sato conosce- va a memoria tutti i dati esposti sul prospetto illustrativo. — Compresi i quattordici acri del campo di petroglifi. I cart serpeggiarono nella sezione principale di hale, girarono intorno a- gli stagni costeggiati di rocce, dove le carpe dorate salivano a spalancare la bocca in superficie. Il corteo incontrò poca gente a piedi. Girando intorno allo schooner arenato dietro il Bar del Relitto, oltrepassarono una piscina di venti metri dove sguazzava solo una famiglia e poi attraversarono i giardini a frutteto. Trumbo notò che Sato non domandava come mai sulla spiaggia e nei prati all'ombra delle palme da cocco alte tre metri oziasse solo una decina di persone o poco più. Diede un'occhiata all'orologio: era ancora presto. — Quante stanze? — domandò Sato. — Ahhh... duecentoventi sei hale, ossia bungalow, e altre trecentoventi- quattro stanze nella Grande Hale. Ad alcuni nostri ospiti piace la vita senza comodità. Abbiamo un mucchio di stelle del cinema e di celebrità che si limitano a scomparire nelle hale per un paio di settimane... Madonna era qui il mese scorso. Norman Mailer e Ted Kennedy sono ospiti abituali, come pure il senatore Harlen. Preferiscono i bungalow della Penisola Sa- moana e vogliono essere lasciati in pace. In ogni bungalow c'è una noce di cocco con il nostro stemma: se la lasci sugli scalini, nessuno ti disturba... nemmeno per consegnare la posta. Altri preferiscono il servizio in camera e la TV via cavo e i telefoni cellulari e il fax a portata di mano. Cerchiamo di venire incontro ai gusti di tutti. Sato sporgeva le labbra come se avesse inghiottito un boccone amaro. — Un po' meno di seicento stanze — disse piano. — Due campi da golf. Di- ciotto campi da tennis. Tre piscine principali. Trumbo aspettò, ma Sato non disse altro. Intuendone il pensiero, Trum- bo disse: — Sì, abbiamo un mucchio di spazio e di servizi in rapporto al numero di stanze. Non cerchiamo di competere con lo Hyatt Regency in fatto di clientela numerosa... mi pare che quello abbia millecento e passa stanze... né con il Kona Village in fatto di quiete, né con il Mauna Kea in fatto di denaro vecchio... noi puntiamo alla qualità della clientela. Il nostro servizio di assistenza agli ospiti è più efficiente, le nostre attività ricreative sono fatte su misura per le celebrità, non per il divertimento delle famiglie, e il nostro centro commerciale è più in carattere con i negozi di Tokyo o di Beverly Hills. I nostri ristoranti sono migliori... ne abbiamo cinque a pian- terreno, sa, più il servizio in camera nella Grande Hale e a domicilio nei Bungalow Reali Samoani... i nostri campi da tennis sono meno affollati e i nostri campi da golf sono progettati meglio. — Golf — disse Sato, pronunciando perfettamente la l. Il suo tono pare- va quasi ansioso. — La prossima tappa dopo questa — disse Trumbo, e puntò il cart verso un masso tondeggiante. Dal taschino tolse un telecomando, lo rivolse al masso di lava e premette l'unico pulsante. Un pannèllo delle dimensioni di una porta da garage scivolò in alto nella roccia e il corteo passò dal sentie- ro d'asfalto a un tunnel vividamente illuminato. Dal tavolino per colazione nel Belvedere delle Balene, un'ampia area da pranzo al primo piano, che sporgeva sull'erba e sui giardini come la prua di una nave in partenza per l'oceano, Eleanor aveva guardato passare il corteo dei cart. Aveva scorto solo facce giapponesi e, avendo già visto analoghi gruppi di turisti in molti dei posti più bizzarri del mondo da lei visitati, si domandò se i giapponesi non avessero, negli impianti superlussuosi, lo stesso istinto gregario che mostravano negli ambienti più da ceto medio. La lanai era ampia e piacevole; le finestre a fisarmonica erano aperte e ogni alito di brezza portava il profumo di fiori. Il pavimento era di scuro eucalipto levigato, i tavoli erano di un legno più chiaro, le sedie di costoso bambù e di vimini. I tovaglioli erano di lino rosso; i bicchieri di cristallo. Nell'estesa tolda c'era spazio per più di duecento persone, ma Eleanor ne vide soltanto una decina. Il personale addetto al servizio era composto solo di donne, tutte hawaiane, tutte aggraziate nei movimenti e vestite di muu- muu a fiori. Un lieve filo di musica classica sgorgava da altoparlanti na- scosti, ma la vera musica era il sussurro delle fronde di palma e il lontano mormorio dei frangenti. Eleanor aveva studiato il menù, notando alcune specialità come pancetta affumicata portoghese e toast francese con sciroppo di cocco, poi aveva ordinato una tipica focaccina inglese e caffè. Il caffè era molto buono, Ko- na appena macinato, e Eleanor lo sorseggiò con piacere, guardandosi in- torno. Nella lanai era l'unica a mangiare da sola. Per lei non era un'esperienza nuova: in tutta la sua vita da adulta, Eleanor Perry sì era sentita come una solitaria mutante in un pianeta di coppie clonate. Viaggiare, andare al ci- nema o a teatro o al balletto, cenare fuori... perfino nell'America postfem- minista una donna seduta da sola a un tavolo di ristorante era una cosa in- solita. In molti altri paesi da lei visitati nei vagabondaggi estivi, era addirit- tura una cosa pericolosa. Eleanor se ne fregava: quel mattino nella lanai le pareva naturale essere l'unica persona, uomo o donna, a tavola da sola. Per anni, se mangiava fuo- ri, si era portata un libro da leggere (infatti in quel momento teneva sul ta- volo il diario di zia Kidder) ma a un certo punto, nei primi tempi da laurea- ta, aveva capito che il libro era uno scudo, un cuscinetto contro la solitudi- ne rispetto a tutte le coppie e le famiglie felici intorno a lei. Così di tanto in tanto leggeva ancora durante i pasti (e di certo, pensava, era uno dei grandi vantaggi della condizione di single) ma non si precipitava più su un libro già all'inizio del pasto. Era diventata una voyeur da ristorante, una vera e- sperta nel giudicare i commensali. Compativa le famiglie e le coppie, tanto impegnate nelle loro solite conversazioni da non vedere i drammi psicolo- gici in atto in ogni ristorante e in ogni locale pubblico. C'erano pochi drammi, quella mattina, nella lanai del Mauna Pele riser- vata alla colazione. Solo altri sei tavolini erano occupati, tutti accanto a fi- nestre aperte e tutti da una coppia. Eleanor valutò con un'occhiata i clienti: americani, a parte la giovane coppia giapponese e l'altra, di una certa età, forse tedesca; costosi abiti da vacanza, gli uomini con taglietti di rasoio e abbronzatura, le donne con acconciature corte ed eleganti e l'abbronzatura meno marcata ora di moda a causa delle preoccupazioni per il cancro alla pelle, conversazione a bassa voce o addirittura silenzio, mentre gli uomini leggevano attentamente il Wall Street Journal e le donne studiavano il programma con le attività del giorno, posto su ogni tavolino, oppure si li- mitavano a mangiare con aria inespressiva. Eleanor guardò fuori, al di sopra delle palme, la piccola baia e l'oceano più in là. Qualcosa di grosso e di grigio interruppe la distesa d'acqua, a me- tà strada verso l'orizzonte: una pinna raccolse la luce e un alto zampillo se- gnò il punto dove la gigantesca sagoma era scomparsa con la stessa repen- tinità con cui era emersa. Eleanor trattenne il fiato e guardò con attenzione, finché non vide uno zampillo a circa venti metri dal punto dove il mammi- fero aveva fatto la prima comparsa. Il Belvedere delle Balene meritava proprio quel nome. Eleanor guardò gli altri clienti. Pareva che nessuno avesse visto niente. Una donna, a tre tavoli di distanza, si lamentava della limitata possibilità d'acquisti nei negozi del posto; voleva tornare a Ohau. Suo marito annuì, addentò il toast e continuò a leggere il giornale. Eleanor sospirò e prese il foglio con l'elenco delle attività speciali della giornata al Mauna Pele. La stampa era in corsivo, su pesante carta grigia, raffinata come un cartoncino d'invito. Vide i soliti divertimenti che poteva aspettarsi in un impianto come quello (nessuno dei quali le interessava) ma notò due proposte: alle nove e trenta, un giro d'arte guidato dal dottor Paul Kukali, soprintendente artistico e archeologico del Mauna Pele; alle tredi- ci, una passeggiata fra i petroglifi, anche quella guidata dal dottor Kukali. Eleanor sorrise: quel povero dottor Kukali si sarebbe stufato di lei, prima della fine della giornata. Guardò l'orologio e rivolse un cenno alla giovane cameriera in attesa di riempirle ancora la tazza di caffè. Al di là della baia, la gibbosa balena e- merse in piena vista e schiaffeggiò l'acqua in quella che Eleanor ritenne (pur sapendo che la sua era la peggior forma della mania di attribuire agli animali qualità umane) una celebrazione della magnifica giornata. Trumbo guidò il corteo lungo il tunnel scavato nella lava. Lampadine in- cassate in alto fornivano pozze di luce. — Il guaio con molti di questi maledetti impianti turistici — diceva in quel momento Trumbo a Hiroshe Sato — è che la maggior parte dei servi- zi sussidiari intralcia gli ospiti. Qui non accade. Giunse a un ampio incrocio e girò a destra. Sulla parete, cartelli bianchi indicavano il percorso. Passò un altro cart di servizio, poi una donna con la divisa dell'albergo in bicicletta. Grandi specchi rotondi, posti in alto nella parete di lava, permettevano a guidatori e pedoni di scorgere al di là degli angoli. — Teniamo qui sotto tutto il materiale sussidiario — continuò Trumbo, indicando, mentre passavano, degli uffici illuminati. Sul tunnel principale si aprivano finestre, come se quella fosse una semplice zona pedonale ricca di negozi. — La lavanderia... in alta stagione, lavora più di qualsiasi altro posto di Hawaii. In ogni stanza o hale ci sono dodici chili di biancheria da tavola e da letto. Qui... sente il profumo? Quello è il panificio. Otto panet- tieri in servizio. Questo posto ronza tutta la notte... dovrebbe sentire il pro- fumo alle cinque di mattina! Bene, alla nostra sinistra c'è il fioraio... ab- biamo subappaltato a un'impresa locale, ma qualcuno deve pur tagliare e disporre diecimila confezioni floreali alla settimana. Lì c'è l'ufficio del no- stro astronomo interno... ah, lì c'è l'ufficio del vulcanologo... il dottor Ha- stings questa settimana è su al vulcano, ma sarà qui per parlare con noi domani mattina... Bene, il nostro macellaio interno; facciamo venire il manzo dal ranch Parker, su vicino a Waimea... la zona dei paniolo, ossia i cowboy hawaiani... e qui c'è l'ufficio del soprintendente all'arte e all'arche- ologia... Paul è un diavolo d'uomo, nativo di Hawaii, laureato a Harvard, ed è stato il nostro peggiore nemico quando costruivamo il Mauna Pele. Così, all'inferno, l'ho assunto. Avrà pensato che è meglio un diavolo che si conosce, sa cosa voglio dire? Hiroshe Sato fissò con occhi vacui il miliardario americano. Trumbo girò a sinistra in un altro tunnel. Alcune persone guardavano da vani di porta e da finestre illuminate e salutavano con un cenno, ricono- scendo il proprietario. Trumbo rispondeva con ampi gesti e di tanto in tan- to salutava per nome i dipendenti. — Qui la sicurezza... Terreni e manu- tenzione... Il reparto idrico ha un ufficio speciale... Oceano e coordinamen- to ambientale... Massaggiatrici, qui abbiamo massaggiatrici favolose, Hi- roshe... Direzione vita selvatica, avrà notato che abbiamo uccelli e mangu- ste e altri animali... e lì i trasporti... — Quanti? — disse Sato. — Eh? Quanti cosa? — domandò Trumbo. Dietro di loro, Will Bryant si era messo a ridere a una battuta del signor Matsukawa. — Quanti impiegati? — Ah, circa milleduecento — disse Trumbo. Sato abbassò sul petto il mento. — Cinquecento e passa stanze. Diciamo una capacità media di... ottocento ospiti? Trumbo annuì. Sato aveva centrato il numero. — Un impiegato e mezzo per ogni ospite. — Eh, sì — disse Trumbo. — Ma sono ospiti di classe mondiale. Ospiti che, se sono a Bangkok, prendono un'intera suite all'Oriental. Ospiti che passano l'estate nei migliori alberghi privati svizzeri. Si aspettano il mi- glior servizio del mondo. E lo pagano. Sato annuì a mezzo. Trumbo sospirò e risalì una rampa. Una porta si aprì automaticamente e uscirono nella vivida luce del giorno, strizzando gli occhi. — Ma questi sono tutti particolari di second'ordine, Hiroshe. Ecco quello per cui siamo venuti stamattina. — Il corteo avanzò nell'ombra di alte palme da cocco verso i bassi edifici di vetro e di legno di cedro che circondavano la piaz- zola di partenza. — Ahhh — esalò Hiroshe Sato, alzando la testa e piegando le labbra nel primo sorriso di quel giorno. — Golf. 8 Il fumo si piega su Kaliu. Credevo che i miei fiori lehua fossero tabù. Gli uccelli di fuoco li mangiano tutti. Becchettano i miei lehua fino a farli svanir Canto di Hi' iaka, sorella di Pele, sul tradimento di Pele 14 giugno 1866, vulcano Kilauea Ossa peste, muscoli doloranti e una stanchezza così opprimente da met- tere pensiero mi farebbero rinunciare alla ulteriore fatica di scrivere questa pagina, ma nulla potrebbe impedirmi d'annotare l'euforia, il brivido, la ma- estosità e il puro, incomunicabile terrore delle ultime ventiquattro ore. Scrivo queste righe alla luce dell'infocata opera di Madame Pele. Credo d'avere già scritto che Hilo pareva "il vero paradiso del Pacifico" e lo è davvero, in termini di vie fiorite, di pittoreschi cottage dipinti di bianco, di vegetazione esotica: il lauhala, il pandano, abbassa dappertutto il suo funereo fogliame e manda radici aeree verso i marciapiedi di legno come se si preparasse a unirsi agli altri pedoni nel loro soggiorno serale, mentre i banani lasciano pendere i loro caschi violacei di boccioli ancora chiusi come se fossero superbe medaglie e ogni prato è ornato di festoni di gardenie, eucalipti, peri delle Indie, bambù, mangostani, kamani, anone, palme da cocco e un vero giardino di delizie botaniche. I missionari che popolano questo particolare Giardino terrestre mi riservarono tale atten- zione in fatto d'inviti mondani che trascorse un'intera frustrante settimana, prima che potessi iniziare il viaggio al vulcano. Per chissà quale motivo, anche il signor Clemens fu trattenuto allo stesso modo, perciò iniziammo insieme la nostra avventura. Dovrei a questo punto accennare al fatto che i residenti di Hilo, sia nativi sia trapiantati, vanno regolarmente a cavallo, ognuno con la maggiore abi- lità e col maggiore zelo che mi sia mai accaduto di vedere; e tutti, tranne le signore più anziane, cavalcano a gambe divaricate, con perfetta noncuran- za. Perciò quando scelsi la cavalcatura, un bel roano con una sella messi- cana tutta fronzoli e staffe protette da falde di cuoio per salvaguardare gli stivali nei percorsi fra gli arbusti, non fui sorpresa nel vedere che avrei do- vuto cavalcare nella maniera locale. Tutti i cavalli scelti per quell'avventu- ra portavano intorno al collo almeno venti piedi di corda da cavezza e ri- gonfie bisacce da sella, con pagnotte, banane, bottiglie di tè. Il nostro gruppo per questa escursione comprendeva il più noioso dei gemelli Smith, il giovane signorino Thomas McGuire (nipote della signo- rina Lyman), il corpulento reverendo Haymark e il nostro sfacciato corri- spondente, il signor Clemens. Il signorino Wendt, che per primo aveva proposto l'ardimentoso assalto al reame di Pele, si era ammalato e dal letto aveva in pratica ordinato a noi tutti di partire senza di lui. Avevo, lo confesso, sentimenti ampiamente contraddittori riguardo al- l'inclusione del signor Clemens nel nostro allegro gruppetto: da una parte, la sua cinica presenza minacciava di ridurre la dimensione spirituale di quella che forse sarebbe stata un'esperienza trascendente; dall'altra, i gio- vani Smith e McGuire erano davvero noiosi, totalmente incapaci d'arguzia o del normale rigore d'una prolungata conversazione, e l'asmatico reveren- do Haymark pareva interessato solo ai Galati e al pranzo. Per cui accolsi con qualcosa d'assai vicino al sollievo le sopracciglia espressive, i ricci ri- belli e i mustacchi aggressivi del signor Clemens. La nostra guida, Hananui, vestita e inghirlandata nel variopinto stile dei nativi, non sprecò tempo nelle presentazioni o nelle spiegazioni del viag- gio in programma, ma spronò il cavallo e ci guidò al galoppo fuori da Hilo. Allora fui costretta a scegliere se fingere di guidare il cavallo o aggrap- parmi a due mani al corno della sella solo per restare in groppa all'animale. Scelsi quest'ultima soluzione. In breve fummo fuori vista delle graziose casette e dei lindi campanili, ci tuffammo in una giungla più selvaggia di qualsiasi cosa di cui avessi espe- rienza e continuammo la salita fra la lussureggiante vegetazione, seguendo una dura pista di lava, larga non più di ventiquattro pollici. Aggrappata al corno della sella, tenendo penzoloni intorno al collo, grazie al sottogola, il cappello (largo, ma a tesa floscia) acquistato mesi prima a Denver, potevo solo badare che i rami più bassi e i festoni di rampicanti non mi sbalzasse- ro dal cavallo, una caparbia creatura che pensavo si chiamasse "Leo", fin- ché non scoprii più tardi il termine della lingua hawaiana per indicare i ca- valli... lio. Usciti dalla foresta tropicale, ben presto ci trovammo ad attra- versare gli altrettanto folti campi di canna da zucchero e facemmo una so- sta, dopo circa un'ora di cammino da Hilo, durante la quale Hananui distri- buì tè freddo in tazze di stagno. Dopo l'intervallo per il tè, uscimmo dai campi di canne e dagli ultimi bo- schetti per entrare nella pahoehoe, o lava liscia, che risaliva il pendio della montagna fin dove arrivava la vista. Una simile devastazione, che conti- nuava, come vedemmo, per almeno ventitré miglia, sarebbe bastata a far volgere la schiena anche a un'incallita viaggiatrice come la sottoscritta, se non fosse stato per la profusione di felci e di graminacee che a ogni curva ammorbidiva la nera estrusione. Mentre continuavamo la salita, con il Pa- cifico che luccicava molto più in basso dietro di noi nella vivida luce del pomeriggio, identificai facilmente almeno venti specie di felci, comprese l'incantevole Microlepia tenuifolia, la comune sadleria, la Gleichenia ha- waiensis simile a fil di ferro e la Metyrosideros polymorpha, la locale ohia, dalle piccole foglie e dai fiori cremisi. L'umana compagnia non era di pari colorita varietà. Lì, nei campi di la- va, la pista si era allargata e il nostro gruppetto si era suddiviso in coppie socievoli. Hananui e il volubile signor Clemens guidavano la comitiva. I signorini Thomas McGuire e Smith (nessuno chiamava mai col nome di battesimo i gemelli Smith, tant'era faticoso distinguere l'uno dall'altro) ve- nivano dopo, mentre il reverendo Haymark e io chiudevamo la fila. L'ec- clesiastico pareva a disagio in sella e anche il piccolo cavallo pareva a di- sagio per la mole del suo cavaliere: la loro combinata mancanza d'entusia- smo rallentava l'andatura più di quanto non l'avrei rallentata io, se gli altri si fossero adeguati alla mia lentezza. Il signorino Wendt ci aveva detto che non si trattava di un viaggio facile, più di trenta miglia, per la maggior parte nei vasti campi di lava, con un di- slivello di quattromila piedi, ma io non avevo previsto di sentirmi così sfi- nita quando nel tardo pomeriggio arrivammo a quella che Hananui chia- mava "Casa Mezzavia", un termine che aveva evocato immagini di como- de poltrone, tè bollente e focaccine calde, ma che si riferiva invece a una cadente capanna di paglia. Ciò malgrado, forse sarei crollata al suo riparo, cadeva un'acquerugiola e il mio cappello gocciolava dalla tesa inzuppata, ma la Casa Mezzavia era chiusa a doppia mandata. Ora Hananui era visibilmente preoccupato che non raggiungessimo pri- ma del buio la nostra meta, e dopo avere legato per la cavezza il cavallo, girò intorno a ciascuno di noi per assicurarsi che avessimo calzato gli spe- roni... pesanti e rugginosi aggeggi messicani con rotelle larghe un pollice e mezzo. Alla domanda del signor Clemens, Hananui ammise che ci atten- devano almeno cinque ore di dura cavalcata, senza un posto dove riposare o trovare acqua potabile. Poco dopo avere lasciato la Casa Mezzavia, rimasi parecchio indietro, talmente esauste erano le mie membra per l'inconsueta posizione su quel- l'animale dal petto a barile. Avevo a malapena la forza di spronare lo stan- co cavallo e di tenermi aggrappata al corno della sella. Scoprii che se gira- vo di lato la testa, l'acqua raccolta dalla tesa del cappello (la pioggerella era intanto diventata acquazzone) cadeva a terra senza inzuppare o le mie gambe o il collo del cavallo. Rimasi sorpresa, quando alzai gli occhi e scoprii che il signor Clemens mi si era affiancato. La sua sollecitudine, se di questo si trattava, m'irritò e spronai "Leo" a nuove vette di laboriosa indifferenza. Il corrispondente fumava uno dei suoi terribili sigari la cui punta accesa era protetta dalla pioggia grazie alla maggiore ampiezza della tesa del suo sombrero. Notai, con una sensazione assai prossima all'invidia, che il si- gnor Clemens indossava anche una sorta di spolverino cerato lungo fino alle caviglie che, per quanto tenesse di sicuro caldo, in quel clima, pareva ripararlo con grande efficacia. Le mie sottane e gli strati d'abbigliamento da cavallo di sicuro pesavano (avevo fatto il calcolo durante i passi più noiosi delle spiegazioni del reverendo sui Galati) all'inarca mille libbre, tanto erano inzuppati dalla pioggerella serale. "Magnifico paese, vero?" disse l'ex timoniere fluviale. Ne convenni, nel modo meno impegnativo possibile. "Gentile, da parte dei nativi, profumare per noi l'aria a questo modo, ve- ro?" persistette lui. "E scegliere questa particolare forma di luce da tregen- da." "Luce da tregenda?" mi stupii: non c'erano lampi e tuoni. Il signor Clemens si girò e accennò alle nostre spalle; per la prima volta in varie ore, anch'io mi girai e guardai a oriente. Dove ci trovavamo noi, sul pendio di lava, pioveva; ma lontano, verso il mare, il sole ormai basso incendiava le onde d'oro abbacinante e di bianco. Altre nuvole e cumuli temporaleschi gettavano sul mare la propria ombra e quelle ombre si mo- vevano come animali furtivi in cerca di riparo dall'universale splendore. Alla nostra sinistra, dove la fioca luce della sera attraversava la vallata fra il Mauna Kea e il Mauna Loa, i raggi di sole trapassavano le nuvole, a fiot- ti e a fasci quasi orizzontali, illuminando baldacchini di giungla così ver- deggiante che quel verde non pareva affatto di questa terra. "Induce quasi a domandarsi perché i pagani non si siano arresi e conver- titi al cristianesimo già prima dell'arrivo dei missionari, vero?" proseguì con la sua cadenza strascicata il signor Clemens. Cavalcava con l'arrogante facilità di chi ha trascorso in sella gran parte della vita. Rivoli d'acqua gli gocciolavano dal sombrero. Mi raddrizzai sulla sella, tenendo con la sinistra le redini, come se fossi responsabile della direzione del cavallo. "Lei non è amico della chiesa lo- cale, vero, signor Clemens?" Il mio non invitato compagno continuò a fumare per qualche momento, in quello che poteva essere un silenzio di meditazione. "Quale sarebbe questa chiesa, signorina Stewart?" "La chiesa cristiana, signor Clemens." Ero inzuppata e dolorante, del- l'umore inadatto ad accettare quella che forse nel Missouri o nella Califor- nia poteva passare per scherzosa canzonatura. "Quale chiesa cristiana, signorina Stewart? Anche qui, i pagani ne hanno parecchie fra cui scegliere." "Sa benissimo a quale mi riferisco, signor Clemens" replicai. "I suoi commenti hanno mostrato disprezzo per gli sforzi di quei coraggiosi mis- sionari. E disprezzo per la fede che li ha spinti così lontano dalla propria comoda casa." Dopo un momento il signor Clemens annuì lievemente e toccò la tesa del sombrero in modo da far colare via l'acqua. "Un tempo conoscevo una missionaria che fu mandata qui nelle isole Sandwich. Cosa fuor del comu- ne, davvero. Fu inviata da St. Louis. A dire il vero, conoscevo sua sorella... una donna più generosa di quanto non piacerebbe mai incontrare... diami- ne, se volevi una cosa e quella gentile signora l'aveva, potevi ottenerla in un minuto. E data di buon grado." Il corrispondente parve perduto nella felice contemplazione di quel ri- cordo; perciò, dopo qualche momento in cui non ci furono altri rumori se non il picchiettio della pioggia e l'acciottolio di zoccoli dei nostri cavalli, dissi: "E cosa le accadde?". Il signor Clemens girò nella mia direzione i mustacchi e il sigaro acceso. "A chi?" "Alla missionaria!" risposi con una certa esasperazione. "Alla sorella della sua amica, la missionaria che venne qui nelle isole Sandwich." "Ahhh" fece il corrispondente, togliendo di bocca il sigaro per far cadere la cenere battendolo sul pomo della sella. "Be', se la sbafarono." Confesso d'avere sbattuto le palpebre. "Prego?" "Se la mangiarono" disse il signor Clemens, stringendo di nuovo fra i denti il sigaro. "I nativi" mormorai, sorpresa e sconvolta. "Gli hawaiani." Il signor Clemens mi guardò con un'aria che forse s'avvicinava allo stu- pore. "I nativi, certo. A chi pensava che mi riferissi, signorina Stewart? Agli altri missionari?" "Che cosa orribile!" Lui annuì, ora chiaramente interessato al suo stesso racconto. "Dissero d'essere spiacenti. I nativi, cioè. Quando la famiglia della povera signora mandò a prendere le sue cose, i pagani dissero d'essere davvero dispiaciuti. Dissero che si era trattato di un incidente. Dissero che non sarebbe più ac- caduto." Nella crescente oscurità potei solo fissarlo. I nostri cavalli posavano con cautela i piedi sulla lava bagnata. "Un incidente" dissi, con chiaro sprezzo. Lui spostò il sigaro. "Ne convengo, signorina Stewart. Non fu un inci- dente. Diamine, gli incidenti non esistono." Alzò il braccio e col dito indi- cò il cielo. "Fu la Divina Provvidenza a fare sì che la sorella della mia a- mica di St. Louis venisse mangiata... tutto fa parte del Piano Cosmico!" Aspettai. Il signor Clemens si girò dalla mia parte, mostrò sotto i mustacchi quello che poteva essere un sorriso e spronò il cavallo, girando attorno al reve- rendo Haymark e ai due giovanotti, ora in un silenzio imbronciato, per af- fiancarsi di nuovo a Hananui. Davanti a noi, al di là di uno schermo d'alberi che formavano il primo boschetto visto da parecchie ore, il cielo e la terra ardevano di rosso, con un bagliore più intenso del riflesso del tramonto ormai passato. Intorno a noi, le pozzanghere si erano trasformate in chiazze color cremisi, al punto, lo confesso, da farmi venire in mente immagini di pagani che avessero portato sulla nera roccia vittime di sacrifìci umani e si fossero lasciati alle spalle quelle pozze di sangue. Guardavo lo splendore del vulcano. Ci avvicinavamo al fuoco di Madame Pele. Per ammazzare il tempo in attesa della conferenza d'arte, Eleanor fece due passi nel comprensorio del Mauna Pele. Cominciava a capire la dispo- sizione. A est della Grande Hale c'erano i giardini, un bosco di palme, uno dei tre centri tennistici e tutt'e due i campi da golf a 18 buche, uno che ser- peggiava a nord verso la costa, l'altro a sud. A ovest della Grande Hale c'e- rano il Prato a Mare, altri giardini, cascatelle e stagni, il Bar del Relitto, il laghetto delle mante e seicento metri di spiaggia a mezzaluna. Camminan- do verso sud lungo la spiaggia, si poteva vedere la fitta foresta dove si tro- vava la maggior parte delle hale... la sua compresa. Camminando verso nord lungo la spiaggia e seguendo la lunga penisola rocciosa in direzione del mare, si finiva per incontrare i cosiddetti Bungalow Samoani: grandi hale con piscina e prato privati. All'estremo est, sud e nord c'erano i campi di lava: cumuli di a'a che si estendevano per chilometri. La baia e la spiag- gia, come pure il riparato centro per la vela sul lato nord della penisola, e- rano gli unici punti dove ci si poteva avvicinare al mare: a nord e a sud le scogliere sopportavano l'assalto diretto del Pacifico. Eleanor aveva già localizzato la zona dei petroglifi... un sentiero da jog- ging attraversava il limitare sud del campo di lava e scendeva fino alla co- sta, proprio al di là dei fairway del campo da golf meridionale. Un piccolo cartello all'inizio del sentiero spiegava che i disegni su quelle rocce erano stati dipinti dai primi hawaiani ed erano rigorosamente tutelati dal Mauna Pele. Altri cartelli avvertivano i patiti del jogging di restare sul sentiero e di tornare prima del buio, dal momento che i campi di a'a erano pericolosi, pieni di crepacci e di condotti di lava crollati. Dopo un rapido esame del comprensorio, Eleanor tornò alla Grande Ha- le; poteva curiosare in giro ancora per venti minuti, prima che iniziasse il giro d'arte. Passò davanti alla scalinata che portava al Belvedere delle Ba- lene e ad alcuni altri ristoranti più lussuosi, chiusi durante il giorno, e salì l'ampia scalinata che portava all'atrio della Grande Hale. Si rese conto che quella hale era di per sé uno stabilimento turistico: gli ospiti potevano re- starsene nei confini di quel singolo edificio e avere l'impressione di avere fatto un'esotica vacanza. L'esterno dell'edificio poteva mettere fuori strada: con il finto tetto di stoppie e l'ampia sporgenza, con i suoi sette piani di terrazze traboccanti di piante in vaso la Grande Hale si adattava al tema del villaggio turistico, "capanna di nativi"; ma visto dall'atrio o dalle sale interne, l'edificio era raffinato all'estremo. Costruita contro un pendio di colle, a chi si avvici- nasse alla veranda orientale la Grande Hale mostrava solo cinque piani. Entrando dalla parte dell'oceano, come Eleanor aveva fatto, si passava da- vanti a negozi e ristoranti, si entrava in una foresta di bambù e si seguiva un sentiero fra erbose colline a terrazze al di là di laghetti di carpe koi e di penzolanti grappoli di orchidee. L'interno della Grande Hale era aperto al cielo: ogni terrazza interna formava un gradino un po' più lontano sull'atrio boscoso con rampicanti e piante in fiore che pendevano da portavasi. Elea- nor si disse che Babilonia aveva avuto di sicuro un aspetto del genere. L'atrio si trovava due piani più in alto del livello inferiore, con il suo luc- cicante pavimento a piastrelle, i suoi due sorridenti Buddha dorati all'in- gresso, aperto agli alisei che soffiavano senza ostacoli dai gradini dell'en- trata orientale verso la terrazza a ovest sopra il Belvedere delle Balene. E- leanor scorse alcuni dipendenti dell'albergo muoversi con discrezione nelle sale assolate, ma la sua prima impressione fu quella di vuoto e di silenzio rotto solo dai frangenti, dagli uccelli - dentro e fuori, poiché atrio e vesti- bolo avevano una varietà di grosse gabbie dove cinguettavano e ciarlavano cacatua, are, parrocchetti e altri uccelli esotici - e dal costante mormorio delle fronde. Un tempo Eleanor aveva avuto una lunga relazione con un architetto e ora valutò con cognizione di causa i costosi arredamenti, gli eleganti otto- ni, il lucido cedro e il mogano intagliato, le modanature di scura acacia delle finestre, le raffinate cornici di marmo degli ascensori e le verande in stile giapponese, tutte cose che in qualche modo si fondevano in una for- mulazione ambientale che era, incredibilmente, postmoderna e attraente insieme. Quell'edificio evitava la volgarità tipo Hyatt/Disney, senza rinun- ciare alla forza d'impatto. Almeno così Eleanor immaginava che si sarebbe espresso il suo ex fidanzato. Al momento lei pensava che le sarebbe piaciuto andare dal parrucchiere. Di solito portava i capelli corti (un'amica le aveva detto che assomigliava a Amelia Earhart) ma in primavera li lasciava crescere, proprio per farseli ta- gliare nel paese che avrebbe visitato. In genere, dopo essersi sistemata nel- la camera d'albergo, per prima cosa andava in giro per le vie alla ricerca di un locale dove tagliassero i capelli alle donne: un salone di bellezza, anche se già a cinque anni zia Beanie le aveva insegnato a ridere di quell'eufemi- smo. E mentre si sottoponeva a qualsiasi taglio di capelli andasse di moda in quella città, in quella nazione, quasi sempre superava le barriere lingui- stiche e culturali e faceva amicizia con altre donne. Terminato il taglio dei capelli, e a volte delle unghie, possedeva sulla città informazioni sufficien- ti a trovare i veri ristoranti, a fare acquisti nei veri negozi e mercati, ad ammirare i veri spettacoli; e spesso finiva per pranzare e per andare in giro con alcune delle donne conosciute sotto il casco del parrucchiere. Aveva sopportato tagli di capelli a Mosca e a Barcellona, a Reykjavik e a Ban- gkok, a Kyoto e a Santiago, all'Avana e a Istanbul... tanto, i capelli sareb- bero ricresciuti e una volta tornata al campus in autunno lei li avrebbe fatti tagliare come le piaceva. Nel frattempo, nel paese che visitava, era spesso scambiata per una del posto, e poiché il secondo passo del suo programma era quello di acquistare qualche abito nei negozi frequentati dalle donne conosciute nei saloni di bellezza, anche questo aiutava a superare le barrie- re. Ora Eleanor si domandò dove le dipendenti del Mauna Pele si facessero tagliare i capelli. Non lì, di sicuro. Il salone di bellezza della Grande Hale non aveva niente di diverso da quelli di Beverly Hills. Eleanor sapeva che le cameriere arrivavano in autobus dalla costa del Kona, lontana vari chi- lometri, e alcune addirittura da Hilo. Guardò l'ora: mancava poco al giro d'arte. Il prospetto delle attività del giorno diceva solo di trovarsi nei pressi dei Buddha dell'atrio principale, ma Eleanor non vide nessuno in attesa. I Buddha parevano di bronzo dora- to e, a un esame più attento, rivelarono di non essere affatto due Buddha. Eleanor aveva visitato i paesi bagnati dal Pacifico abbastanza da identifica- re le due statue come "discepoli buddisti" inginocchiati, palme unite in preghiera, corpi magri sotto le dorate vesti bronzo-e-specchio. Pensò che probabilmente provenivano dalla Thailandia o dalla Cambogia. — Thailandia — disse una piacevole voce alle sue spalle. — Tardo di- ciottesimo secolo. Eleanor si girò e vide un uomo all'incirca della sua statura, forse più an- ziano di qualche anno, anche se il suo viso aveva la tipica pelle liscia delle persone d'ascendenza asiatica o polinesiana. I suoi capelli erano tagliati corti, ma mostravano una massa di ricci, in parte brizzolati. I suoi occhi e- rano grandi ed espressivi, dietro i rotondi occhiali Armani. L'uomo era ben rasato: la sua pelle aveva il colore marrone carico del legno usato per le modanature interne della Grande Hale. Indossava un'ampia camicia di seta blu goffrata, calzoni di lino e sandali. — Il dottor Kukali? — domandò Eleanor, porgendo la mano. La stretta fu piacevole. — Paul Kukali — disse l'uomo, nella stessa voce baritonale che l'aveva fatta girare. — E a quanto pare lei è il mio intero gruppo per il giro d'arte di oggi. Posso domandarle come si chiama? — Eleanor Perry. — Piacere di conoscerla, signora Perry. — Dal momento che il gruppo è così ristretto, basterà Eleanor — disse lei, girandosi di nuovo verso la scultura e guardando la gemella dall'altra parte dell'ingresso. — E questi discepoli sono meravigliosi. Paul Kukali la guardò con apprezzamento. — Ah, sa a quale uso erano destinati. Ha notato le piccole differenze nel loro aspetto? Eleanor arretrò di un passo. — Ora sì. I nasi sono leggermente diversi. Le vesti variano. Tutt'e due hanno i lunghi lobi che indicano nascita reale... — Lakshana — disse il soprintendente all'arte e all'archeologia. — Sì, ma le orecchie di questo qui sono solo... più grandi — ridacchiò Eleanor. Il soprintendente si avvicinò e pose la mano sulla superficie a foglia d'o- ro e lacca nera dell'esemplare. — Sono ritratti idealizzati dei donatori. Si nota la stessa caratteristica nelle pale d'altare del Rinascimento in Europa. I donatori resistevano di rado al desiderio di vedere la propria immagine in mostra accanto all'oggetto del loro culto. Eleanor diede un'occhiata intorno, alle sculture, ai tavolini intagliati, ai tendaggi, alle ciotole, alle figure in bassorilievo, agli altari buddisti visibili nel vestibolo, nei corridoi adiacenti e nelle terrazze più in alto. — Questo posto dev'essere un autentico museo. — E proprio un museo — disse Paul Kukali, con un lieve sorriso. — So- lo, ho convinto il signor Trumbo a non mettere a ogni oggetto placche d'ot- tone e descrizioni. Ma qui, sparsa per la Grande Hale e gli altri edifìci del Mauna Pele, c'è la più bella collezione d'arte asiatica e del Pacifico reperi- bile nello Stato delle Hawaii... può competere con noi solo il Mauna Kea Village, più su lungo la costa, e solo perché Laurence Rockefeller era lui stesso un collezionista d'arte. — Perché ha convinto il signor Trumbo a non applicare targhette a que- sti tesori? — domandò Eleanor. Aveva attraversato l'atrio per ammirare un tansu giapponese, rosso, alto almeno un metro e mezzo e lungo quasi tre. — Be', ho sostenuto che gli ospiti dovevano incontrare i pezzi non come se fossero andati in un museo, ma come se avessero visitato la casa di un amico e si fossero imbattuti in cose così meravigliose. — Bello — disse Eleanor. Sopra il tansu c'erano due tavolette votive li- gnee che lei ritenne thai. — Inoltre — proseguì Paul Kukali — lasciando senza etichetta queste opere, mi assicuravo di mantenere il lavoro di guida d'arte, quando non te- nevo lezione all'università di Hilo. Eleanor rise. Il soprintendente indicò la scala principale. Il giro ebbe ini- zio. Il Mauna Pele aveva due campi da golf, quello "facile", di 6825 iarde, 72 di par, progettato da Robert Trent Jones Jr., e quello più recente, più diffi- cile, di 7321 iarde e 74 di par, progettato da Bill Coore e da Ben Cren- shaw. Tutt'e due avevano indicazioni dell'altezza sul livello del mare e pa- revano verdi sculture paesaggistiche intagliate negli infiniti chilometri di roccia lavica. Byron Trumbo pensò che Hiroshe Sato avrebbe gradito quel giorno il percorso Robert Trent Jones Jr., più facile, e avrebbe affrontato l'indomani il perdipalle Coore-Crenshaw. Per le prime otto buche andò tutto abbastanza bene. Il quartetto guida avrebbe dovuto comprendere Trumbo, Sato, Inazo Ono e Will Bryant... ma, con infinita irritazione di Trumbo, Bryant non aveva mai voluto impa- rare il golf e quindi era rimasto accanto ai golf cart mentre il gran capo giocava. Trumbo accettò come quarto Bobby Tanaka; per quanto in Giap- pone Tanaka giocasse spesso nell'ambito del suo ruolo di collegamento nelle trattative, aveva un modo di giocare nel migliore dei casi mediocre. Sato, d'altro canto, aveva un gioco aggressivo quasi quanto Trumbo. Trumbo sapeva che, se l'affare doveva andare in porto con Sato, tanto valeva sistemarlo lì sui campi da golf. A questo scopo tratteneva un bricio- lo i colpi, così che molto spesso la sua pallina finiva nelle vicinanze di quella di Sato. Aveva con sé il suo solito caddy al Mauna Pele, Gus Roo, mentre Sato si serviva di un caddy che si era portato in aereo, un tipo vec- chissimo che sarebbe stato più a casa propria in un villaggio di pescatori che non in uno stabilimento turistico a cinque stelle. Il giorno rimaneva sereno e piacevole, con temperatura sui ventotto gra- di ma percentuale d'umidità molto bassa, grazie alla brezza dall'oceano, e Sato si manteneva a un paio di colpi da Trumbo, che aveva l'handicap mi- gliore. Byron Trumbo era ferocemente competitivo nel golf come in ogni altra cosa, ma sarebbe stato felice di farsi battere ripetutamente da quel rampollo di miliardario se in questo modo fosse riuscito a liberarsi del Mauna Pele. Nel frattempo il clima rimaneva perfetto, la nube di ceneri re- stava fuori vista, nessuna gorgogliante colata di lava scendeva a seppellire i potenziali acquirenti e Trumbo poteva augurarsi un pomeriggio produtti- vo e poi la conclusione dell'affare. Le cose cominciarono ad andare a rotoli all'ottava buca. Dopo avere mandato in buca la pallina e nell'attesa che Sato smettesse di borbottare e mandasse in buca la sua, Trumbo notò il gesto di richiamo di Will Bryant e si avvicinò ai golf cart. Will aveva appena spento il telefono. — Brutte no- tizie — disse. — Sherman ha chiamato da Antigua. Bicki è in lacrime. Ha fatto una scenata a Felix finché lui non ha acconsentito a prenderla a bordo del Gulfstream. — Merda — brontolò Trumbo. Sato spinse la pallina verso la buca, una facile due metri, e la mancò di una spanna. Trumbo scosse la testa e gli ri- volse un cenno di comprensione. — Dove diavolo vuole andare? — do- mandò sottovoce a Will Bryant. — Qui. — Qui? — Qui. Trumbo strinse la mazza con tanta forza da piegarla. — Cazzo. Chi le ha detto dov'ero? Will si strinse nelle spalle. — La brutta notizia non è questa. Trumbo si limitò a fissarlo. — Circa quattro ore fa, la signora Trumbo e il suo legale hanno lasciato New York. — Dimmi che non vengono qui! — mormorò Trumbo. Sato ripeté il col- po, mancò di due dita la buca. — Vengono qui — disse Will Bryant. — Evidentemente hanno davvero l'intenzione di porre sul Mauna Pele il diritto di riservato dominio. Senza dubbio Koestler ha avuto sentore della vendita. Byron Trumbo rivide mentalmente il legale specializzato in divorzi... Myron Koestler, capelli grigi raccolti a coda di cavallo, un tempo avvocato di Pantere Nere e di radicali pacifisti, ora generalmente di mogli con mari- to miliardario... e cercò di ricordare il numero di telefono di quel killer del- la mafia che gli era stato presentato un giorno a Detroit. — Caitlin, Caitlin — mormorò tra sé. — Ti faccio ammazzare, cara la mia ragazza. — C'è dell'altro — disse Bryant. Sato piegò il ginocchio, prese la mira per fare la buca distante neanche venti centimetri. Trumbo gli girò le spalle, prima di urlare: — Maya? Col telefono Will Bryant si strofinò il mento e annuì. — Viene qui? — Trumbo provò a immaginare le tre donne della sua vita insieme nello stesso posto, nello stesso momento. Aveva già fatto quel ten- tativo. Non ci riuscì nemmeno stavolta. — Barry non è sicuro — disse Will Bryant. — Oggi pomeriggio è anda- ta a fare acquisti da Barney e non è più tornata. Trumbo sorrise: Maya aveva il suo jet executive privato. — Scoprilo — disse. — Se viene qui, di' all'aeroporto di non darle il permesso di atterra- re. Se ottiene il permesso, manda Briggs all'aeroporto con un missile Stin- ger e fai abbattere l'aereo. Will Bryant diede un'occhiata al massiccio capo della sicurezza, ma ri- mase in silenzio. — Oh, cazzo! — disse Trumbo, con tutto il cuore. — Sì — convenne il suo direttore generale. Hiroshe Sato mandò in buca la pallina. Trumbo applaudì e sorrise. — Di' a Briggs di abbattere tutt'e tre gli aerei — mormorò a Will Bryant, passan- dogli davanti. Il gruppo si mosse verso la nona buca. Il giro d'arte sarebbe dovuto durare un'ora, ma passarono quasi novanta minuti prima che Eleanor o Paul Kukali si accorgessero del tempo trascor- so. Girando per i sette piani della Grande Hale e nei giardini esterni, il so- printendente aveva mostrato a Eleanor raffinate ciotole hawaiane, masche- re rituali della Nuova Guinea alte un metro e mezzo, una scultura buddista giapponese Kamakura del quattordicesimo secolo, sculture lignee thai del periodo Ayudhya, un magnifico Buddha indiano proveniente da Nagapat- tinam e situato sotto un baniano in giardino, "leoni alati" di bronzo posti a sorvegliare l'entrata della Suite Presidenziale all'ultimo piano, una spassosa scultura di legno laccato di rosso raffigurante una capra accucciata e una decina d'altri tesori. Raramente Eleanor aveva gradito tanto una discussio- ne sull'arte. Sempre durante il giro, aveva scoperto che Paul Kukali era vedovo da sei anni; e il soprintendente aveva scoperto che Eleanor non si era mai sposata; aveva immaginato che fosse una professoressa, ma era rimasto sorpreso che fosse specializzata nell'Illuminismo; tutt'e due avevano mani- festato un profondo interesse nello Zen e avevano scoperto di avere visita- to in Giappone parecchi degli stessi giardini classici, di avere la stessa pas- sione per la cucina thai, di condividere un intenso disinteresse per la politi- ca universitaria e di ridere allo stesso tipo di battute sciocche. — Mi scuso di avere superato il tempo previsto — disse Paul, mentre concludevano il giro nell'atrio. — Colpa del Buddha seduto. Mi lascio sempre andare, quando parlo del Buddha. — Sciocchezze — disse Eleanor. — Mi è piaciuto davvero. Se non me l'avesse fatto notare, non mi sarei mai accorta della "ruota della legge" in- cisa nella sua palma. Il soprintendente sorrise. — È stato bello da parte sua lasciarvi un fiore. Bello e corretto. Eleanor guardò l'ora. — Be'... sono quasi imbarazzata a parlarne, ma contavo di presentarmi al suo giro dei petroglifi. Se sarò l'unica, il giro si farà ugualmente? Paul accentuò il sorriso, mostrando una dentatura perfetta. — Se lei sarà l'unica ospite presente, forse anche quel giro si concluderà in ritardo. — Pure lui guardò l'ora. — Ho un'idea. Se le va, potremmo pranzare insieme nella lanai e poi andare direttamente al campo di petroglifi. — Esitò un se- condo. — Accidenti! Sembravano due righe sul programma, vero? — No — disse Eleanor. — Sembrava un invito. Accetto. A pranzo nella lanai c'erano meno di dieci persone, ma una era Cordie Stumpf, avviluppata in una vestaglia da spiaggia, a fiori, intonata al co- stume da bagno. Sorseggiava il contenuto di un alto bicchiere dove galleg- giavano alcuni petali e guardava, perplessa, il menù come se fosse scritto in una lingua straniera. — Oh — disse Eleanor — c'è una persona che forse le piacerebbe cono- scere. Vediamo se vuole unirsi a noi? — Certo — rispose Paul, con un sorriso, come se il suggerimento di E- leanor l'avesse tolto dall'imbarazzo. Cordie Stumpf li guardò strizzando gli occhi. Aveva il naso bruciato dal sole. — Ehi, perché non vi sedete qui con me? — disse. — Ci credereste che servono delfino? Mi domandavo proprio se non dovrei ordinare un sandwich di pinna. Per Byron Trumbo la situazione precipitò davvero alla quattordicesima buca. Al secondo tiro, Trumbo mandò la pallina sul green, mentre Sato si af- fannava ancora per uscire dall'erba alta e poi dalla trappola di sabbia. Il gioco del miliardario giapponese era andato in merda. Anche Bobby Tana- ka e Inazo Ono erano in difficoltà, perciò Trumbo rimase sul limitare del green, insieme con Gus, il suo caddy, a guardare Sato che s'incazzava sempre di più. Aveva una gran voglia di mandare la maledetta pallina nei campi di lava e di farla finita. Finalmente Sato raggiunse il green e si avvicinò al suo anziano caddy, che gli porse un fazzoletto di seta perché si asciugasse il viso adesso arros- sato. — Prego, mandi pure in buca, Byron-san — disse Sato. — È di nuovo nel green, Hiroshe — disse Trumbo, con un sorriso ami- chevole. Will Bryant l'aveva appena informato che l'aereo di Caitlin era davvero diretto all'aeroporto Keahole-Kona e che lei e il suo legale aveva- no fissato una stanza al Mauna Pele. Trumbo aveva voglia di vomitare, ma solo dopo avere annodato la mazza intorno al tronco di una palma. — Pre- go — disse, a mano protesa, nel gesto universale per indicare: dopo di lei. Sato scosse la testa, mostrando il primo segno d'irascibilità che Trumbo gli avesse mai visto. — No, prego, metta in buca, mentre medito su quali peccati mi abbiano fatto meritare questo castigo. Trumbo borbottò un assenso e si accostò alla pallina. Aveva un tiro da circa dieci piedi. Gus andò alla bandierina, cominciò ad alzarla e si bloccò, fissandosi le scarpe. — Tirala via, Gus. — Ma signor T... — Aveva una voce strana. — Tirala via e levati di mezzo. — Ma signor T... — Il caddy fissava il bastone della bandierina e le pro- prie scarpe, come se fosse impietrito sul posto. — Tira via quel cazzo di bandierina e levati dai coglioni — disse Byron Trumbo, con un tono di comando che raramente usava. Gus tolse la bandierina e si scostò, con andatura bizzarra. Trumbo si do- mandò se il caddy non avesse un attacco di cuore e prese l'appunto mentale di mandare dei fiori, nel caso. Le ultime cose di cui aveva bisogno quel giorno erano opinioni, consigli o guai con quel caddy di merda. Impiegò solo un secondo a concentrarsi. Vibrò dolcemente il colpo e guardò la pallina rotolare nella buca. Alzò gli occhi per ricevere il sorriso d'approvazione di Sato, ma in quel momento il miliardario parlava all'orec- chio di Inazo Ono, che finalmente era riuscito in quattro tiri a far giungere la pallina al limitare del green. Vaffanculo, pensò Byron Trumbo e andò a recuperare la pallina. Sulle prime, mentre con le dita toccava le altre dita nella buca, Byron Trumbo non ebbe alcuna reazione. Era come se sottoterra ci fosse qualcu- no che cercasse di stringergli la mano; la sensazione era così irreale, a par- te il feroce prurito alla nuca, che lui in pratica non reagì, impietrito, ancora chino, con il braccio proteso verso la buca. Poi si sporse ancora e guardò nella buca. La pallina era lì, appena sotto il livello del green, delicatamente appoggiata sulle quattro dita protese e sul pollice di una destra priva del corpo. Sempre piegato in due, notando con la coda dell'occhio che Sato e Ono si giravano a guardare e che l'ultimo tiro di Bobby Tanaka aveva mandato la pallina sul green, Trumbo girò la testa verso Gus Roo. Il caddy, reggen- do sempre la bandierina, alzò l'altra mano in segno d'impotenza. Per essere un hawaiano, aveva il viso davvero privo di colore. Trumbo notò che la base dell'asta della bandierina era macchiata di rosso. Guardò di nuovo Sato e sogghignò, sempre con la proprie dita a qualche centimetro da quelle che sostenevano la pallina. "E se quella roba là sotto" pensò "è viva e salta su dalle zolle?" — Bella buca, Byron-san — disse Sato, con scarso entusiasmo. Trumbo sorrise di nuovo, sempre impietrito in quella scomoda posizione. Vedeva che Will Bryant lo fissava, domandandosi, era chiaro, che cosa non andasse, forse preoccupato che il suo capo fosse rimasto vittima di un colpo della strega. Trumbo allungò di nuovo le dita per recuperare la pallina, trattenendo il fiato al pensiero che la mano mozzata potesse lottare per tenersela. Si raddrizzò, tirò in aria la pallina, la mise con noncuranza nel taschino e disse: — Chi ha voglia di un goccio? Sato e gli altri corrugarono la fronte. — Un goccio, Byron-san? Siamo solo alla quattordicesima. Trumbo camminò fra loro e la buca, con un gran scrollare di spalle. — Be', fa caldo, ci siamo impegnati a fondo e pensavo di fare una sosta di qualche minuto e bere qualcosa di fresco laggiù all'ombra. — Indicò un punto al di là della trappola di sabbia, dove frusciavano alcune palme. — Devo mettere in buca — disse Hiroshe Sato, chiaramente perplesso per l'atteggiamento sdegnoso del suo anfitrione verso il golf. Trumbo scosse la testa, sempre con quello sciocco sorriso. — Buca con- cessa, Hiroshe. — Concessa? — Certo — disse Trumbo, alzando le mani. — Tanto, la farebbe co- munque. Sato divenne ancora più perplesso. — Sono a ventotto piedi dalla buca, Byron-san. — Sì, ma vedo che oggi è in vena, Hiroshe — disse Trumbo. Con gli oc- chi e le sopracciglia chiamava Will Bryant perché si avvicinasse. Il diretto- re entrò sul green, senza badare all'espressione di rimprovero degli ospiti giapponesi perché con le scarpe da passeggio pestava l'erba. Trumbo si chinò verso di lui. — C'è qualcosa nella buca — gli sibilò all'orecchio. — Fatti dare da Gus un cazzo d'asciugamano, togli dalla buca quella cazzo di cosa e fa' in modo che Sato e gli altri non vedano niente. Capito? Will Bryant guardò il gran capo, annuì lievemente e si avvicinò al caddy. Trumbo si avvicinò a Sato e col braccio gli circondò le spalle, sentendo- lo trasalire leggermente. — Hiroshe, mi permetta di mostrarle una cosa — disse. Guidò il gruppo accanto ai golf cart, frugò nella valigetta di Will ed estrasse il prospetto con le piantine, al quale avevano fatto riferimento du- rante la colazione. Allargò sul sedile posteriore di un carrello la mappa del campo da golf, come se contenesse chissà quale grande sorpresa. Sato, Ta- naka e Ono si radunarono intorno a lui, imitati dall'anziano caddy di Sato, e Trumbo intuì che lo fissavano tutti come se fosse uscito di senno. "Forse hanno ragione" pensò Trumbo, piantando il dito sul simbolo della quattor- dicesima buca. — Mi spiace, Hiroshe, ma ho continuato a pensarci per le ultime buche e dovevo parlarne. Si è reso conto delle potenzialità per pa- lazzine di lusso, se i suoi costruiscono qui... e qui... e qui? So che vuole trasformare il Mauna Pele in un esclusivo club di golf. Duecentomila dol- lari per iscriversi a Tokyo e tutto quanto... Sato lo fissò come se gli vedesse la bava alla bocca. Il fatto che il giap- ponese volesse chiudere il Mauna Pele come impianto turistico e costruire palazzine per appassionati di golf era l'aspetto nascosto del contratto, del quale tutt'e due le parti non avrebbero dovuto parlare durante le trattative. — Sì, ma devo fare la buca — disse Hiroshe Sato, movendosi per tornare sul green. Trumbo intravide Will Bryant chino sulla buca, asciugamani cautamente proteso. Gus Roo, seduto sopra un masso di lava, si teneva la testa fra le mani. — Consideri solo questo — disse Trumbo, rimettendo il braccio intorno alle spalle di Sato e costringendolo a girarsi verso la piantina. Sentiva la pelle del magnate giapponese incresparsi di disgusto per l'eccessiva confi- denza. — Voglio dire, faccia spianare l'area a est del campo da golf, qui, vede? Ci faccia mettere alberi e laghetti e tutta quell'altra merda come ab- biamo fatto noi a ovest... e quanto ricaverebbe d'affitto, Hiroshe? Due mi- lioni ciascuno? — Byron — disse Tanaka — penso che dovremmo... — Silenzio! — l'apostrofò Trumbo. Sato guardava con aria depressa la piantina, ingobbito per sottrarsi all'abbraccio di Trumbo. Trumbo girò la testa, vide Will Bryant andare nel campo di a'a, portando con sé l'asciu- gamano. — Ehi — disse — era solo un peso che volevo togliermi dallo stomaco. Va bene, torniamo alla partita. — Lanciò a Tanaka un'occhiata di fuoco. — Ti ci è voluto un bel po' per arrivare nel green, eh? Inazo Ono diceva qualcosa al suo capo. — Ho suggerito al signor Sato di mettere in buca — tradusse. Trumbo annuì. Aveva udito le parole giapponesi che significano "stra- niero" e "pazzo". Non gliene fregava niente. Da dietro le palme e i massi di lava provennero deboli rumori di vomito. Sato si piegò sulla mazza. Trumbo vide Will Bryant emergere dalle rocce. Nessun altro parve accorgersene. Incredibilmente, Sato centrò la buca da ventotto piedi e tutti applaudirono, tranne Gus Roo, ancora seduto con la testa fra le mani. Mentre andavano ai golf cart e alla quindicesima buca, Bryant si accostò a Trumbo e mormorò: — Per questa storia mi aspetto una gratifica. 9 ... Esisteva [nella cultura polinesiana] una concezione binaria del mondo, secondo la quale le categorie erano poste in opposizione l'una all'altra. La più comune e più potente era la dicotomia maschio-femmina, dove le qualità "maschili" rappresentavano il bene, la forza, la luce, mentre le qualità "femminili" erano per la maggior parte deboli, pericolose, oscure (ma paradossalmente anche essenziali in quanto donatrici di vita). WILLIAM ELLIS Polynesian Researches Dopo pranzo, Eleanor, Cordie e Paul Kukali visitarono senza fretta il campo di petroglifi. La pista da jogging correva fra i massi di a'a come un liscio nastro teso su di una spiaggia di ciottoli. A destra c'erano le scoglie- re, a sinistra le palme e gli impianti d'irrigazione a pioggia e il rigoglio del campo da golf meridionale. Di tanto in tanto Eleanor udiva le esclamazioni dei giocatori, ma per il resto c'era silenzio, a parte il vento e le onde. — Quando Trumbo e il suo consorzio hanno progettato lo sviluppo di questa zona — diceva in quel momento Paul Kukali — abbiamo fatto ap- pello alla corte suprema dello Stato per preservare le antiche peschiere ha- waiane e i petroglifi. — Quali peschiere? — si stupì Cordie, guardando da tutte le parti. — Appunto — disse il soprintendente. — Prima di riuscire a ottenere un decreto restrittivo, i suoi operai avevano già spianato con i bulldozer le pe- schiere. Minacciai di piantare una grana internazionale se avessero distrut- to i petroglifi, così quei pochi acri sono stati salvati... tranne ovviamente dove passava il percorso da jogging. Si fermarono accanto a una targa che indicava una bassa roccia con pic- coli fori e lo sbiadito disegno di una figura maschile. — Sono questi i petroglifi? — domandò Cordie. — Sì — rispose Paul. — Quanto sono antichi? — Cordie si era accovacciata accanto alla roc- cia, a ginocchia aperte a causa delle cosce massicce. Posò sulla roccia la mano, piccola e tozza. — Non si sa con certezza. Ma questi sono fra i più antichi delle isole. Probabilmente risalgono ai tempi in cui i miei antenati polinesiani giunsero qui per la prima volta, forse 1400 anni fa. Cordie emise un fischio e tastò la pietra. — Cosa sono questi piccoli fo- ri? Paul e Eleanor si accovacciarono accanto a Cordie. — Sono fori piko — spiegò il soprintendente. — Fori per cordoni ombelicali. La tradizione dice che il mozzicone del cordone ombelicale dei neonati, quando cadeva, ve- niva posto in questi fori piko e coperto con sassolini. Le famiglie dovevano percorrere lunghe distanze con una zucca contenente il piko del figlio per depositarlo qui. Abbiamo solo una vaga idea del motivo per cui si riteneva che questa zona avesse così tanto mana. Cordie inarcò le folte sopracciglia per chiedere spiegazioni. — Mana significa potere spirituale, vero? — chiese Eleanor. Paul annuì. — Per gli antichi hawaiani, ogni cosa nel mondo naturale era questione di mana. Alcuni luoghi, come questo, erano ritenuti particolar- mente ricchi di potere. Eleanor si alzò e si accostò a una roccia dove alcune figure dipinte riem- pivano lo spazio tra i fori piko. Esaminò una figura con piedi da uccello, capelli irti, pene molto sporgente. Cordie si accostò. — Quest'ometto ha un uccello che pare una freccia. Vorrebbe significare più mana? — Probabile — rise Paul Kukali. — Tutto ciò che gli hawaiani facevano o pensavano, girava intorno al mana o ai kapu. — I tabù? — disse Eleanor. Paul si sedette sulla roccia e posò la mano proprio sopra la figura ma- schile ammirata da Cordie. — I kapu non erano solo regole su ciò che si poteva o non si poteva fare. Per migliaia di anni, gli hawaiani sono stati ossessionati dal mana... da quel potere spirituale che scorreva dalla terra e dagli dèi e da ciascun altro... e i kapu contribuivano a fare in modo che il potere restasse là dove risiedeva, a impedire che fosse rubato. Cordie si strofinò il naso. — Pensavano che si poteva rubare il potere? Il soprintendente annuì. — Al punto che quando passava la ali'i, la fami- glia reale, la gente comune come lei e me doveva stendersi a terra e na- scondere il viso. Anche il solo permettere che la propria ombra cadesse su di loro era passibile della pena di morte. Mana era merce rara e spesso da essa dipendeva la vita del villaggio o della gente. Le punizioni erano seve- re. Cordie guardò al di là del campo di lava. — Così qui si facevano... come dire... sacrifici umani? Paul incrociò le braccia. — Quasi certamente. Questa zona della costa è ricca di heiau, antichi templi dove si facevano i sacrifici. Anche i grandi pali piantati nel terreno richiedevano in ogni buco il corpo di uno schiavo. — Oddìo — fece Cordie. — Ma c'erano altri heiau, come il Puuhonua O Honaunau, proprio giù sulla costa — disse il soprintendente. — La cosiddetta Città del Rifugio, dove i deboli potevano rifugiarsi per mettersi al sicuro da simili terrori. Eleanor si avvicinò ancora. — Non c'era uno heiau da qualche parte qui intorno, forse in questa baia, che secondo la tradizione fu costruito in una sola notte dai Marciatori della Notte? Paul Kukali la guardò con una certa sorpresa. — Esatto — rispose. — Sorgeva proprio qui, anche se non si è mai trovata traccia del vero e pro- prio heiau. Era una della ragioni per cui abbiamo cercato di impugnare da- vanti alla magistratura la dichiarazione sull'impatto ambientale, per dare una certa forza alla richiesta di salvaguardia di questo posto. — Marciatori della Notte? — domandò Cordie. Il soprintendente si girò verso di lei e le sorrise. — Processioni dei mor- ti... ali'i, famiglie reali, se si crede alle storie. Chi li vede, in genere si ri- tiene che si ritrovi in qualche guaio. Secondo una leggenda, lo heiau di questo posto fu costruito in una sola notte nel 1866 dai Marciatori della Notte. — Si rivolse a Eleanor. — Dove ha trovato questo particolare? Eleanor esitò solo un secondo. — In un libro di Mark Twain, mi pare. Paul annuì. — Ah, sì, avevo dimenticato le sue lettere dalle Hawaii. Mark Twain si trovava sull'Isola Grande, l'estate in cui lo heiau fu costrui- to dai morti che camminano, come risulta da alcune ricerche da me fatte. Ma pensavo che quella particolare lettera non fosse mai stata pubblicata... si trova sempre nell'archivio delle sue carte, no? Eleanor rimase in silenzio. — Lei è hawaiano di razza pura? — domandò Cordie, curiosa, con la franchezza di un bambino. — Sì — rispose Paul Kukali. — Non siamo in molti, a dire il vero. Da qualche parte ho letto che centoventimila persone nelle isole sostengono di avere sangue hawaiano, ma gli etnologi ritengono che rimangano solo al- cune centinaia di hawaiani di razza pura. — Esitò un istante. — Penso che sia un buon segno, no? — Di solito la diversità significa forza — obiettò Eleanor. — Vediamo il resto dei petroglifi? — domandò Paul per cambiare di- scorso. — Il campo da golf ne ha preso una grossa fetta, ma ci sono alcuni magnifici esempi di una figura dalla testa di falco, per spiegare la quale proprio nessuno ha una valida teoria. Seguirono il sentiero da jogging e, chiacchierando, s'inoltrarono nella confusione di a'a. Trumbo aveva l'impressione che quella maledetta partita a golf sarebbe andata avanti all'infinito. Disse a Gus di tornare al circolo: il caddy era davvero scosso. Per le ultime buche prese come caddy il giovane nipote di Gus, Nicky Roo, ma lui stesso era abbastanza scosso da mandare avanti Will Bryant a controllare se nelle buche o nelle trappole di sabbia c'era... qualcosa. — Dobbiamo denunciarlo — gli aveva mormorato Will, prima di allon- tanarsi sul golf cart. — Denunciare cosa? — aveva sibilato Trumbo. — Che abbiamo trovato una mano mozzata dentro una buca del nostro campo da golf da dodici mi- lioni di dollari? O che tu hai gettato nei campi di lava la prova di un delitto per consentire a Hiroshe di fare la buca? La polizia locale farà salti di gioia. Will Bryant non aveva ceduto. — Dobbiamo denunciarlo. — Prima devi ritrovarla! — aveva bisbigliato Trumbo, con un'occhiata al punto dove Sato e i suoi ridacchiavano a qualche battuta in giapponese. Quell'incapace di Sato, pensò, aveva fatto benissimo le ultime buche. Bryant non aveva ceduto neppure a quella prospettiva. — Adesso? — No, non adesso. Prima devi controllare le ultime buche. Cazzo, non voglio che Hiroshe o i suoi amici debbano passare davanti a una testa mozzata per fare la buca o dissotterrino un piede umano mentre fanno vo- lare sabbia da tutte le parti per togliersi da una trappola. Pallido, labbra serrate, Bryant aveva annuito. — Poi cerca Steve Carter e digli che pensiamo di avere trovato uno di quei tipi del New Jersey... un pezzo. — Aveva esitato. — Era davvero una mano d'uomo, no? — Sì. La destra. Unghie ben curate. Trumbo aveva avuto un brivido. — Per un secondo non ho capito, sai? M'è sembrato naturale che qualcuno mi porgesse la pallina, quando mi so- no chinato a raccoglierla. — Dobbiamo chiamare la polizia — aveva bisbigliato Bryant. Byron Trumbo aveva scosso la testa. — No, finché quest'affare del caz- zo non è concluso. — Nascondere le prove... — Mi costeranno molto meno le parcelle degli avvocati che non tenermi questo cazzo d'impianto. Ci sono un mucchio di soldi appesi a un filo, Will. Bryant aveva esitato solo un secondo. — Sissignore. Cosa dirò a Carter, quando insisterà per chiamare la polizia? — Digli che mi ha promesso ventiquattro ore e che l'orologio ticchetta ancora. — Aveva lanciato un'occhiata ai giapponesi. — Vai avanti. Non dimenticare i cespugli. Sono scomparse tre persone... possono esserci venti o trenta piccole sorprese come quella, fra qui e il circolo. Non voglio chi- narmi per la diciottesima e trovare fra me e la buca il cazzo di qualcuno lì per terra. Bryant aveva sbattuto le palpebre. — Sì, ho capito. — Si era allontanato sul golf cart, con un ronzio di motore elettrico. Ora, dopo una bevanda fresca insieme con Sato e Bobby Tanaka, Inazo Ono, Masayoshi Matsukawa, il dottor Tatsuro, Sunny Takahashi e Seiza- buro Sakurabayashi, intorno al grande tavolo rotondo che guardava sui premiati giardini del Mauna Pele, con a ovest il tetto "di stoppie" della Grande Hale che si alzava sopra le palme, Trumbo si concesse un sospiro di sollievo. Il suo sollievo non durò a lungo. Il brizzolato direttore del Mauna Pele, Stephen Ridell Carter, comparve al tavolo, ancora in un completo color ab- bronzatura tropicale, capelli impeccabilmente pettinati come al solito, ma con l'aria di chi si sente ridotto a un cencio e si prepara a dare cattive noti- zie. Con un'occhiata Trumbo gli intimò di stare zitto. — Ah, Steve — disse — siediti, sta' qui con noi. Parlavamo proprio delle ultime cinque buche di Hiroshe. Tiri da campione del mondo! L'occhiata di Trumbo diceva: "Una sola parola sulle novità e ti ritrovi a dirigere un motel Super Eight a Ottumwa, nello Iowa". — Posso parlarle in privato, signor Trumbo? Trumbo sospirò di nuovo, ma non di sollievo. — Adesso? — Accennò al bicchiere quasi pieno, un vistoso cocktail con frutta e ombrellino. — Se non le dispiace, signore. — La voce di Carter era sull'orlo di... di qualcosa. Panico, forse. Insubordinazione, di sicuro. Trumbo brontolò, si scusò con Sato e si allontanò con il direttore. Dalla terrazza del circolo si spostarono vicino ai campi da tennis, dove nessuno poteva origliare. — Senti, Carter — cominciò Trumbo — se sei venuto a insistere che chiamiamo subito la polizia, toglitelo dalla testa. C'è troppo in ballo, in questo merdoso... — Non si tratta di questo — disse Stephen Ridell Carter, con voce stan- ca e monotona. — Sono andato col signor Bryant a vedere, ma la mano non c'era più. — Non c'era più? — Non c'era — confermò Carter. — Cazzo — disse Byron Trumbo, riflettendo. — Questa sì che è una no- tizia. Be', forse i granchi o... — No — lo interruppe il direttore. — La notizia non è questa. Trumbo inarcò le sopracciglia. — La notizia è che il signor Wills è scomparso. — Chi? — Il signor Wills... Conrad Wills... il nostro astronomo. — Quando? — domandò Trumbo. — Stamattina, a occhio e croce. L'hanno visto fare colazione. Ma non si è presentato alla riunione del personale a mezzogiorno. — Dove? — Quasi certamente nelle catacombe... — Nelle cosa? — Le catacombe — ripeté Stephen Ridell Carter. — Così il personale chiama i tunnel di servizio. — Come fai a sapere che è scomparso là sotto? — Il suo ufficio... ah, non posso descriverlo, signor Trumbo. Il capo del- la sicurezza, Dillon, al momento è laggiù. Una scena terribile, terribile... Trumbo sentì l'impulso o di schiaffeggiare il direttore o di dargli colpetti affettuosi sulla schiena, prima che si mettesse a piagnucolare. Non fece nessuna delle due cose. — Be', nei prossimi giorni non abbiamo bisogno di un nostro astronomo, giusto? Insomma, non è che stanotte ci sarà un'eclis- se o qualcosa del genere, eh? Stephen Ridell Carter lo fissò, chiaramente inorridito. Trumbo notò per la prima volta che i capelli brizzolati del direttore erano in realtà un par- rucchino. Non c'era da stupirsi, se parevano sempre pettinati alla perfezio- ne. — Signor Trumbo! — esclamò Carter, sconvolto. Per un secondo il miliardario pensò che Carter fosse sconvolto perché lui fissava il parrucchino, poi ricordò il proprio sbrigativo commento. — Oh, non fraintendermi... — disse. — Cercheremo il povero... ah? — Wills. — Già. Diremo a Dillon di mettere tutti gli uomini della sicurezza alla ricerca del signor Wills e certamente ne parleremo alla polizia domani... o quando racconteremo alla polizia tutta questa storia. Volevo solo dire che, be', forse Wills ha pensato che non ci fosse bisogno di lui, visti i pochi o- spiti e la scarsa necessità di un astronomo e tutto il resto. — Non penso che... — Ma non sappiamo niente di preciso, no? — disse Trumbo, posando con forza la mano sulla spalla dell'altro, più alto di lui. Gli diede una stret- ta. — Non sappiamo niente. E finché non sapremo qualcosa, sarebbe un suicidio mandare a monte l'affare solo per qualche piccola... anomalia. — Anomalia — ripeté il direttore. Parlava con tono molto più alto del normale, pareva drogato. Trumbo gli strinse la spalla con tanta forza da strappargli una smorfia, poi ritrasse la mano. — Lasciamo che la sicurezza faccia il suo lavoro, mentre io faccio il mio, d'accordo, Steve? Andrà tutto bene. Fidati di me. Carter aveva l'aria di chi ha inghiottito un boccone troppo grosso. — Ma l'ufficio... — L'ufficio di chi, Steve? — disse Trumbo con tono suadente, quasi ip- notico. Quel tono aveva funzionato con alcune delle più isteriche ed eccita- bili donne d'America, pensava, e avrebbe funzionato anche con quel finoc- chio col parrucchino. — L'ufficio del signor Wills. — Cosa c'entra l'ufficio di Wills, Steve. Il direttore inspirò a fondo e ritrovò una certa forza nella voce. — Dovrà vedere con i suoi occhi per capire, signor Trumbo. Il miliardario diede uno sguardo al Rolex. Aveva tempo. Sato e i suoi volevano riposarsi un poco e pranzare nella loro lanai privata prima di ri- prendere nel pomeriggio la trattativa. — E va bene, fammi vedere — disse, dando amichevolmente qualche colpetto sulla schiena del direttore. Carter si mosse per fargli strada. — Ora non vogliono stare là sotto, sa? — Chi? — chiese Trumbo, con l'impressione che l'altro avrebbe rico- minciato a discutere. — Dove? — I dipendenti. Tutti quelli che hanno l'ufficio nei tunnel o che devono percorrerli. A nessuno è mai piaciuto, signor Trumbo. Ci sono sempre state delle storie. Ora, con questa... — Vadano a fare in culo — disse Trumbo, stufo di fare la persona genti- le. — Devono solo lavorarci, se vogliono la paga. — Ma l'ufficio del signor Wills. Non so come dirle... — Non dire niente — lo interruppe Trumbo, guardando di nuovo l'ora e quasi spingendo verso le catacombe il magro direttore. — Fammi vedere. — Cosa sono quei buchi nel terreno? — domandò Cordie, indicando un punto al di là dei petroglifi e dei massi di a'a, dove fra le rocce era visibile un cunicolo frastagliato. — Condotti di lava — rispose Paul Kukali. Indicò l'est. — Risalgono le pendici del Mauna Loa... trenta, quaranta chilometri. — Mica poco — disse Cordie Stumpf. — Mica poco — confermò il soprintendente. — I condotti di lava sono una fonte di mana, vero? — domandò Elea- nor. Paul annuì. — Po nui ho' olakolako. "La grande notte che provvede." Secondo le leggende, le bocche di tenebra sono come grembi di donna, ca- nali da cui fluisce quel potere. Cordie emise un borbottio, come divertita all'idea. Si arrampicò sulle rocce per arrivare, con passo malfermo, sopra il cunicolo. — Stia attenta — l'ammonì Paul. — È proprio una sorta di tunnel — disse Cordie, come se avesse dubita- to della spiegazione del soprintendente. — Riesco a vedere dove fa una curva e risale il pendio. Le pareti sono... come diavolo si dice... hanno del- le creste. — Striature provocate dalla lava che si ritira mentre si raffredda — spie- gò Paul. — Già — disse Cordie, pensierosa. — Potremmo camminarci dritti, in quell'affare. È pericoloso? Paul Kukali si strinse nelle spalle. — L'hotel lo sconsiglia. — Perché? — domandò Cordie. — Ci sono pipistrelli? Il soprintendente scosse la testa. — No, quasi tutte le specie di pipistrelli dell'Isola Grande si appollaiano sugli alberi. Al Mauna Pele hanno paura che qualche ospite ci cada dentro. I condotti di lava sono molto estesi. Ci si può smarrire senza tanta fatica. Cordie borbottò di nuovo. — Forse è qui che sono finite tutte quelle per- sone scomparse — disse poi. Paul Kukali si fermò di colpo, come imbarazzato per l'improvviso ac- cenno ai guai del Mauna Pele. Eleanor lo osservò. — Non hanno arrestato il presunto colpevole dei ra- pimenti... omicidi... o che diavolo erano? — Jimmy Kahekili — annuì Paul. — Ma dovranno rilasciarlo presto. — Perché? — domandò Eleanor. Paul la guardò con viso inespressivo. — Perché non è colpevole di nien- te. O meglio, è colpevole solo di non saper tenere a freno la lingua e di es- sere un fanatico del movimento separatista. Cordie si mosse con cautela sui massi e tornò sul sentiero da jogging. — Quale movimento separatista? — Un numero sempre crescente di hawaiani, indigeni hawaiani, vuole che gli Stati Uniti restituiscano alle isole il loro precedente stato di nazione sovrana — disse Paul. — Vuol dire che un tempo era una nazione? — si stupì Cordie. — Ho sempre pensato che fosse solo un'isola con indigeni e capanne di paglia e tutto il resto, prima che comparisse la gente della canna da zucchero. Eleanor represse una smorfia, ma notò che Paul Kukali si limitava a sor- ridere. — Aveva indigeni e capanne di paglia — disse. — Ma, fino a un certo giorno del gennaio 1893, Hawaii aveva anche un governo proprio... una monarchia. Sul trono c'era la regina Liliuokalani, quando i piantatori bianchi e un contingente della marina militare americana proclamarono l'annessione delle isole con una invasione illegale... ed ecco fatto. Non troppo tempo fa, il presidente Clinton ha firmato un documento di scuse per l'annessione. Quel gesto ha ammorbidito una parte degli hawaiani. Ma altri, come Jimmy Kahekili, vogliono la restituzione di tutto e il ritorno della monarchia. Cordie Stumpf sbuffò all'idea. — Come se gli indiani chiedessero la re- stituzione dì Manhattan, no? Paul allargò le mani. — Sì. Se le pretese riguardassero la completa so- vranità in tutte le isole. Nessuna persona assennata pensa che gli Usa resti- tuiranno Waikiki e le altre basi militari. Ma alcuni di noi ritengono che sia possibile una sorta di sovranità limitata... un po' come per gli indigeni a- mericani sulla terraferma. — Una riserva? — disse Eleanor. Paul si lisciò il mento. — Avete sentito parlare di Kahoolawe? — Ah, sì — disse Eleanor. — Cosa? — domandò Cordie. Aveva occhiali da sole bordati di plastica bianca che luccicavano mentre lei guardava dal basso gli altri due. — Co- sa? Paul Kukali si girò verso di lei. — Kahoolawe è l'isola hawaiana dove non va nessuno — spiegò. — È lunga solo sedici chilometri e larga nove, ma era un'isola sacra nella mitologia degli hawaiani e conserva ancora molti heiau e altri tesori archeologici. — Le credo — disse Cordie. — Perché non ci va nessuno? — Fino al 1941, un solo uomo, un allevatore bianco, possedeva l'isola. Il giorno dopo Pearl Harbour, la marina americana si appropriò dell'isola e la usò come poligono per i bombardieri; da allora, non ha mai smesso. Cordie Stumpf sorrise, mostrando denti piccoli che le conferivano un'a- ria da bambina. — Così gli hawaiani vogliono quella come riserva? Un po- ligono per bombardieri? Io chiederei almeno il Mauna Pele. Il soprintendente ricambiò il sorriso. — Anch'io. Ma ci stiamo allonta- nando troppo dall'argomento. — Ossia chi ha ucciso tutti quegli ospiti? — domandò Cordie. — No — rispose Paul, con un'occhiata all'orologio. — Mi pagano per parlare del campo di petroglifi. E il tempo è quasi terminato. Continuarono lungo il sentiero asfaltato che serpeggiava fra le rocce ne- re. In tutto il pomeriggio non avevano visto nemmeno un ospite sulla pista da jogging. — Ci parli di Milu e dell'entrata al Mondo Sotterraneo — disse Eleanor. Il soprintendente esitò e inarcò il sopracciglio. — Ha una buona cono- scenza delle tradizioni locali. — Non proprio — disse Eleanor. — Mi pare di aver letto qualcosa sul Mondo Sotterraneo nello stesso articolo sulla visita di Mark Twain in que- st'isola. L'entrata è da queste parti, no? Prima che Paul Kukali potesse rispondere, Cordie fece schioccare le di- ta. — Ah, ecco! Abbiamo la spiegazione per la scomparsa di quella gente. L'albergo sorge su di un antico terreno sepolcrale hawaiano. Non solo, ma c'è anche l'entrata per... come l'ha chiamato... il Mondo Sotterraneo. Gli antichi dèi, fantasmi eccetera s'incazzano, infestano il posto e si portano via nei tunnel i clienti, come pranzo. Ci verrebbe un buon film. Diavolo, ho un'amica che conosce una ragazza che ha sposato un produttore di Hol- lywood. Potremmo vendergli la storia. — Mi spiace — sorrise Paul — ma qui non c'è un particolare terreno se- polcrale. E il Mondo Sotterraneo citato da Eleanor si pensa che abbia solo un'entrata nelle vicinanze della costa, all'imboccatura della valle Waipio, che si trova dalla parte opposta dell'isola, in diagonale da qui. A varie ore di viaggio. — Be', merda — disse Cordie, togliendosi gli occhiali da sole e pulendo- li col lembo della vestaglia a fiori. — La vendita è sfumata. Eleanor esitò. — Non c'era una seconda entrata al Mondo Sotterraneo di Milu? Una porta posteriore? Si troverebbe su questa costa, giusto? — Secondo Mark Twain, forse — disse il soprintendente, in tono piatto. — Secondo la mitologia del nostro popolo, c'era una sola entrata, chiusa da Pele dopo una grande battaglia contro gli dèi delle tenebre. Nessuno dei demoni o degli spiriti maligni, e neppure dei molti fantasmi, ha infastidito qualcuno da quando la dea chiuse la porta. Immagino che tutto si riduca a chi vi presta fede... agli hawaiani che hanno creato queste storie oppure a Mark Twain che fu qui in visita per qualche settimana e che le udì di se- conda mano. — Lo penso anch'io — disse Eleanor. Guardò l'ora. — Sono quasi le tre. L'abbiamo impegnata più del previsto, Paul. Ma è stato divertente. — Certo — disse Cordie. — Proprio un giro divertente. Mi è piaciuto in particolare il disegno di quel tipo con il salsicciotto a freccia. Avevano girato in direzione della Grande Hale chiacchierando e indican- do lungo la via alcuni dei petroglifi più pittoreschi, quando il gigantesco cane nero si staccò dai neri massi di lava e balzò sul sentiero da jogging. Fissava proprio loro, dimenando la coda. In bocca aveva una mano umana. 10 Dopo di allora ho visto il Vesuvio, ma era solo un giocattolo, un vulcano da bambini, un bricco fumante, a paragone di questo. MARK TWAIN descrizione del Kilauea 14 giugno 1866, vulcano Kilauea Arrivammo alla Casa Vulcano, sul bordo del cratere, un po' prima delle dieci pomeridiane. L'avvicinamento era stato davvero spettacolare: il ba- gliore rosso sangue del vulcano attivo illuminava le basse nubi fino a far ricadere sul nostro gruppo quella luce cremisi, a far brillare gli occhi dei cavalli d'un bagliore di rubino e a far sembrare che ci avessero scorticati, dove mostravamo la pelle. Mezz'ora prima che Casa Vulcano fosse in vi- sta, la brezza portò verso di noi l'odore di solfo, lo usai la sciarpa per co- prirmi il viso, ma notai che il signor Clemens pareva insensibile al puzzo. "L'odore non le dà fastidio?" gli domandai. "Non è aroma spiacevole, per un peccatore" replicò lui. Per il resto del cammino finsi di non vederlo. A un tratto mi resi conto che da qualche tempo udivo il rumore di fran- genti contro gli scogli, anche se l'oceano distava trenta miglia. Il rumore era di sicuro prodotto dal moto ondoso di lava e di vapore nella roccia stessa sotto i nostri piedi. A mano a mano che ci avvicinavamo, furono vi- sibili alte colonne di vapore simili a piloni contorti che sorreggessero l'in- focato soffitto di nuvole. Anche se avevano già fatto quel viaggio, avvici- nandosi alla caldera i cavalli roteavano gli occhi e facevano il balletto, in- nervositi. Avevo pensato che Casa Vulcano fosse un vero e proprio albergo e non restai delusa come da Casa Mezzavia. Il custode di quello stabilimento davvero unico uscì per accoglierci e alcuni lavoranti indigeni si presero cu- ra dei nostri esausti cavalli. Il custode voleva accompagnarci per una cena a tarda ora all'unico tavolo della sala da pranzo e poi alle nostre camere; ma seppure stanchi (com'eravamo tutti) pensavamo solo al vulcano e u- scimmo nella veranda, sospesa letteralmente sulla bocca del cratere. "Buon Dio" disse il reverendo Haymark, mentre ci accostavamo alla rin- ghiera... e penso che parlasse per tutti noi. Il vulcano Kilauea supera le nove miglia in circonferenza e la piccola veranda era sospesa sopra un abisso di almeno mille piedi sulla superfìcie del lago asciutto. Il custode indicò un edificio che definì "l'osservatorio", una minuscola costruzione illuminata dal bagliore del cratere, e disse che si trovava a tre miglia lungo il bordo del vulcano. "Pare una scatola appesa alla gronda di una cattedrale" disse il signor Clemens. Fra noi e l'osservatorio, il fondo del vulcano era un labirinto di fessure infocate: neri disegni geometrici che sputavano geyser di lava, fiumi di fuoco e ribollenti colonne di vapore che si alzavano fino alla nube color sangue librata sopra il cratere come un soffitto di seta rossa. Lanciai un'oc- chiata al viso rapito dei miei compagni e notai i loro lineamenti infocati dalla luce del vulcano, gli occhi che brillavano di luce rossastra com'era avvenuto poco prima per i cavalli. "Sembriamo diavoli à la coque, no?" disse il signor Clemens, sorri- dendomi. Il mio primo impulso fu di fìngere di non udire i suoi commenti, in mo- do da non incoraggiare altre spiritosaggini, ma l'entusiasmo del momento ebbe la meglio. "Angeli caduti" risposi. "Solo, ritengo, non così belli come li descrive Milton." Il signor Clemens rise e tornò a guardare la scena di fuoco. Si era acceso un altro dei suoi pestilenziali sigari, il cui fumo era rossastro come gli altri vapori sulfurei che si levavano dal cratere. Le parti principali della grande caldera mostravano pozze e fenditure e fiumi di rossa lava in movimento, ma il bagliore proveniva dal lago per- manente all'estremità meridionale del cratere, detto Hale-mau-mau, o Casa del Fuoco Eterno, che la mitologia locale designava come dimora della temuta dea Pele. Per quanto distasse tre miglia buone dal letto di lava, quel lago proiettava più fuoco e più luce di tutto il resto del cratere. "Voglio andare laggiù" disse il signor Clemens. Gli altri rimasero sconvolti. "Stanotte?" domandò il custode dell'albergo, chiaramente spaventato. Il corrispondente annuì, facendo ballonzolare la brace del sigaro. "Sì. Stanotte. Subito." "Impossibile" disse il custode. "Nessuna delle guide abituali scen- derebbe nel cratere." "Perché no?" domandò il signor Clemens. Il custode si schiarì la voce. "La lava è molto più attiva, dopo l'eruzione della scorsa settimana. Esiste un sentiero, ma è difficile da seguire nel buio, anche con una lanterna. Chi uscisse dal sentiero, con ogni probabilità spezzerebbe la crosta di lava e precipiterebbe per mille piedi verso morte sicura." "Mmm" fece il signor Clemens, togliendosi di bocca il sigaro. "Penso che per me ottocento piedi basterebbero." "Prego?" disse il custode. Il signor Clemens scosse la testa. "Vorrei andarci ugualmente. Stanotte. Se fosse così gentile da prestarmi una lanterna e indicarmi il sentiero..." Esitò, guardando il resto del gruppo. "Qualcuno desidera venire con me?" "Penso che prenderò una buona notte di riposo e aspetterò domattina" disse il signorino McGuire. "Buona idea" convenne il gemello Smith, chiaramente atterrito al pen- siero d'entrare nel calderone quella notte stessa. A sorpresa, il reverendo Haymark si passò sul viso un fazzoletto e disse: "Be', ci sono già stato e verrò con lei... le farò da guida. Ho percorso quel sentiero di giorno. Dovrei riuscire a trovarlo anche di notte". Il custode cominciò a scuotere la testa e a illustrare i pericoli che si cor- revano se si smarriva il sentiero, ma il signor Clemens si limitò a sorridere più apertamente sotto quei suoi baffoni rossicci. "Magnifico" disse. Poi, ri- volgendosi a me: "Signorina Stewart, se non siamo di ritorno per l'alba, si senta libera di disporre come meglio crede del cavallo da me noleggiato". Sbuffai. "Dovrà prendere altri accordi per il suo cavallo, signor Cle- mens. Conto di venire con lor signori." "Ma... ma... mia cara" cominciò il reverendo Haymark, diventando anco- ra più rosso. Con un brusco gesto del mento scacciai le sue obiezioni. "Ovviamente, se non è follia per lor signori, non è follia neppure per un terzo componen- te la spedizione. Se è davvero follia... be', allora saremo folli insieme." Il signor Clemens rimise in bocca il sigaro e io guardai la brace bal- lonzolare. "Verissimo, verissimo" disse il corrispondente. "La signorina Stewart sarà un magnifico membro di questa Spedizione di Folli." Il reverendo Haymark emise un rumoroso borbottio, ma non riuscì a tro- vare le parole per esprimere i propri timori. Così, mentre i domestici si af- faccendavano a preparare la cena al signorino McGuire e all'assonnato gemello Smith, il signor Clemens, l'ansimante ecclesiastico e io ci prepa- rammo al soggiorno di mezzanotte nel più spettacolare fazzoletto del no- stro sorprendente pianeta. All'ingresso delle catacombe della Grande Hale, Byron Trumbo e Ste- phen Ridell Carter trovarono in attesa i rispettivi capi della sicurezza, Dil- lon per il Mauna Pele, Briggs per Trumbo. I due erano completamente di- versi l'uno dall'altro: Briggs, uno e novanta, calvo, massiccio; Dillon, bas- so e barbuto, occhi impassibili, mani sempre in movimento. Era stato lo stesso Trumbo ad assumerli e li usava per un'ampia varietà di scopi. — Avete trovato niente? — domandò Trumbo. I due scossero la testa, ma Dillon disse: — Signor Trumbo, c'è un guaio. Scesero la rampa ed entrarono nel tunnel pieno d'echi. — Non so cosa te lo fa credere — disse Trumbo. — A meno che per guaio non intendi ospiti fatti a pezzi e astronomi scomparsi. — No, non mi riferivo a quello — disse Dillon. Trumbo si girò a dargli un'occhiataccia e lui continuò: — Cioè, sì, quello è un guaio, ma mi riferi- vo ad altro... ecco, il soprintendente d'arte, Kukali, e due nostre clienti so- no su nella suite della direzione. Dicono di avere appena visto un cane che andava in giro tenendo in bocca una mano. Trumbo si fermò di colpo, tanto che gli altri a momenti lo urtarono. — Un cane? Con una mano? Dove? — Pallide facce li scrutavano dalle fine- stre di vari uffici e di locali di servizio nell'ampio atrio sotterraneo. Dillon si lisciò la barba e sorrise. Pareva trovare divertente la situazione. — Sul sentiero da jogging, fra il campo da golf e la costa. — Porca puttana — mormorò Trumbo, abbassando la voce in modo che la conversazione non si diffondesse nell'echeggiante corridoio. — L'hanno visto in tre, dici? — Già. Il dottor Kukali e due delle... — Kukali fa parte del nostro personale, no? — Sì, è il soprintendente all'arte e all'archeologia. È il... — Il figlio di troia che voleva farci causa per i petroglifi e le peschiere — terminò per lui Trumbo. — Merda. L'ho assunto per fargli tenere la bocca chiusa su quella storia. Ora dobbiamo trovare il modo per farlo tace- re anche su questo. Hai detto che sono nella suite della direzione? — Stavo per farli venire qui sotto nel mio ufficio — disse Dillon — ma con la faccenda del signor Wills... — Wills? — ripeté Trumbo, all'apparenza assorto nei propri pensieri. — Chi ca... ah, sì, l'astronomo. Steve, sarà meglio rimandare il giro qui sotto, finché non avrò parlato a Kukali e alle clienti... Il direttore scosse la testa e parve assai deciso. — Sono solo altri cento metri, signor Trumbo. Penso proprio che lei debba dare un'occhiata. Poi l'accompagnerò a trattare col dottor Kukali. Il soprintendente mi deve un favore. — Va bene — sibilò Trumbo a denti stretti. — Mostrami quel cazzo d'ufficio, se è così importante, merda! Le persiane della piccola finestra erano abbassate. L'insegna sopra la porta diceva DIRETTORE ASTRONOMIA. Carter armeggiò col mazzo di chiavi, alla ricerca di quella giusta. — Era chiuso a chiave, quando siamo venuti a cercare il signor Wills — spiegò. Trumbo annuì. Seguì Carter nel piccolo ufficio. Non era preparato allo spettacolo. Il locale misurava meno di quattro metri per cinque; non aveva altre por- te, nemmeno del bagno o di uno sgabuzzino, ed era quasi tutto occupato dalla scrivania, dai classificatori e dal grosso telescopio su treppiede. Alle pareti c'erano alcune stampe d'astronomia, incorniciate. L'unico segno di disordine era la poltroncina da ufficio, rovesciata sul fianco. Oltre alla fen- ditura, lunga due metri e mezzo, nella parete dietro la scrivania: uno squar- cio che correva dal pavimento al soffitto e si apriva sulle tenebre. E al san- gue. — Dio Cristo! — mormorò Trumbo. C'era sangue sulla poltroncina, sangue sulle pareti, sangue sulla scriva- nia, schizzi di sangue sulle carte sopra la scrivania, spruzzi di sangue sul- l'unica altra sedia di fronte alla scrivania, fiotti di sangue sui poster astro- nomici, luccichio di sangue sul grosso telescopio. — Dio Cristo — ripeté Trumbo, ritraendosi di un passo nel corridoio. Guardò a destra e a sinistra il tunnel fiocamente illuminato e tornò nell'uf- ficio dell'astronomo. — Gli altri l'hanno visto? — No — disse Carter. — A parte la signora Windemere della Contabili- tà, che è venuta a cercare il signor Wills perché dovevano pranzare insie- me. Era qui, quando il signor Dillon ha aperto la porta. Trumbo finalmente si rese conto del significato di quelle parole. — La porta era chiusa a chiave? — si stupì. — Hanno fatto questo macello men- tre Wills era qui dentro, chiuso a chiave? — Fissò la fenditura nella parete: non pareva abbastanza larga da consentire il passaggio di un uomo. — Dove va a finire? Cosa l'ha provocata? — Non lo sappiamo — disse Dillon. Girò intorno alla scrivania, prese dalla tasca della giacca una torcia a pila e illuminò l'interno della fenditura. La scabra superficie luccicava per... qualcosa. — Questi terreni sono un alveare di vecchi condotti di lava. Potrebbe essercene uno proprio lì. Le squadre di operai ne hanno trovati a decine, mentre scavavano i tunnel di servizio. Trumbo si avvicinò di un altro passo, badando bene a non calpestare le chiazze di sangue. Cercò di non toccare la scrivania, la poltroncina, niente. — Sì, ma cosa ha provocato la fenditura? Non ho sentito nessun terremoto. — Si rivolse a Stephen Ridell Carter. — C'è stato un terremoto? Il direttore era pallidissimo. Distolse lo sguardo dalle carte macchiate di sangue sulla scrivania del signor Wills e deglutì. — Ah... be'... ho chiama- to il dottor Hastings all'osservatorio. Fra le otto e le quattordici ci sono sta- te più di venti scosse sismiche collegate alle eruzioni, ma nessuna è stata sentita qui... neppure dagli altri che lavorano nelle catacombe... ah, nei tunnel di servizio. — Fissò la fenditura come se potesse colarne qualcosa. — Se è stata provocata da un sisma, si è trattato di sicuro di un evento molto, molto localizzato. — Evidentemente — disse Trumbo. Guardò Dillon. — Perché la porta era chiusa a chiave? Il capo della sicurezza prese una rivista che si trovava fra le altre carte sul piano della scrivania. Il sangue imbrattava la pagina aperta, ma Trumbo vide benissimo la fotografia a colori di una donna nuda, supina, a gambe larghe. — Magnifico — disse. — Al nostro astronomo piace farsi seghe prima di pranzo. — Guardò Carter. — Chi è questa signora Windemere della Contabilità? Forse è entrata, ha visto Wills col cazzo in mano, si è ingelosita e l'ha fatto a pezzi con una mannaia o chissà cosa. Carter si limitò a fissarlo. Alla fine disse: — Pare piuttosto inattendibile, signore. La Windemere è venuta a cercare il signor Dillon perché il signor Wills non si era fatto vedere a pranzo. Ed è svenuta nel vedere le condizio- ni dell'ufficio. È tuttora in infermeria, sotto sedativi. — Bene — disse Trumbo. — Quanto tempo possiamo tenerla in quello stato? — Prego, signore? — disse Carter. — Dobbiamo chiudere la bocca anche a lei. Non può andarsene a casa. Mandatemi il dottor Scamahorn. Forse potremo tenerla sotto sedativi anco- ra per un paio di giorni. L'espressione di Stephen Ridell Carter indicava chiaramente che cosa il direttore pensasse di quel piano. Trumbo guardò ancora l'ufficio e segnalò a Briggs di avvicinarsi. — Che cosa potrebbe aver provocato a un uomo una cosa del genere? Il corpulento responsabile della sicurezza si strinse nelle spalle. — Un mucchio di cose, capo. Lei ha già pensato a una mannaia. Una gran quanti- tà di sangue arterioso, se si usa una mannaia. Un'accetta, anche. Perfino un grosso coltello o un'arma automatica, una Uzi o un Mac-10, farebbero schizzare in giro un mucchio di sangue. La gente non si rende mai conto di quanto sangue contiene un corpo umano. Trumbo annuì. — Però con quella roba c'è un problema — disse Dillon, con occhi da furetto in perenne movimento sotto le grosse sopracciglia. — Ossia? — disse Trumbo. — Mannaia, accetta, coltello, Uzi... Schizzano sangue dappertutto, ma lasciano sempre un cadavere, anche. O almeno pezzi di cadavere. — Indi- cò l'ufficio e allargò le mani. — A meno che il signor Wills non sia stato trascinato in quella fenditura... — Col pollice indicò lo squarcio nella pare- te alle sue spalle. — Doveva essere a pezzi, per passarci — disse Briggs, in tono d'interes- se professionale. Dalla tasca della giacca prese la propria torcia elettrica, si accostò alla fenditura, guardò dentro. — Pare davvero più larga, là dentro. Come un tunnel o un cunicolo. — Fate portare delle mazze — ordinò Trumbo. — Fate buttare giù la pa- rete. Briggs, Dillon, controllate cosa c'è lì dentro. — Signor Trumbo — intervenne Stephen Ridell Carter, sconvolto — questo è il luogo di un delitto. Se lo manomettiamo, la polizia diventerà fu- riosa. Credo che sia contro la legge distruggere le prove. Trumbo si strofinò la fronte. Aveva un doloroso mal di testa. — Steve, non sappiamo se è il luogo di un delitto. Non sappiamo se Wills è morto. Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere a Kona, in un bar con cameriere in topless. Vedo solo un ufficio devastato e una crepa forse pericolosa. Dobbiamo accertarci che quella parete sia ancora solida. Dillon? — Sissignore. — Voglio che tu e Briggs buttiate giù la parete. Di persona. Inutile stuz- zicare la curiosità di altra gente. L'ometto barbuto parve perplesso, ma Briggs mostrò un'aria compiaciuta al pensiero di abbattere una parete. Stephen Ridell Carter iniziò a dire qualcosa, ma proprio in quel momen- to bussarono alla porta. Briggs aprì. Era Will Bryant e aveva un'aria preoccupata. — Signor T, mi concede un minuto? Trumbo preferì uscire nel corridoio e non far vedere all'altro quel macel- lo. Nel tunnel l'aria era più fresca. — Abbiamo un guaio — disse Bryant. Trumbo reagì con un pallido sorriso. — Sato? — No, con quelli tutto bene. Hanno quasi terminato di pranzare. Fra u- n'ora inizieremo la prossima sessione. — Allora cosa c'è? Altri pezzi di corpo umano? Will Bryant scosse la testa. — È appena atterrato il jet della signora Trumbo. Ho mandato una limousine a prendere lei e Koestler. Hanno pre- notato una suite qui. Trumbo non fece commenti. Cercava di immaginare quale creatura fosse potuta passare da quella breccia nella parete, smembrare un astronomo in tiro e portare con sé i pezzi. Si domandò se non c'era modo di istigare quel- la creatura, quale che fosse, a portarsi via anche una puttana del New En- gland, dura come il cemento, di nome Caitlin Sommersby Trumbo. — A dire il vero, il guaio non è questo — proseguì Bryant. Trumbo si mise quasi a ridere. — No, Will? Qual è il vero guaio? Di rado Will Bryant mostrava nervosismo, ma ora si lisciò i capelli al- l'indietro, con un gesto nervoso. — Il Gulfstream di Maya Richardson si è appena messo in contatto radio con la torre di controllo. Atterra fra due o- re. Trumbo si appoggiò alla parete. La ruvida pietra era fredda e leggermen- te umida sotto la sua mano fredda e leggermente sudata. — Così manca so- lo Bicki. Ma immagino che proprio in questo momento si sia lanciata col paracadute. — Deavers ha chiamato dal campo Lindbergh di San Diego — disse Bryant. — Un'ora fa il Gulfstream vi ha fatto rifornimento. Il piano di volo prevede l'arrivo a Kona alle venti e trentotto locali. Byron Trumbo annuì e rimase in silenzio. Cercava di soffocare l'impulso a ridere come uno sciocco. Carter, Dillon e Briggs uscirono dall'ufficio dell'astronomo; il direttore chiuse a chiave la porta. Trumbo posò la mano sulla spalla di Will. — Bene, vai a ricevere per me Caitlin e quel succhiasangue d'un figlio di puttana di Koestler, ti spia- ce, Will? Offrile dei lei, baci, frutta, la Suite Ali'i nella parte nord della Grande Hale, tutti e nove i metri. Di' a Caitlin che vado a trovarla appena avrò parlato col soprintendente d'arte e con due nostre ospiti a proposito di un cane e di una mano monca. Bryant annuì, comprensivo. Il corteo percorse in senso inverso, a passo deciso, il corridoio fiocamente illuminato. Eleanor era stufa di fare anticamera. Paul, Cordie e lei stessa avevano chiesto di vedere il direttore, che non era disponibile; allora avevano finito per parlare a quel barbuto nanerottolo a capo della sicurezza, il signor Dil- lon, che aveva chiesto loro di ripetere tutta la storia al suo assistente, un af- fabile nero di nome Fredrickson, mentre lo stesso Dillon era corso chissà dove. Anche Paul Kukali era chiaramente stufo di ripetere le stesse cose. — Senta — diceva in quel momento il soprintendente — abbiamo visto il cane. Il cane aveva fra i denti una mano. Non sappiamo altro. Non sa- rebbe il caso di mandare qualcuno a cercare il cane... e il resto del corpo? Il signor Fredrickson gli rivolse un sorriso tutto denti candidi. — Sì, si- gnore, non si preoccupi. Ma riesaminiamo questa storia. Da quale parte avete detto che il cane è corso via? — È scappato nel campo di lava dalla parte dell'oceano rispetto al sen- tiero da jogging — disse Cordie Stumpf. Guardò l'orologio, un affaruccio da quattro soldi. — Sono quarantacinque minuti che ripetiamo questa sto- ria. Il tempo è scaduto. Riprendo le mie vacanze. — Si alzò. Il signor Fre- drickson si alzò. Paul Kukali si alzò. In quel momento la porta della suite si aprì e tornò il signor Dillon, in compagnia di un uomo piuttosto basso, dall'aria aggressiva, con vecchi cal- zoncini e una camicia hawaiana sbiadita. Eleanor lo riconobbe subito, da alcuni articoli sul Time e sul Wall Street Journal. — Paul! — disse Trumbo, avanzando subito a stringere la mano al so- printendente. — Da quanto tempo non ti vedo! Paul Kukali ricambiò la stretta di mano, con entusiasmo molto minore di quello mostrato dal suo datore di lavoro. — Signor Trumbo, abbiamo vi- sto... — Ho sentito, ho sentito — disse Trumbo, girandosi verso Cordie e Ele- anor. — Terribile. E queste due incantevoli signore? — Rivolse loro un largo sorriso. Cordie Stumpf spostò leggermente il peso del corpo e incrociò sul petto le braccia. — Queste incantevoli signore sono i due terzi del terzetto che ha visto un cane correre nella sua proprietà tenendo fra i denti la mano di qualcuno — disse. — Se vuole il mio parere, non è certo il modo migliore di mandare avanti un impianto turistico. Trumbo non perdette il sorriso, che però ora pareva un rictus. — Sì, sì, me l'ha riferito il signor Dillon. — Si rivolse di nuovo al soprintendente. — Paul, sei sicuro che era una mano umana? A volte un granchio bianco assomiglia molto a una... — Era una mano — lo interruppe Paul. — L'abbiamo vista tutt'e tre. Trumbo annuì come se valutasse una nuova informazione. Si rivolse alle due donne. — Be', signore, vi faccio le mie scuse per questo spiacevole in- cidente. Ce ne occuperemo ancora, ovviamente. E mi scuso anche per ogni disturbo o fastidio che vi abbia provocato. Ovviamente penseremo noi a tutte le spese per il vostro previsto soggiorno qui al Mauna Pele e se pos- siamo fare qualche altra cosa per riparare a questa sconvolgente esperien- za, ditelo pure e provvederemo subito... gratis, ovviamente. — Sorrise di nuovo. — Tutto qui? — disse Cordie. — Prego, signora? — disse Trumbo, continuando a sorridere. — Tutto qui? Le diciamo che nello stabilimento gira un cane con in bocca la zampa di un cristiano e lei ci omaggia di una stanza e ci manda via? Byron Trumbo sospirò. — Ah... signorina... — Stumpf — disse Cordie. — Signora. — Signora Stumpf, il signor Dillon e gli altri a cui avete parlato di que- sta storia sono preoccupati, naturalmente, e troveremo di sicuro quel cane e... qualsiasi altra cosa ci sia da trovare. Ma crediamo di conoscere la causa di questo... ah... spiacevole incidente. Paul, Cordie e Eleanor attesero. Anche il signor Fredrickson parve atten- dere. — Purtroppo, di recente c'è stato un annegato, alcuni chilometri giù lun- go la costa — disse Byron Trumbo. — Un uomo del posto è caduto fuori bordo ed è annegato. Alcune parti del suo corpo sono state recuperate, ma... ah... gli squali l'avevano assalito e i resti non erano... ah... intatti. Pare probabile che quel cane... che, tra parentesi, è di sicuro un randagio, perché al Mauna Pele non ci sono cani... quel randagio avrà di sicuro trovato dei resti lungo la costa e li avrà portati qui. Ci scusiamo profondamente per qualsiasi trauma questo fatto abbia causato. Paul Kukali aveva corrugato la fronte. — Si riferisce all'annegamento di quel ragazzo samoano di Milolii? Trumbo esitò e guardò Dillon. Il capo della sicurezza annuì. Paul Kukali scosse la testa. — Quell'incidente è avvenuto tre settimane fa. E il corpo del ragazzo fu trovato parecchi chilometri più a nord. La ma- no che abbiamo visto oggi era di un bianco. Dillon sbuffò. — Dopo che un corpo è rimasto in acqua per parecchio tempo... — Lo so — disse Paul. — Ma quella mano non era sbiancata e gonfia. Si vedeva l'abbronzatura. Non credo affatto che sia stata in acqua. Era la mano di un bianco... — Non vedo motivo per turbare oltre le signore — disse Trumbo, con un cenno in direzione delle due ospiti. — Sono sicuro che la signora Stumpf e la signora... ah... — Perry — disse Eleanor. — Sono sicuro che la signora Stumpf e la signora Perry preferirebbero riprendere la vacanza, mentre noi discutiamo questa storia. — Tolse dal portafogli due biglietti di visita e vi scribacchiò qualcosa. — Signore, se li presenterete al Bar del Relitto, Larry vi preparerà il mio cocktail preferi- to... ricetta segreta... lo chiamo Fuoco di Pele. Omaggio del Mauna Pele, naturalmente. Cordie guardò il biglietto e poi il miliardario. — Tutto questo va bene, Trumbo, ma devo dirglielo... ho già tutto gratis. Ho vinto il premio per l'Il- linois del vostro concorso Vacanza con i Miliardari. — Ah, sì — disse Byron Trumbo, sempre col sorriso dipinto sulle lab- bra. — Uno stato bellissimo, l'Illinois. Conosco anche uno dei vostri sena- tori. Cordie alzò di scatto la testa. — Ah, sì? Quale? — Il decano dei senatori — disse il miliardario, come se fosse sicuro che quella donna pallida e paffuta non avrebbe riconosciuto il nome. — Il se- natore Harlen. Cordie Stumpf scoppiò a ridere. — Allora così siamo in due. — Prego? — disse Trumbo. — Niente, niente — rispose Cordie. Guardò Eleanor. — Ne ha abba- stanza di queste sciocchezze? Eleanor annuì, ma esitò un momento. Guardò il capo della sicurezza e il miliardario. — Abbiamo visto davvero quella mano — disse. — Pareva tagliata di netto... quasi come per un intervento chirurgico. E Paul ha ra- gione: era la mano di un bianco, con unghie ben curate, e non aveva l'aria d'essere stata in acqua. Trumbo annuì stancamente e cominciò a perdere il sorriso. — Signora Perry... Eleanor attese che proseguisse. — Lo riterrei un favore personale se voi non ne parlaste agli altri ospiti. La cosa disturberebbe la loro pace mentale senza... senza un vero motivo. Le garantisco che andremo a fondo di questa storia. — Se teniamo la bocca chiusa — disse Cordie — ci fa partecipare? Trumbo la guardò, sorpreso. — Prego? — Ci fa sapere che cosa scoprite — spiegò Cordie. — Ci tiene informate degli sviluppi. — Ma certo — disse Trumbo. Guardò il capo della sicurezza. — Signor Dillon, prenda nota d'informare la signora Stumpf e la signora Perry di qualsiasi novità nelle indagini. Il villoso ometto annuì, tolse dalla tasca della giacca un taccuino e una penna e con ostentazione prese un appunto. — Immagino che la polizia locale vorrà parlare con noi — disse Elea- nor. — Quasi sicuramente — confermò Trumbo, calmo. Eleanor esitò. — Sarò qui per tutta la settimana. Il personale sa in quale hale alloggio. — Grazie — ronfò Byron Trumbo. Si rivolse a Cordie. — Possiamo fare altro per lei, signora Stumpf? Cordie aveva aperto la porta, anticipando l'eventuale gesto cortese di Dillon o di Fredrickson. — Ah, mi saluti Jimmy, quando lo rivede. — Jimmy? — Trumbo sorrideva di nuovo. — Il decano dei senatori — disse Cordie. Uscì insieme con Eleanor. 14 giugno 1866, vulcano Kilauea Con il reverendo Haymark a fare da dubbia guida, il signor Samuel Clemens e io ci preparammo per la discesa di mezzanotte nel cratere del Kilauea. Sapevo che la spedizione era una follia, ma già in precedenza il fatto di agire in modo scriteriato ben di rado mi aveva dissuaso da un'avventura. Non mi dissuase neppure stavolta. I preparativi furono modesti: il custode ci equipaggiò di una lanterna ciascuno, di robusti bastoni da passeggio e di una sacca di tela contenente pane, formaggio e vino per un "picnic nel vul- cano", una volta raggiunto il lago di lava attiva, dall'altra parte del cratere, a qualche miglio di distanza. Né Hananui né qualsiasi altra persona del posto ci avrebbero fatto da guida in quella particolare notte (pareva che un'altra bocca sul fondo del cratere minacciasse di eruttare) ma la nostra ex guida ci accompagnò alla "scalinata", un ripido sentiero intagliato in una crepa lungo la parete del cratere a metà strada fra Casa Vulcano e la capanna dal tetto di stoppie, Casa Osservatorio. Il reverendo Haymark affermò d'essere sceso per quella via, nelle spedizioni precedenti; con il corpulento ecclesiastico a far da guida, io nel mezzo e il nostro corrispondente californiano in retroguardia, ci avviammo per una tortuosa scalinata di roccia lavica, lunga almeno mil- le piedi, verso il fondo del cratere. Credo che il buio fittissimo (le pareti di roccia intorno a noi erano illuminate solo dalla stessa luce rossastra del vulcano che ci arrossava mani e viso) fosse un vantaggio, perché i piccoli cerchi di luce lanciati dalle nostre dondolanti lanterne non ci mostravano l'orribile sorte che ci sarebbe toccata se avessimo messo un piede in fallo o sbagliato una curva. Una volta sul fondo del cratere fu evidente che la superfìcie di lava raf- freddata, uniforme e solida se vista dall'alto, in realtà contava migliaia di screpolature, fessure e squarci attraverso i quali era visibile la sottostante lava ancora fusa. Il reverendo Haymark disse di ricordare il sentiero e, te- nendo davanti a sé la lanterna per cercare la liscia sezione di lava, avanzò con noi sul fondo del cratere. Per quanto "raffreddata", la lava era ancora tanto calda da scottarmi le piante dei piedi malgrado i robusti stivali. Non potevo nemmeno immagi- nare il calore della lava che in quello stesso momento ribolliva al nostro stesso livello e anche più in alto, in bocche gorgoglianti a solo qualche centinaio di piedi alla nostra destra e alla nostra sinistra. "Si tratta, credo, di percorrere solo alcune centinaia di iarde per attraver- sare questo tratto difficile" disse il reverendo e con una certa fretta si avviò sulla roccia rovente. Io lo seguii, con le sottane che si gonfiavano e riflet- tevano il calore contro le gambe inguainate negli stivali, mentre il cerchio della mia lanterna si manteneva a malapena a contatto con quello del reve- rendo. Il signor Clemens si affrettava dietro di noi, sigaro ancora in bocca, per quanto il suo fumo paresse piuttosto ridondante in quell'abisso inferna- le. Se non altro, però, il puzzo di solfo ne mascherava l'odore. Mi è impossibile, anche se da quell'esperienza è trascorso pochissimo tempo, descrivere adeguatamente le meraviglie di un vulcano in piena atti- vità. Mentre all'inizio avevamo l'impressione di trovarci in un vuoto illu- minato di rosso, privo di consistenza rocciosa o di particolari, presto impa- rammo ad adattare gli occhi all'infocato bagliore intorno a noi, anziché al limitato raggio d'azione delle nostre lanterne; e poi il fondo del vulcano di- venne un luogo fantastico: terrazze di pietra nera, laghi di fiamme, creste, dirupi e baratri, coni, fiumi di fuoco liquido, pendii di cenere, grandi pezzi di lava proiettati in aria, abissi a picco pieni di fumo e di vapori sulfurei. Il Kilauea sgroppava e ruzzava, alitava e ansimava, sputava il suo infocato veleno tutt'intorno a noi, senza badare alla nostra presenza, indifferente al- la nostra intrusione, così come un grande dio Vulcano sarebbe stato indif- ferente alla presenza di tre pulci timorose nella sua infocata fornace. Ed era davvero una fornace infocata. Credo che perfino il signor Cle- mens si rendesse conto della follia della nostra impulsiva decisione, per- ché, quando il reverendo Haymark si fermò a controllare il sentiero e ad asciugarsi il viso sudato, il corrispondente gridò per superare il crepitio di pietra che si raffreddava: "È sicuro di conoscere la via?" "Di giorno è più facile" rispose il reverendo, con occhi che parevano sgranati e bianchi in quella terribile luce. "E con una guida." Di sicuro io e il signor Clemens tradimmo una certa preoccupazione, perché l'ecclesiastico si affrettò a soggiungere: "Ma presto avremo attra- versato la parte peggiore. Poi si tratta solo di una passeggiata sulla pietra". Come scoprimmo, la "parte peggiore" durò ancora un quarto di miglio e richiese da parte nostra vari salti per superare strette fenditure dove fluiva la lava, centinaia di piedi più in basso. Pensare alle conseguenze di un sal- to mal riuscito mi avrebbe paralizzata, perciò misi da parte quel pensiero e saltai. Il calore mi faceva fumare le sottane nell'aria densa. In un'occasione caddi in una buca che non avevo visto e sentii le fiamme lambirmi gli sti- vali; allora, senza aspettare che gli altri due, sorpresi, posassero le lanterne per ripescarmi, misi le mani sulla roccia e mi tirai fuori al sicuro. Con mia grande sorpresa, la roccia era così calda che i miei robusti guanti di cuoio furono quasi carbonizzati e le mani mi si riempirono di vesciche, come se le avessi poste, nude, sopra la sibilante superficie. Di questo non dissi niente agli altri, ma alzai la lanterna e seguii il reve- rendo nel suo incerto, saltellante procedere sullo scabro fondo del cratere. Il nostro viaggio richiese poco più di un'ora attraverso il cratere del Ki- lauea, ma a causa della luce infocata, del continuo pericolo, della necessità di badare sempre a dove si mettevano i piedi quando era quasi impossibile badare a dove si mettevano, ci parve che non dovesse finire mai. Poi, al- l'improvviso, senza avvertimento, giungemmo al lago di fuoco, il vero e proprio orlo dello Hale-mau-mau. Le normali parole sono del tutto inutili. Le parole che vengono alla men- te, fontane, schizzi, fuoco, getti, esplosioni, semplicemente non fanno nul- la per trasmettere l'assoluta e opprimente alienità, il puro e semplice pote- re, la terrificante grandiosità della scena. Nel punto più stretto il lago misurava circa cinquecento piedi e quasi mezzo miglio in quello più largo. Le rive erano pareti perpendicolari di la- va nera (lo stesso materiale "freddo" sul quale ora mi trovavo e che mi fa- ceva fumare gli stivali per il calore), nessuna inferiore a cinquanta piedi e alcune anche superiori ai duecento, che emergevano dalla lava incande- scente come una sorta di Nere Scogliere di Dover su canali di pigra fiam- ma. Coni si levavano dal lago, dalle spiagge del lago: ciascuno emetteva grandi sbuffi di vapore e di nebbia sulfurea, che la stessa lava in ebollizio- ne colorava dei rossi e degli arancione più cupi. Quelle nubi di vapore sa- livano al bordo del cratere (ora a distanza apparentemente inestimabile so- pra di noi) e all'infocata cappa di nuvole che si librava, bassa, sul cratere. Ma fu il lago di fuoco a catturare la mia attenzione e a scolpirsi in ma- niera indelebile nella mia mente. Lava rifluiva e zampillava, si alzava in grandi onde contro se stessa e contro le scogliere che cercavano di racchiuderla. Lava ribolliva davanti a noi... sopra di noi, perché il moto ondoso mandava cavalloni a frangersi contro i coni più in alto della nostra testa a meno di cento iarde dall'altra parte del lago... e turbinava in mille vortici infocati che mandavano roccia fusa a lambire le rive. Proprio davanti a noi, undici violente fontane di fuoco schizzavano nell'aria quell'ardente effluvio e da lì lo rimandavano a cadere nel lago che l'aveva generato. Dovunque intorno a noi c'erano il si- bilo e il crepitio di roccia fusa che si rapprendeva, il mormorto del vapore che esalava da migliaia di crepe nascoste, il gemito di superfici che si e- spandevano e si contraevano... e, come sottofondo, il costante fiotto di ca- lore di quell'oceano di fuoco, di quel lago di grezza creazione che ondeg- giava e soffiava proprio davanti ai nostri piedi. Mi girai verso il reverendo Haymark, ma l'ecclesiastico fissava a bocca aperta la scena, con occhi velati, borbottando: "Non l'avevo mai visto di notte... Non l'avevo mai visto di notte". Allora mi girai verso il signor Clemens, quasi a sfidare l'insolente giova- notto a fare dell'umorismo su quello spettacolo; ma il signor Clemens ave- va gettato via il sigaro e guardava con aria rapita, in una sorta di religioso timore reverenziale. Come se avesse sentito il mio sguardo, si girò nella mia direzione (le sue sopracciglia rossicce, i suoi baffoni e i suoi ricci era- no resi arancione dai fiotti di luce) e aprì bocca come per parlare, senza poi dire nulla. Gli rivolsi un cenno e mi girai a guardare con lui lo spettacolo. Per due ore o più restammo sul bordo dello Hale-mau-mau, la casa di Madame Pele, e guardammo nascere scarpate di lava in raffreddamento, ora innalzando rampe e isole nel lago di fiamma, ora cedendo al calore e rifluendo di nuovo in forma di roccia fusa, con onde che lambivano più in alto mentre il livello lavico aumentava e il calore ci spingeva ad arretrare, ora solidificandosi come roccia nera increspata in nuova esistenza, creando nuove rive e nuove spiagge, nuove scogliere e nuovi coni. E per tutto il tempo, i coni sorti da quell'abisso ribollente di fiamma lanciavano verso le nubi i loro bracci incendiari e la stessa roccia sotto i nostri piedi scricchio- lava e mutava, offrendo nuovi spettacoli del magma sottostante. Ecco co- m'era il nostro luogo da picnic, mentre mangiavamo il pane e il formaggio che il nostro ospite ci aveva preparato e sorseggiavamo il vino da bicchieri che lui aveva avvolto con cura e incluso nella nostra sacca. "Faremmo meglio a tornare" disse infine il reverendo Haymark, con vo- ce rauca, come se avesse continuato a gridare, malgrado fossimo rimasti in quasi totale silenzio per tutto il tempo passato su quella spiaggia infernale. Allora il signor Clemens e io ci guardammo, come per protestare, come per ammutinarci alla sua decisione e restare dov'eravamo, per tutta la not- te, per tutto il giorno, fino allo splendore di un'altra notte nel reame di Pe- le. Non ci ammutinammo, naturalmente, anche se credo che ciascuno di noi abbia letto negli occhi dell'altro quell'attimo di follia. Invece annuimmo e arretrammo, guardando il mare di fiamma per tutto il tempo possibile, fin- ché il buonsenso non ci spinse a guardare dove mettevamo i piedi e a se- guire la ballonzolante lanterna della nostra guida. Confesso su queste pagine che, alla prima vista del mare di fuoco, avevo posato a terra la lanterna e che non la raccolsi (né pensai di raccoglierla) quando mi allontanai dalla riva di quel terribile oceano. La luce rossastra mi era parsa talmente vivida e i miei sensi erano così pieni della spavento- sa grandiosità che mi circondava che non pensai più alla lanterna. Non pensai a nulla, se non alle scene e agli odori che mi avevano sopraffatta come nient'aitro, nei miei trentun anni di vita, era riuscito a fare neppure lontanamente. Mi mantenni come prima al centro fra i miei due compagni, notando futilmente che il signor Clemens aveva portato la sua lanterna e che quella del reverendo ballonzolava più avanti con l'usuale regolarità, e posai gli stivali fumanti sulla scura lava, procedendo a passi pesanti, trop- po stanca e confusa per pensare. Perciò rimasi sconvolta, nell'udire che il reverendo Haymark gridava con voce allarmata: "Fermi!". Il signor Clemens e io ci arrestammo di colpo, forse a dieci piedi l'una dall'altro. "Cosa c'è?" domandò il corrispondente, il cui tono tradiva una certa ten- sione. "Siamo usciti dal sentiero" rispose il reverendo. Udii il tremito nella sua voce e di riflesso mi sentii tremare le ginocchia. Immediatamente sia Haymark sia Clemens iniziarono a protendere la propria lanterna, senza muovere i piedi; ma intorno a noi c'era il buio rotto solo dal bagliore di lava attraverso stretti crepacci. "Qui ci troviamo più in alto" disse il reverendo Haymark. "Molto al di sopra del nocciolo profondo. La lava è marcia, un guscio sottile. Ho notato la differenza nel suono, mentre camminavo. Confesso di non averci fatto attenzione." Il signor Clemens e io restammo in silenzio. Alla fine il signor Clemens disse con calma: "Se ripercorriamo i nostri passi...". Il reverendo Haymark moveva furiosamente la lanterna in ampi archi, il- luminando a volte un viso atterrito. "Sarebbe molto difficile, signore. Ab- biamo fatto passi lunghi, per saltare da cresta a cresta. Un passo falso ci fa- rebbe sprofondare con una caduta di mille piedi nella lava." "Penso che per me ottocento basterebbero" disse il signor Clemens, ripe- tendo la misera battuta di parecchie ore prima. Mi sentii impossibilitata a respirare, tanto spaventoso era il pensiero d'esserci sperduti su quell'infida crosta di lava. "Potremmo aspettare l'alba" proposi; ma all'alba mancavano alcune ore e, anche mentre lo dicevo, sa- pevo che non potevamo stare lì fermi per tutta la notte. "Forse potremmo camminare prudentemente all'indietro fino a trovare il sentiero" disse il reverendo Haymark. Riuscì a muovere un solo passo, prima di rompere la crosta e precipitare. Senza dubbio il mio strillo fu qualcosa di pietoso, a paragone del ruggito della lava e del sibilo del vapore che sgorgarono intorno a noi nella notte. 11 Fin tanto che la luce di lava sfolgora dal lago di lava abbagliando il chiarore delle stelle; fin tanto che l'argenteo vapore nella luce del giorno sopra la montagna resta sospeso, lo splendore di Kapiolani sarà mischiato con l'una e l'altro su Hawa-i-ee. ALFRED LORD TENNYSON Kapiolani, 1892 Il capo della sicurezza Matthew "Matt" Dillon non era di cattivo umore quando varcò la porta con la targa SOLO PERSONALE AUTORIZZATO e scese la rampa che immetteva nelle catacombe sotto il Mauna Pele. Dil- lon aveva lavorato brevemente per l'Fbi, poi, caso raro tra funzionari go- vernativi, era stato trasferito alla Cia e vi aveva lavorato per sette anni, prima di passare alla sicurezza privata. Il suo campo di competenza riguar- dava le tattiche antiterroristiche, in particolare gli attentati contro grandi impianti. Per essere un esperto nella protezione di simili impianti, Dillon era divenuto un esperto nel progettare attentati. I suoi servizi erano stati of- ferti perfino all'esercito, quando gli idioti da cui si lasciava consigliare il presidente Carter progettavano il recupero degli ostaggi trattenuti in Iran nell'ambasciata americana occupata. Dillon non aveva mai rimpianto che l'esercito non avesse accettato l'offerta dell'Fbi, evitando così di coinvol- gerlo in quel fiasco monumentale. Faceva da cinque anni il consulente privato quando Pete Briggs, che l'anno precedente aveva partecipato al suo corso per la protezione di diri- genti d'azienda, gli aveva proposto di lavorare per Byron Trumbo. Dillon non era interessato a un impiego di questo tipo, il lavoro sedentario lo an- noiava a morte, ma Briggs aveva insistito; erano andati insieme da San Diego a New York in jet privato, Dillon aveva avuto un colloquio con Trumbo in persona, aveva ritenuto interessante il lavoro (non doveva oc- cupare semplicemente la poltrona di direttore della sicurezza, ma risolvere guai in tutto il vasto impero di Trumbo, imprese commerciali, casinò e al- berghi) e lo stipendio, il doppio di quanto guadagnava come consulente perfino in quel favorevole periodo di rapimenti e di attentati contro il per- sonale dirigente. Dillon aveva accettato. Per un paio d'anni si era divertito, in jet per il mondo a occuparsi di mi- nacce di ricatto e di infrazioni alla sicurezza, a individuare ladri nei casinò e negli uffici contabili del signor Trumbo, perfino a mostrare i muscoli ai nemici meno gradevoli del signor T, quand'era il caso. Dillon non aveva avuto difficoltà ad agire nelle zone grigie della legge e neppure a scendere nel nero al di fuori della legge, quando il lavoro lo esigeva. Trumbo l'ave- va intuito, pareva, e si era servito di Dillon in questo senso. Poi, sei mesi prima, erano iniziate le sparizioni nel Mauna Pele e Dillon era salito sul primo aereo diretto a ovest. Aveva progettato di arrivare in veste non ufficiale per farsi un'impressione del luogo. All'inizio era stato uno spasso, crogiolarsi al sole, starsene tutta la sera al Bar del Relitto, in genere facendo la parte del turista scemo, e intanto esaminare l'impianto turistico per capire che cosa vi accadeva. La tecnica non aveva avuto risul- tati. Stephen Ridell Carter era un direttore coscienzioso. Il capo della sicu- rezza del Mauna Pele, un ex poliziotto hawaiano di nome Charlie Kane, era un tipo pigro ma non privo di competenza. La polizia aveva indagato in tutte le direzioni ovvie, ex impiegati scontenti, svitati locali, possibili ne- mici personali di Trumbo, senza scoprire niente. Dopo una settimana d'inu- tile lavoro sotto copertura, Dillon si era presentato a Carter, a Kane e alle autorità locali e aveva collaborato con loro. Sempre senza risultati. Era frustrato per lo smacco. Quando Trumbo aveva licenziato Charlie Kane e aveva chiesto a lui di assumere la posizione di capo della sicurezza del Mauna Pele per il tempo necessario "a sistemare la faccenda", Dillon aveva accettato, pensando che si sarebbe trattato al massimo di alcune set- timane. Non era nel suo stile lasciare irrisolto un mistero. Ora, più di sei mesi dopo, Matthew Dillon era stufo di Hawaii, stufo del Mauna Pele, stufo del sole e dell'aria fresca e del rumoreggiare di frangen- ti. Voleva tornare all'inverno di New York, alle sue strade luride e ai suoi sgarbati tassisti. Voleva sistemare le rogne in uno dei casinò del signor T a Las Vegas o Atlantic City, lavorando per tutta la notte in un mondo al chiuso, dove nessuno sapeva se fuori era giorno o notte e comunque se ne fregava. Ma adesso quella storia. Pezzi di corpo umano che spuntavano sul cam- po da golf. La scomparsa di quei tre del New Jersey. L'astronomo svanito in un'orgia di sangue. Matthew Dillon sogghignò, allungò il passo nel tun- nel di servizio e diede qualche colpetto alla fondina appesa al fianco. Era come ai vecchi tempi. La porta dell'ufficio non era chiusa a chiave. Dillon tolse dalla fondina la Glock 9 mm. e spinse piano il battente. Pete Briggs, al centro della stanza, reggeva una mazza da cinque chili e si sfregava il mento. Dillon rimise nella fondina la semiautomatica. — Vuoi davvero abbattere la parete? — domandò. Briggs non girò la testa. Dillon sapeva che quel gigante aveva l'aria mez- za tonta ma era piuttosto furbo. E un buon guardaspalle. Dillon conosceva un mucchio di professionisti che facevano un lavoro ben peggiore, se si trattava di guardare le spalle a qualcuno. — Già — rispose Briggs. — La polizia locale sputerà fiamme. — Già — ripeté Briggs, ovviamente disinteressato alle reazioni della po- lizia locale. Spostò la mazza dalla spalla sinistra alla destra e guardò Dil- lon. — Aspettavo te. Dillon inarcò il sopracciglio. Con un cenno Briggs indicò una grossa torcia elettrica. — Sarà meglio che uno di noi faccia luce, mentre l'altro abbatte la parete. Dillon prese la torcia. — D'accordo. Briggs raccolse dal piano della scrivania un paio di occhialoni di plastica e se li mise; spinse da parte la scrivania, avvicinò la mazza alla sezione più larga della fenditura, come per valutare il colpo, e disse: — Farai meglio a stare più indietro. Non c'era molto spazio per stare più indietro, ma Dillon si spostò contro la parete opposta e alzò la torcia. — Tira anche fuori la berta. Dillon lo guardò. — Perché? Pensi che chi s'è portato via Wills esca da lì a prenderti? Briggs non sorrise. — Tieni la torcia e la Glock puntate sul buco, mentre lo allargo. Dillon non amava prendere ordini, ma scrollò le spalle e tolse dalla fon- dina la 9 mm. Le luci a soffitto erano abbastanza vivide in quell'ambiente ristretto, ma Dillon puntò verso il buco il raggio luminoso, tenendo nella sinistra la torcia, proprio sopra la destra che impugnava la pistola, come gli avevano insegnato, spostando insieme raggio e canna. — Pronto — disse. Pete Briggs sollevò la mazza e la vibrò con forza contro la parete. Dalla spiaggia nei pressi della sua hale Eleanor aveva guardato il sole scomparire nell'oceano e poi era andata al Bar del Relitto per bere qualco- sa. Un piccolo numero di ospiti occupava alcuni dei tanti tavolini disposti sotto il tetto di stoppie del bar o sulla terrazza lastricata che dava sulla spiaggia. Eleanor si sedette da sola al limitare della terrazza, ordinò un gin tonic e lo sorseggiò, mentre il cielo di ponente cambiava colore, dal rosa al violaceo al viola scuro. Le palme proiettavano nel cielo sagome dentellate. Eleanor scorgeva a est il bagliore del vulcano che illuminava la nube di ceneri che aveva cambiato di nuovo direzione e ora oscurava la costa Ko- na. La spiaggia e i passaggi pedonali erano deserti, finché un solitario fat- torino hawaiano, vestito solo del tradizionale perizoma, percorse rapida- mente il sentiero reggendo una lunga torcia con cui accese i numerosi bra- cieri e torce a gas che fiancheggiavano i vialetti. Le fiamme si agitarono e sfrigolarono nel vento che si alzava. Eleanor era immersa nei propri pensieri... quella giornata, il cane e il suo orrido giocattolo, la sua personale e bizzarra ricerca in quel luogo... quan- do alzò gli occhi e vide Cordie Stumpf in piedi accanto a lei, con in mano una bottiglia di birra e un bicchiere. — Ehi, Nell, ti secca se mi siedo? — No, certo — rispose Eleanor. "Nell?" pensò. Il diminuitivo quasi le piaceva. Nella sua famiglia, per generazioni, ogni zitella aveva avuto un soprannome col quale era stata conosciuta negli anni a venire... zia Kidder, zia Mittie, zia Tam, zia Beanie... Eleanor si disse che avrebbe potuto sop- portare benissimo "zia Nell". — Oggi pomeriggio è stata davvero una bella scenetta, no? — disse Cordie, sorseggiando la birra. Eleanor annuì, continuando a guardare il cielo che sbiadiva. — Trumbo voleva proprio nascondere tutto sotto il tappeto — disse Cor- die. — La polizia non mi ha ancora cercata. Tu l'hai vista? — No. — Sono sicura che Trumbo non l'ha chiamata. — Perché non dovrebbe chiamarla? — chiese Eleanor. Lontano sul mare una nave a vela era una sagoma triangolare contro il violetto dell'orizzonte. Anche se il vento si era alzato, l'oceano pareva perfettamente calmo e qua- si non c'erano onde a infrangersi sulla sabbia distante solo una quindicina di metri. Cordie si strinse nelle spalle. — Forse per evitare la pubblicità. Eleanor si spostò per guardarla in viso. — Come pensa di fare? Presto ne parleremo a qualcuno. Potremmo chiamare la polizia stanotte stessa... ad- dirittura adesso. Cordie si versò altra birra, bevve, si leccò dalle labbra la schiuma. — Già, ma non lo faremo. Siamo in vacanza. Eleanor non capì se Cordie scherzasse. — Inoltre — proseguì Cordie — penso che Trumbo cerchi di vendere il Mauna Pele. Forse cerca solo di tenere tutto nascosto finché non l'avrà sca- ricato a quei giap che gli ho visto scarrozzare stamattina. Eleanor trasalì alla parola "giap". — Come mai conosci Byron Trumbo? — domandò. — Il National Enquirer e A Current Affair — rispose Cordie. — Non hai sentito niente dei suoi guai con la moglie e l'amichetta? Eleanor scosse la testa. — Peggio del vecchio Donald Trumbo con quella comesichiamava, qualche anno fa. Trumbo ha iniziato le pratiche per divorziare da una mo- glie intelligente, che l'ha aiutato a costruire il suo impero... o almeno così dice l'avvocato di lei. E poi Trumbo ha cominciato a farsi vedere in giro con quella supermodella... — Maya Richardson — disse Eleanor; bevve le ultime gocce di gin to- nic. — Allora lo leggi, il National Perspirer. — Solo una scorsa ai titoli, quando sono in coda al supermercato. — Già — disse Cordie. — Ah-hah. Bene. A Current Affair dice che Trumbo ha una nuova storia con una modella più giovane. Una di cui Ma- ya ancora non sa niente. — Chiamò il cameriere. Quando il giovanotto si avvicinò, Cordie gli mostrò il biglietto di visita che garantiva bevande gra- tis per il resto del soggiorno e disse: — Assaggeremo uno dei cocktail pre- feriti del signor Trumbo. Il Pelo di Pele. — Vuol dire Fuoco di Pele — la corresse il cameriere. Era biondo, bello, abbronzato. — Quello che è — disse Cordie. — Ne porti due. — Rimase a fissare il posteriore del cameriere che si allontanava. — Non dovrei fare miscugli — disse Eleanor. Cordie inarcò le sopracciglia. — Oh, ne volevi uno anche tu? — Attese un istante, poi sorrise. — Be', non t'è passata la voglia di bere, dopo quello che abbiamo visto oggi? Eleanor esitò. — Comincio a dubitare di quello che abbiamo visto. — Oh, non dubitarne. Abbiamo visto bene. E io ho visto cose anche più strane. Eleanor aprì bocca per domandare quali, ma Cordie proseguì senza dar- gliene il tempo. — Hai visto bene il cane? — Ho visto solo che era nero — rispose Eleanor. — E grosso. Come un Labrador troppo cresciuto. Cordie si sporse verso di lei. — L'ho visto stamattina presto. Proprio mentre faceva chiaro. Lo stesso maledetto cane correva sulla spiaggia. — Ah, sì — disse Eleanor. — Mi avevi domandato se avevo visto un cane nero. Ora ricordo. Cordie annuì. — Hai notato i denti? Per questo stamattina ti ho doman- dato se l'avevi visto. — I denti? — Eleanor si sforzò di ricordare. Il cane era rimasto davanti a loro solo per qualche secondo prima di schizzare via nei campi di lava. Lei ricordava lo choc nel vedere che cosa teneva in bocca e la sensazione che nell'animale ci fosse qualcosa di sbagliato, ma niente di preciso riguardo ai denti. Scosse la testa. — Cosa avevano i suoi denti? Cordie si appoggiò alla spalliera, mentre il cameriere posava sul tavolino i cocktail. Sparito il giovanotto, disse: — Aveva denti umani. Eleanor batté le palpebre, stupita. — Davvero — confermò Cordie Stumpf. Avvicinò a sé l'alto bicchiere. Il contenuto era rosso e vi galleggiava uno spicchio d'arancia. — Dio mi è testimonio che quel maledetto cane aveva denti umani. Simili a una dentie- ra. Stamattina, sulla spiaggia, quella creatura mi ha sorriso. — Ti sarai sbagliata — disse Eleanor. — No no. In vita mia ho avuto tanti cani quanti uomini e so benissimo come sono fatti. Già la prima volta quella creatura mi era parsa strana. Quando stamattina mi ha sorriso, ho visto perché. Eorse oggi pomeriggio non me ne sarei accorta... con quella mano che gli penzolava dalla bocca e tutto il resto... ma sapevo già cosa cercare e ho controllato: erano denti umani, niente da fare. Eleanor provò un lieve senso di vertigine. Aveva preso in simpatia Cor- die Stumpf e non voleva che la ritenessero pazza. Per nascondere l'imba- razzo prese il bicchiere, tolse l'ombrellino e il germoglio di menta, sorseg- giò il contenuto. — È dolce — disse. — Chissà cosa c'è dentro. — Tutto — rispose Cordie. — Assomiglia a un Long Island Iced Tea con essenza di ciliegia e quattro altri alcolici. Se ne bevo due, mi ritrovo a ballare nuda nel bar. Eleanor provò a raffigurarsi la scena, poi scacciò in fretta quel pensiero. — A proposito di ballare nudi — disse Cordie — cosa pensi di quel Paul? Eleanor deglutì. — Che c'entra lui? Cordie sorrise. — Si è preso una vera cotta per te, Nell. Che lei ricordasse, nessuno aveva mai usato in sua presenza quella frase. Eleanor prese qualche secondo, prima di rispondere: — Ti sbagli. — No no — disse Cordie. — Non ho alcun interesse per il dottor Kukali — disse Eleanor. Si rese conto del tono, un'insegnante che rimproveri un'allieva, ma non sapeva che cosa farci. — Io lo so — disse Cordie, con un lieve sorriso. — Lo vedo. Ma non sono sicura che il dottor K se ne renda conto. A volte gli uomini sono duri come mattoni. Eleanor decise di cambiare argomento. — Comunque, il dottor Kukali ha detto che questo pomeriggio sarebbe andato a Hilo. Tiene conferenze al Mauna Pele solo una volta alla settimana. — Non credo. Penso che stasera sarà ancora qui. Eleanor bevve ancora un sorso: la bevanda era troppo dolce, ma piace- vole. — Cosa te lo fa credere? Cordie indicò con un cenno l'ingresso della terrazza alle spalle di Elea- nor. — È appena entrato nel bar e viene al nostro tavolo. 14 giugno 1866, vulcano Kilauea Quando il reverendo Haymark ruppe la crosta di lava solidificata, il mio primo pensiero fu: "Si volatilizzerà e le fiamme risultanti consumeranno anche noi!". Un pensiero indegno. E la mia ipotesi rimase senza conferma, perché il povero ecclesiastico precipitò solo in parte, trattenuto dalle brac- cia allargate. "Non movetevi per venirmi a salvare!" gridò il reverendo Haymark. Il suo altruismo era chiaramente più sviluppato di quello del signor Clemens e di me stessa, dal momento che né lui né io avevamo compiuto o pensato di compiere il minimo gesto per salvare la nostra guida. A dire il vero, non credo che in quel momento sarei riuscita a muovere un solo passo. Il reverendo si districò con una grande quantità di ansiti e di sbuffi e a quattro zampe strisciò lontano dalla buca. Il bagliore del magma si riversò dalla frastagliata apertura. Il reverendo Haymark si tirò cautamente in pie- di, accese di nuovo la lanterna che aveva lasciato cadere e disse: "Cercate il sentiero. È più duro e più asciutto di questa superficie". Il signor Clemens e io cercammo furiosamente tutt'intorno, senza muo- vere i piedi sull'infida superfìcie, ma fin dove giungeva la luce di lanterna il terreno pareva tutto uguale. Quale che fosse stata la differenza, era invi- sibile a lume di lanterna. Eravamo perduti senza speranza su quella sottile crosta sopra un insondabile lago di lava. "Presto" gridò il reverendo Haymark "spegnete le lanterne." A questo suggerimento il signor Clemens parve tanto dubbioso quanto mi sentii io stessa, ma seguimmo l'esempio della nostra corpulenta guida. Dopo qualche istante, tutto fu buio, a parte l'infernale bagliore dell'ormai lontano lago di lava e delle innumerevoli fenditure intorno a noi. "Non mi sono accorto d'avere lasciato il sentiero per l'aspetto della su- perficie" spiegò il reverendo Haymark, a voce bassa, come se un forte ru- more avesse potuto farci sprofondare nella crosta sottile. "Me ne sono ac- corto dal suono." "Come sarebbe a dire?" domandò il signor Clemens. "Il sentiero era consumato e liscio. Nelle zone non calpestate ci sono an- cora quei sottili aghi di lava. State a sentire." Mosse lo stivale sulla super- ficie e udimmo infatti un lieve raspio, come se quegli aghi sottili finissero frantumati sotto la suola. "Proprio questo rumore mi ha fatto capire che e- ravamo fuori strada." Mi guardai intorno nel buio. Forse il sentiero sarebbe stato visibile, se l'avessimo ritrovato, ma al momento non si vedeva di sicuro. "Chiudete gli occhi!" gridò il reverendo Haymark e subito li chiuse, mo- vendo il piede in piccoli cerchi e posando sull'altra gamba tutto il peso del corpo. Il signor Clemens e io capimmo al volo l'assennatezza della manovra del reverendo; chiudemmo gli occhi e cominciammo a cercare col piede lo scricchiolio rivelatore. Se qualcuno fosse stato lì a guardare, avrebbe assi- stito a una buffa scena... tre avventurosi che si reggevano su di un solo piede nell'infernale tenebra, movendo ciascuno l'altra gamba in movimenti cauti, lenti, simili a un balletto, a occhi chiusi, ciascuno con un'indelebile espressione di paura, quando moveva un passo per allargare la zona di ri- cerca. A ogni passo m'aspettavo di sprofondare ed ero sicura di udire un generale scricchiolio, come se l'intera zona si preparasse a crollare sotto di noi come un velo di ghiaccio sottile. "L'ho trovato!" esclamò Samuel Clemens. Il reverendo e io aprimmo gli occhi e vedemmo che il signor Clemens teneva la gamba destra protesa al massimo e col piede strusciava una zona assai distante, alla nostra sinistra. Non capivo come riuscisse a mantenere l'equilibrio in una posa così comi- ca. "Suona diverso" disse il signor Clemens. "Devo fare un altro passo, per scoprire se posso fidarmi delle mie orecchie. Potrebbe trattarsi di un tratto ancora più sottile." "La prego, signor Clemens, faccia attenzione" dissi io, rendendomi con- to, mentre lo esprimevo, di quanto fosse assurdo il consiglio. Il corrispondente mi lanciò un'occhiata, con occhi luminosi sotto quelle folte sopracciglia. Il bagliore rossastro lo rendeva simile a un demone ma- ligno. "Signorina Stewart..." cominciò in tono pressante. "Sì?" "Se la crosta non mi regge, le dispiacerebbe riportare in California un mio messaggio?" Provai un tuffo al cuore. "Certo, signor Clemens." "Sarebbe così gentile" disse lui, in tono addolorato "da cercare tutte le giovani signore che ho corteggiato e riferire a ciascuna che avevo sulle labbra il suo nome, mentre cadevo incontro al mio destino?" Non c'erano risposte possibili a simile impertinenza. Perciò dissi: "Muo- va il passo, signor Clemens". Il corrispondente spiccò un lungo balzo e atterrò a piedi uniti, come un bambino che giocasse a saltamontone. La superficie di lava resistette. Il si- gnor Clemens si acquattò, tastò con tutt'e due le mani la superfìcie e an- nunciò: "È il sentiero. Da qui riesco a vedere dove porta". I sei passi necessari al reverendo Haymark e a me per raggiungere il si- gnor Clemens sulla superficie solida furono il viaggio più lungo della mia vita. Alla fine, dopo esserci accertati che si trattava davvero del sentiero seguito fino al lago di lava e avere ripreso fiato, accendemmo le lanterne e procedemmo con maggiore prudenza di prima. Le ultime centinaia di iarde per attraversare l'ardente superfìcie e le sottili fenditure, così spaventose nel nostro viaggio di ritorno, parvero gioco da bambini, dopo i terrori dello Hale-mau-mau e la successiva disavventura. Era quasi l'alba quando risalimmo l'ultimo tratto della scalinata lunga mille piedi e sbucammo sul bordo del cratere. Hananui ci aspettava lì e si svegliò al nostro arrivo come un fedele cane felice di vedere i padroni. A- vevo pensato che la guida fosse rimasta al suo posto per lealtà professiona- le, ma dal suo blaterare eccitato parve che nel cuore della notte fosse acca- duto qualcosa di straordinario a Casa Vulcano. "Calma, calma" disse il reverendo Haymark, posandogli sulle spalle le manone, come se tranquillizzasse un bambino. "Racconta tutto a poco a poco." "Missionari, arrivati da Kona" ansimò l'ometto, a occhi sgranati. "Scap- pano." Il signor Clemens era impegnato ad accendersi un sigaro, come se aves- se aspettato che fossimo al sicuro fuori del cratere per fare festa. "Scappa- no da cosa?" domandò. "Da Pana-ewa!" ansimò Hananui. "Da Ku e da Nanaue!" Il reverendo Haymark arretrò di un passo, con aria dispiaciuta, se non proprio disgustata. "Cosa sono?" disse il signor Clemens, traendo boccate dal sigaro appena acceso. Sul viso aveva un'espressione che si poteva attribuire a interesse professionale. L'ecclesiastico mosse la mano in un gesto sprezzante. "Sono dèi locali" spiegò, sdegnoso. "Semidei, in realtà. Mostri." Il signor Clemens si accostò alla guida, chiaramente spaventata. "Cosa sai su quei tipi?" Hananui scosse la testa. "Liberi. Tutti liberi. Uccidono molte persone sotto villaggio Kona. Uccidono molti missionari. Quelli a Casa Vulcano scappano. Corrono a città Hilo." Il sigaro del signor Clemens sobbalzò e negli occhi del corrispondente brillò quella luce maliziosa che gli avevo già visto in precedenza dentro il cratere. "Vuoi dire che sulla costa del Kona sono stati assassinati alcuni missio- nari?" Hananui annuì, ma era chiaro che la sua angoscia non era dovuta a que- sto. "La porta di Milu è aperta" mormorò. Il reverendo Haymark girò la schiena all'ometto. "Credo che Milu sia il loro dio degli Inferi" disse. "Una sorta di Plutone." Hananui annuiva e scuoteva la testa, a gesti alternati. "Il posto Milu. Il Mondo Sotterraneo di Milu. La terra di Milu dove vivono i fantasmi." Il reverendo Haymark sospirò e sollevò la lanterna. "Dovremmo tornare" disse. "Se ai missionari del Kona è accaduto qualcosa, ne sentiremo parla- re." Così percorremmo le ultime centinaia di iarde fino all'albergo, il reve- rendo Haymark e io davanti, troppo stanchi per parlare, e il signor Cle- mens dietro, con il balbettante Hananui. Il signor Clemens teneva il brac- cio intorno alle spalle del piccolo hawaiano, faceva altre domande alla no- stra guida e ascoltava le sue confuse risposte. Ero troppo sfinita per badare a loro. Byron Trumbo e i suoi erano a metà della lunga cena relativamente for- male (formale significava che Trumbo indossava un "abbigliamento Alo- ha": camicia hawaiana pulita, calzoni di cotone color cachi e scarpe di tela) con Hiroshe Sato e gli altri giapponesi, quando cominciarono ad arrivare il maltempo e le cattive notizie. Il maltempo giunse chiaramente da est, scivolando su venti vivaci sotto il pennacchio del vulcano che aveva coperto il cielo fin dall'inizio della se- rata. Al calare della notte, le fronde delle palme danzavano violentemente sotto il settimo piano della lanai di Sato e si sentiva odore di pioggia. La pioggia non era un guaio, la zona pranzo della lanai era protetta dal tetto e da robusti tendoni, ma il vento complicava la conversazione e il servizio. Poi gli aiutanti di Will Bryant cominciarono a presentarsi con altre catti- ve notizie, gran parte delle quali giungeva anch'essa da est. Bryant ascolta- va l'aiutante, aspettava il momento opportuno, si puliva le labbra nel tova- gliolo di lino e andava a mormorare qualcosa all'orecchio del suo principa- le. Durante la portata di gamberi, Will mormorò: — La signora Trumbo e il suo avvocato vogliono parlarle. Si trovano nella Suite Ali'i. La signora Trumbo insiste che lei vada a trovarla stasera. Trumbo si limitò a scuotere la testa e guardò Will che usciva per trattare di persona con la puttana. Dopo dieci minuti Will tornò e mormorò: — In- siste per stasera. Dice che è importante. Koestler sarà con lei. La signora dice che, se non va a parlarle, verrà qui e interromperà la cena. Sa della presenza di Sato. — Merda — mormorò Trumbo e sorrise al dottor Tatsuro dall'altra parte del tavolo, che alzò gli occhi, stupito. L'avvocato di Trumbo per la causa di divorzio, Benny "Carne cruda" Shapiro, era rimasto a New York. Caitlin giocava slealmente. Alle sette e tre quarti, mentre gustavano succo di frutta ghiacciato, tra la zuppa e la portata di pesce, Will mormorò: — La signorina Richardson è appena scesa in albergo. Le abbiamo dato la Premiere Tahiti Hale, sul Promontorio. Trumbo annuì. Fra il Promontorio della penisola e la Grande Hale c'era la massima distanza possibile da porre fra Caitlin e Maya. Per fortuna l'ex modella era abituata al lusso e alla servitù (la Premiere Tahiti Hale aveva piscina privata, cuoco e cameriere a tempo pieno) così non avrebbe avuto motivo per venire all'edificio principale. — Dice che le deve parlare — mormorò Will Bryant. — Stasera? — Immediatamente. — Dio porco — mormorò Trumbo e sorrise di nuovo al dottor Tatsuro, la cui testa ora ballonzolava come una di quelle bamboline da appendere nell'auto. Alle otto e mezza, durante il piatto principale, manzo di prima qualità al- levato al Parker Ranch sulla costa Kohala, Will Bryant mormorò: — Bicki è atterrata. Sta venendo qui. — In genere il direttore generale di Trumbo preferiva titoli e cognomi, ma Bicki (almeno da quando Trumbo la cono- sceva) era sempre solo "Bicki", una promettente modella che aveva rag- giunto il livello di Prince, di Madonna e di tutti gli altri noti con il solo nome. Trumbo aveva apprezzato la semplicità di questa scelta... bilanciava l'anello al naso e la lingua forata che la sua nuova fiamma aveva messo in mostra negli ultimi mesi. Trumbo odiava la sensazione di baciare Bicki e trovare le minuscole palline d'acciaio sulla superficie superiore e inferiore della lingua della ragazza. Lei insisteva che doveva considerarle pezzetti di caramella, ma a Trumbo non piaceva neppure l'idea di baciare una donna che tenesse in bocca una caramella. Per cui evitava di baciarla... non aveva mai dato troppa importanza ai preliminari, comunque. Ma le aveva ordina- to di non farsi forare i capezzoli né altre parti più in basso. Bicki aveva messo il broncio, ma l'aveva accontentato. — Dove la mettiamo? — mormorò a Will. — Abbiamo la vecchia baracca da muratori. Per un attimo Trumbo pensò che Will scherzasse, ma poi si ricordò della comoda casa che avevano fatto costruire all'estremo sud della baia durante i lavori per il Mauna Pele. La "baracca da muratori" era in realtà un edifi- cio con tre camere da letto situato proprio al di là della quattordicesima buca, un centinaio di metri dal margine dei vialetti con le hale. Nessuno l'aveva mai usata, a parte Trumbo durante le visite al complesso in costru- zione. La baracca non aveva spiaggia, ma si trovava su di una bassa altura con una bella vista della baia e della penisola meridionale. Adesso era usa- ta solo per le occasionali visite di Vip come il senatore dell'Illinois, Harlen, che volevano stare totalmente al riparo da occhi indiscreti con le loro ami- che minorenni. — Buona idea — disse Trumbo. — Bicki è troppo stupida per accorger- si di essere isolata. Fa' in modo che ci sia un cuoco e un cameriere. — Ho già provveduto — mormorò Will e si avviò a riprendere posto a tavola. — Ah — fece Trumbo, movendo il dito per richiamarlo. — Briggs chi ha messo a proteggere Bicki e Maya? — Se ne sbatteva, se il Killer del Mauna Pele avesse portato via Caitlin e magari anche quel suo merdoso avvocato. Will Bryant tornò accanto al suo capo, si accoccolò vicino alla sedia ed esitò un attimo, prima di mormorare: — Ho assegnato Myers alla Richar- dson e Courtney a Bicki. — Tu li hai assegnati? Dov'è Briggs? — Ecco, qui abbiamo un piccolo guaio. Sato, il dottor Tatsuro e Sunny Takahashi guardavano Trumbo, da sopra le bistecche di manzo. Trumbo era davvero convinto che, se avesse udito ancora una volta la parola "guaio", avrebbe vomitato tutto. Si sporse verso Bryant, cercando di sembrare calmo e indifferente. — Quale guaio? — Pare che il signor Briggs e il signor Dillon siano scomparsi — mor- morò il suo direttore generale. Trumbo si concentrò per non strappare ciocche di capelli... suoi o di Will Bryant. — Ho detto a Briggs e a Dillon di abbattere quella parete nel- l'ufficio dell'astronomo. Will annuì. Anche lui sorrideva, per i presenti era solo un altro lacché di Trumbo che bisbigliava qualche cosa di poco conto all'orecchio del gran capo. — Sì. La parete non c'è più. Neppure Briggs e Dillon. Là sotto c'è una sorta di grotta. Il signor Carter chiede se deve mandare qualcuno a cer- carli. Trumbo rifletté per due secondi. — 'Affanculo — disse. Si rivolse agli ospiti. — La carne è davvero buona, no? — Molto tenera — disse Hiroshe Sato. — Molto buona — disse Sunny Takahashi. — Morto sapolita — disse il vecchio Matsukawa. — Molto cattiva per le arterie — disse il dottor Tatsuro. Con l'arrivo della tempesta, Eleanor, Cordie e Paul si erano spostati dal Bar del Relitto alla sala da pranzo principale della Grande Hale, appena al- l'interno del Belvedere delle Balene. Paul aveva provato un certo imbarazzo nell'avvicinare le due donne, ma sentiva di doversi scusare per ciò che avevano visto e sopportato per tutto il pomeriggio. Prima che Eleanor aprisse bocca, Cordie l'aveva già invitato a unirsi a loro e poi la discussione era continuata nella sala da pranzo. Fuo- ri, un forte vento da levante frustava le palme e agitava le bougainvillee. Paul spiegò d'essersi fermato quella notte per assicurarsi che ci fosse un seguito al loro rapporto sull'incidente. — Potremmo chiamare noi stessi la polizia — suggerì Eleanor. — Già fatto — sorrise Paul. — Charlie Ventura, lo sceriffo di Kona, è mio amico. Ha detto che la faccenda dovrebbe ricadere sotto la giurisdi- zione della polizia di Stato... — Già — lo interruppe Cordie. — Hawaii Cinque-Zero. Sbattilo dentro, Danno. Paul sorrise di nuovo. — Quello è un dipartimento un po' diverso. Ma in ogni caso Charlie non crede che la polizia di Stato manderebbe qualcuno, oggi. Sono tutti impegnati con i guai che la chiusura della strada crea fra qui e Hilo; e gli agenti di Charlie devono vedersela con l'afflusso di turisti sulla costa del Nord Kona. — Però manderanno qualcuno? — domandò Eleanor. Paul annuì. — Charlie mi ha fatto notare che da un po' di tempo qui non sono state denunciate sparizioni. E ha accennato a quel ragazzo samoano morto in mare... — Tre settimane fa. — Sì. — Be', se non altro lei ha aggirato Byron Trumbo. Mi auguro che non perda il lavoro, per questo. Paul Kukali mostrò di nuovo i denti, bianchi e forti. — Non sarebbe una gran perdita. Ho sempre l'incarico all'università. Il denaro extra era utile, mi ha permesso di comprarmi una casetta vicino a Waimea, ma comunque non era la vera ragione che mi ha spinto ad accettare questo lavoro. Avevano chiacchierato un poco della proprietà di Paul vicino a Waimea, della necessità di preservare i siti archeologici, di questo e di quello; poi il rinforzarsi del vento li aveva spinti a entrare nella sala da pranzo. — Ci vuole più di una mano per farci passare l'appetito, immagino — disse Cordie mentre si avviavano al loro tavolo, accanto la finestra. — Forse se il cane fosse tornato con altri pezzi saremmo state tanto sconvolte da limitarci a uno spuntino, ma così com'è, ho una fame da far fuori un ca- vallo. — Non posso consigliarle il cavallo, qui — disse Paul — ma l'a'u è mol- to buono. — Non è quella roba di lava? — domandò Cordie. Inforcò un paio d'oc- chiali cerchiati di nero e cominciò a esaminare il menu. — No, quella è a'a. L'a'u è un trancio di aguglia imperiale o di pesce spada. Caro, ma squisito. Cordie posò il menu. — Bene. Tanto non pago io, come diceva il padro- ne del bordello. Paga il signor Trumbo. Vada per l'a'u. Anche Paul ordinò a'u e Eleanor scelse ulua, un grosso pesce dalla testa piatta che aveva già assaggiato sotto nomi diversi in Sudamerica e altrove. Il cameriere domandò se gradivano un aperitivo, e prima che qualcuno potesse declinare l'offerta Cordie ordinò per tutti un altro Fuoco di Pele. Dopo qualche minuto, la conversazione si spostò sul lavoro di Eleanor. — Visto che si occupa dei filosofi dell'Illuminismo — disse Paul — sarà di sicuro sconcertata dall'universo mitopoietico dei miei antenati. — Nient'affatto — disse Eleanor. — I filosofi si liberarono della scuola di pensiero mitopoietica che li aveva preceduti, cioè quella dei cristiani e degli ebrei, ma lavorarono con impegno per tornare a un essenziale punto di vista pagano. — Sorseggiò il cocktail e sorrise nel sentirsi pervadere da un piacevole calore. — Per quanto con una piega razionalista. — Sì, una svolta verso il razionale-scientifico. Eleanor annuì. — Per i filosofi, la scuola di pensiero mitopoietica era un velo da forare mediante una critica sistematica, come codificata dai greci e amministrata dai romani. Cordie li guardava movendo la testa come gli spettatori delle partite di tennis. — Ma quella mitopoietica era una fase da cui uscire con la maturazione — insistette Paul, giocherellando con l'insalata. — Un velo che annebbiava tanto quanto proteggeva. Eleanor annuì di nuovo. — Sì. Ma con la perdita di quel velo abbiamo anche perduto l'iridescente brillio dell'esperienza diretta, il carattere di rei- ficazione che impregnava ogni cosa... nella sua antica cultura e nella mia... con l'entusiasmo di conoscere le cose come poteri viventi. — La sua antica cultura? — si stupì Paul. — Europa precristiana. I mistici scozzesi. E poi una parte dei miei ante- nati è indigena americana... Sioux, credo. — Tuttavia per gli hawaiani ogni cosa era un potere vivente... una fonte di mana. Pare difficile immaginare che Diderot o Voltaire o Lessing o Rousseau o David Hume abbiano capito questa concezione epistemologica del mondo. Il cameriere portò via i piatti d'insalata. I tre sorseggiarono acqua da lun- ghi bicchieri a calice. Dalle finestre spalancate proveniva il rumore dei frangenti, reso percettibile dal vento, ma quel lontano brusio procurava un bizzarro senso di pace come il movimento delle fronde di palma. — La lotta fra il mitopoietico e il razionale certamente predata l'Illumi- nismo — disse Eleanor, sentendo che il calore di quei due frivoli cocktail Fuoco di Pele le riempiva ora tutto il corpo. Era bizzarro, pensò con una parte della mente, indossare una blusa di seta a maniche corte e cenare con le finestre aperte alla tiepida brezza in quella che era pur sempre una sera d'inverno. — Nel De rerum natura, Lucrezio ripete così il suo tema co- stante: «Questo terrore e questa tenebra della mente richiedono quindi non i raggi del sole, non i vividi dardi del giorno; infatti solo la conoscenza della forma della natura li disperde». Paul sorrise di nuovo. — Tuttavia gli antichi hawaiani, vissuti lungo questa stessa costa quindici secoli fa, avevano un'intima conoscenza della natura... piante, animali, creature marine, il vulcano. Cordie, china in avanti in attesa dell'opportunità di intervenire, ne appro- fittò: — Ci parli del vulcano. Paul Kukali batte le palpebre, sorpreso. — Del Kilauea o del Mauna Lo- a? — Di tutt'e due. — È insolito che siano così attivi nello stesso periodo. Gli abituali resi- denti dell'Isola Grande si abituano alle eruzioni, che sono più o meno co- stanti e di solito minacciano solo gli edifici situati in posti scelti stupida- mente. — Il Mauna Pele si trova in un posto scelto stupidamente? — domandò Cordie. Paul esitò solo un secondo. — No, secondo la maggior parte degli studi. Questa zona ha avuto attività vulcanica, perfino colate di lava, ma non in questo secolo. Come vede, anche durante una forte attività eruttiva, da qui si scorge solo la nube di ceneri e la luce riflessa. Cordie prosciugò le ultime gocce di Fuoco di Pele. — Una volta ho visto un film... se ricordo bene, c'erano Paul Newman, Ernest Borgnine, James Franciscus e un mucchio di quelle stelle che di solito comparivano nei vecchi film sui disastri, come L'inferno di cristallo e Airport... che parlava di un villaggio turistico di un paese tropicale sepolto dalla lava. Paul e Eleanor attesero la battuta. — Be' — disse Cordie, dopo un momento — pareva fatto apposta per quello di cui parlavamo. Paul scosse la testa. — Costruire il Mauna Pele è stato un errore, ma non penso che il villaggio sarà sepolto dalla lava, almeno nei prossimi giorni. — Parve quasi rimpiangerlo. — Mi piacerebbe vedere da vicino il vulcano — disse Eleanor. Ebbe l'impressione che a parlare fosse un'altra. Si rese conto che l'alcol le aveva fatto effetto e di non essersene accorta. — Difficile — disse Paul. — Al momento il Parco Nazionale dei Vulca- ni è chiuso a causa dell'intensità eruttiva... i curiosi vi sciamavano a mi- gliaia e molti dei gas vulcanici possono essere micidiali. — In un'occasione i nemici di re Kamehameha non furono distrutti da gas velenosi? — domandò Eleanor. Ora piovigginava e il tamburellio sul tetto della lanai era piacevole. Il profumo di vegetazione bagnata aveva un effetto quasi erotico. — Esatto — rispose Paul. — Nel 1790, mentre tornava da un attacco contro gli alleati di Kamehameha, il capo Keoua decise di suddividere l'e- sercito in tre gruppi che dovevano riunirsi nella caldera per fare offerte a Pele. Quando gli altri due gruppi raggiunsero il primo, trovarono solo ca- daveri: uomini, donne e bambini, tutti morti per una nube di gas velenoso rotolata lungo il pendio della montagna. — La cosa non avrà contribuito a sollevare il morale — commentò Ele- anor. Paul scosse la testa. — L'anno seguente Keoua si arrese. Fu ucciso e of- ferto in sacrificio. Kamehameha consolidò il proprio dominio su tutte le isole. — Era lontano da qui? — domandò Cordie. — Lontano cosa? — Il posto dove l'esercito fu gassato. — No. Si trova sul pendio di questa stessa zona della faglia tettonica di sudovest. Nel fango solidificato sono ancora visibili le impronte dell'eser- cito di Keoua in ritirata. Portarono le pietanze. Per un poco la conversazione riguardò solo lodi ai piatti di pesce. Poi Eleanor disse: — Non capisco perché sia difficile avvi- cinarsi ai vulcani. Paul restò con la forchetta a mezz'aria. — Il modo migliore per vedere l'eruzione è l'elicottero. Naturalmente tutti gli elicotteri dell'isola sono pre- notati da settimane. Partono dai megaimpianti più a nord e da Hilo. Voli che costavano cento dollari adesso arrivano a cinquecento o seicento. Eleanor scosse la testa. — Troppi, per le mie, tasche. E non starò qui per settimane. Paul abbassò la forchetta. — Potrei riuscire a combinare un volo. Eleanor lo guardò in viso: negli occhi e nell'atteggiamento del soprin- tendente non c'era traccia di calcolo. — In realtà non ne faccio una malat- tia — disse. — E poi... Paul alzò la mano. — A Maui ho un amico che pilota il suo elicottero. Domani sarà sull'Isola Grande e mi deve un favore. Forse sarà disponibile solo nel tardo pomeriggio, certo, ma è il momento migliore per ammirare un'eruzione... di notte. — Non vorrei crearle disturbo... — cominciò Eleanor. Paul scacciò con un gesto la protesta. — No, penso che sia una buona idea. Piacerebbe anche a me vedere l'eruzione e questa sarebbe un'occasio- ne perfetta. Se proprio non vuole andarci, va bene lo stesso... in caso con- trario, organizzerò un piccolo giro per domani sera. Eleanor esitò solo un secondo. — Sarebbe meraviglioso — disse. Si ri- volse a Cordie. — Anche a te piacerebbe vedere l'eruzione, vero? — Non molto. Il fuoco non mi piace, le esplosioni non mi piacciono e odio volare. Andate voi e raccontatemi com'era. Eleanor e Paul tentarono di farle cambiare idea, ma Cordie fu irremovi- bile. — Il mio concetto di vacanza non include la caduta da un elicottero in un lago di lava — dichiarò chiudendo la questione. Si soffermarono un momento per ascoltare il ruggito della tempesta. Le fronde di palma frustavano l'aria appena al di là della parete della terrazza. Balenò il fulmine e le luci si spensero. Sui tavolini c'erano già delle cande- le, così nessuno dei pochi clienti si agitò, ma i camerieri portarono subito lanterne controvento con candele più vivide. Ben presto la sala si riempì di un bagliore più soffuso, più intimo. I fulmini continuarono a balenare, ora da sud e da ovest. — Accade spesso? — domandò Eleanor al soprintendente. — Voglio di- re, che manchi la corrente elettrica. — A volte. Il complesso ha un generatore di riserva per i servizi vitali... frigoriferi, illuminazione delle catacombe, le suite del signor Trumbo. — Catacombe? — disse Cordie, alzando di scatto la testa come un cane da punta. Paul Kukali spiegò com'erano fatte le aree di servizio sotterranee. — Mi piacerebbe vederle — disse Cordie. Paul sorseggiò il vino. — Mi pare che il mercoledì ci sia un giro guidato. — Non mi piacciono i giri collettivi — disse Cordie — ma vorrei vedere le catacombe. Il soprintendente sorrise. — Il mio ufficio è là sotto. Potremmo andarci dopo cena, se ne avete voglia. Sono sicuro che portare là sotto gli ospiti sia contro i regolamenti, ma sono già nei guai con il gran capo per la storia di oggi, perciò... al diavolo. Brindarono col vino a quella decisione. Al termine Eleanor disse con calma: — Cosa può dirmi di Pana-ewa, di Nanaue e di Ku? Paul posò la forchetta. — Perché elenca quei nomi? — Ho letto qualcosa su di loro — rispose Eleanor. Il soprintendente annuì, serio. — Mostri — disse. — Dèi. Spiriti. — Guardò Cordie Stumpf. — Qui sotto non c'è un antico terreno sepolcrale hawaiano, ma si dice che quelle creature fossero sepolte da queste parti. Cordie s'illuminò in viso. — Ce ne parli! Con un sospiro, il viso arrossato dalla luce guizzante della candela, Paul parlò di Pana-ewa, di Nanaue e di Ku. 12 Le stelle, la luna, sono a fuoco; i mesi freddi bruciano; polvere volteggia sull'isola, la terra è riarsa. Il cielo pende basso, marosi nell'abisso... L'oceano si agita: lava si gonfia nel Kalauea, onde di fuoco coprono la piana; Pele erutta. Canto tradizionale in onore di Pele, come riportato da Marjorie Sinclair Briggs e Dillon erano penetrati per trenta metri nel condotto di lava e con la torcia illuminavano la scia di sangue sul nero basalto. Dillon disse: — È un gran casino. Tutt'e due avevano estratto la pistola... Dillon la Glock 9 mm. semiauto- matica, Briggs una .38 Police Special... e Dillon reggeva sempre la torcia. Alla fine la sezione di parete era crollata verso l'esterno, mettendo in mo- stra la cavità e le macchie di sangue che si allontanavano dalla luce. Briggs aveva posato la mazza e aveva scavalcato le macerie; Dillon l'aveva segui- to. Il condotto di lava era più liscio di molte grotte, alto circa tre metri, con striature dove la lava si era solidificata e si era ritirata su entrambi i lati. I regolari drappeggi di lava ricordarono a Dillon la parete muscolare dell'in- testino. Non era un pensiero rassicurante. Erano andati avanti come due professionisti, come due sbirri che entras- sero in una casa diroccata dove si sospettava fosse in attesa un assassino... pistola alta e gambe larghe, la torcia di Dillon mossa in lenti archi, schiena e spalle quasi a contatto per coprirsi a vicenda. Niente si muoveva. La cavità non presentava stalattiti e stalagmiti. Il fondo era di levigato basalto e pareva salire leggermente, curvando a de- stra, e spariva in direzione, pensò Dillon, dell'oceano. L'ampia scia di san- gue si allontanava verso il basso e sulla sinistra. — A questo punto chiamiamo rinforzi, giusto? — aveva detto Dillon. Si erano fermati, l'uno accanto all'altro, pistole puntate verso la curva della parete dove il sangue spariva alla vista. — Già — aveva risposto Briggs, cominciando a muoversi verso la curva del tunnel. — Diamo solo un'occhiata al di là della curva. Comesichiama... Wills... potrebbe essere lì. Dillon aveva avuto la scelta fra seguirlo o lasciarlo marciare nelle tene- bre. L'aveva seguito. Cinque minuti, due curve e trenta metri dopo, rim- pianse di non avere lasciato che Briggs andasse da solo nel buio. — È proprio un casino — suggerì di nuovo. Cominciava a stancarsi di tenere la Glock in posizione di sparo e puntare la torcia. Si muovevano nel massimo silenzio e con la massima prudenza... Dillon ricordava, dalle se- dute d'allenamento di qualche anno prima, che Briggs aveva passo leggero e movimenti rapidi, per uno della sua mole... e si soffermavano ogni pochi secondi per tendere l'orecchio e guardarsi alle spalle. Il raggio della torcia sferzava liscio basalto e scure striature laviche. — Chi ha preso Wills l'ha trascinato per un bel pezzo — mormorò Briggs. Tutt'e due tenevano le orecchie ben tese per cogliere qualsiasi ru- more. Dillon annuì. Il sangue luccicava ancora sotto il raggio della torcia. — Hai mai visto quel film... Alien? — bisbigliò in risposta. — Zitto! — disse Briggs. — Illumina qua. — Si accoccolò accanto alla macchia di sangue sul basalto, raccolse un brandello di stoffa. — Cos'è? — Un pezzo del vestito di quel disgraziato, immagino. Grigio. Lino. — Già. Wills era un elegantone. — Bagnato — disse Briggs. — Come... — Come cosa? — Dillon mosse la torcia in rapidi archi, senza mai la- sciare una zona al buio per troppo tempo. Aveva una visuale di nove metri da curva a curva nel tunnel. — Come se l'avessero masticato — disse Briggs. — Ah. Bene, io torno fuori. Se chiamo tutti i miei uomini possiamo met- tere in campo trenta persone. Con radio e automatiche. Chi ha preso Wills potrebbe averlo trascinato per chilometri. Questi tunnel continuano all'in- finito. — Sì? — disse Briggs. Rimise a posto, con cura, il brandello di stoffa masticata. — Ti sembro una fichetta? Dillon sospirò. Insegnare a quei tuttomuscoli era fiato sprecato: conti- nuavano sempre a confondere testosterone e cervello. — Pensala come ti pare — disse. — Torno a chiamare rinforzi e la torcia viene con me. Se vuoi, resta pure qui. — Iniziò a percorrere il tunnel, pronto a scattare, muo- vendo qua e là il raggio della torcia. Briggs attese solo un paio di secondi, prima di seguirlo, camminando a ritroso e tenendo sempre la pistola puntata contro le tenebre. Dillon a quel punto quasi si aspettava una scena drammatica... una decina di pazzi nazio- nalisti hawaiani che sbucassero dalla curva e venissero alla carica armati d'ascia... ma ci fu solo il rumore dei loro piedi e del loro respiro. Superata l'ultima curva, videro la luce che dall'ufficio dell'astronomo si riversava nella grotta. Dillon non smise di girarsi, di guardarsi alle spalle e poi spo- stare rapidamente nella direzione opposta il raggio luminoso. Arrivati alla breccia nella parete, si sporse perfino a controllare che non ci fosse qual- cuno nascosto nell'ufficio di Wills. Sarebbe stato il colmo, pensava, rovi- nare tutto e farsi ammazzare così vicino alla salvezza. L'ufficio era vuoto e le luci al neon, dopo il buio nel cunicolo, erano vividissime. Si fermarono un minuto accanto alla parete crollata, senza entrare nel- l'ufficio. — Al signor T gireranno i coglioni — disse Briggs. Dillon si strinse nelle spalle. Non erano affari loro. — Non possiamo mandare trenta uomini là dentro — proseguì Briggs. — E arrivata la ex del signor T e le sue altre due pollastre saranno qui pre- sto. Ci toccherà tenerle d'occhio. In più ha messo un po' dei nostri a fare il paio con quelli di Sato. Dillon annuì. — D'accordo, allora mandiamo nel tunnel dieci uomini con radio e Mac-10 e stabiliamo qui il centro di comando. Il punto è che tu e io, con una sola torcia, non possiamo andare in giro come un paio di quei cazzoni che si vedono nei film di mostri... «Dividiamoci, tu vai da quella parte, io da questa»... stronzate del genere. Briggs borbottò un assenso. — Chi pensi che sia stato? — domandò poi. — Com'è riuscito a far passare da quella fessura il corpo di Wills? — Che diavolo vuoi che ne... — cominciò Dillon. In quel momento mancò la luce. Reagirono in un attimo e si acquattarono, pistola protesa. Dillon non a- veva spento la torcia. Ora mosse il raggio luminoso su e giù per il tunnel. — Torna nella stanza — mormorò a Briggs. — Io ti seguo. Coprimi, quando entro. Briggs si era appena alzato per varcare la breccia, quando Dillon udì il rumore. — Zitto! — mormorò. Briggs s'immobilizzò, la pistola puntata verso il tunnel. Qualcosa raspava e ansimava nella direzione da cui portava la scia di sangue. Dillon posò a terra il ginocchio, puntò torcia e Glock. Il raggio luminoso rimase puntato sulla curva della parete. — Che cazzo sarà? — mormorò Briggs. Il rumore divenne più forte. Era uno sbuffo, un ansito, un soffio stizzo- so; e chi lo provocava era grosso. Dillon s'immaginò un lottatore di sumo afflitto dall'asma. — Due colpi d'avvertimento — bisbigliò. Pensava che il signor T l'a- vrebbe preferito vivo. — Certo — bisbigliò Briggs. — I miei primi due colpi d'avvertimento glieli caccio in testa. Tu mira al petto. Dillon non rispose. Sbuffi, ansiti e raspii si erano fatti più forti, di certo chi li emetteva non si trovava più in là della curva. A scanso di sorprese, Dillon usò due secondi per illuminare con la torcia la zona alla loro destra, poi riportò a sinistra il raggio luminoso. Qualcosa di duro raschiò la pietra. Piedi, forse. Zoccoli? Parevano più di due piedi. Ora Dillon udiva il respi- ro vero e proprio, un forte raspio sotto gli ansiti e gli sbuffi. Si era già ac- certato di avere un colpo in canna e aveva tolto la sicura. Tirò indietro il cane della semiautomatica. Con una parte della mente notò che il raggio della torcia era perfettamente immobile. L'ansimare si calmò per un momento, appena dietro la curva; il raspio esitò e Dillon si rese conto di trattenere il fiato. Briggs, acquattato accanto a lui, reggeva a due mani la .38 Special. All'improvviso l'ansito riprese, il raspio divenne più forte e dalla curva avanzò in piena luce qualcosa di molto grosso. — Che cazzo? — disse Briggs. Si alzò. Il maiale era gigantesco, come minimo un metro e trenta al garrese, lun- go forse uno e ottanta. Dillon poté solo immaginarne il peso... forse due- cento chili di carne su zoccoli fessi. Le zampe parevano troppo magre per sorreggere un simile peso. Il maiale si fermò a otto metri da loro, conti- nuando ad ansimare; aveva insoliti occhi che brillavano d'un rosso vivo nella luce della torcia. — Cos'è quella merda? — disse Briggs, togliendo una mano dalla .38. — Attento — disse Dillon, sempre acquattato, impugnando con mano ferma torcia e Glock. — Le montagne sono piene di maiali selvatici... cin- ghiali selvatici. Sono pericolosi, maledizione! Quel maiale, per quanto gigantesco, non sembrava particolarmente peri- coloso. Pareva ammiccare, confuso, per la vivida luce. Aveva negli occhi qualcosa di bizzarro. Avanzò di un metro. — Cazzo, aspetta un momento — disse Briggs, sempre reggendo la pi- stola con il cane armato, ma abbassandola. — Vuoi farmi credere che quel cazzo di maiale ha sfondato la parete, ha trascinato Wills attraverso una fenditura di venti centimetri e se l'è mangiato? — No, ma... merda! — esclamò Dillon. Aveva appena capito che cosa c'era di sbagliato negli occhi del maiale. Gli occhi erano troppi! Almeno quattro da ogni lato dell'enorme grugno... piccoli e ravvicinati, ma ben di- stinti l'uno dall'altro, chiaramente visibili ora che il maiale era a sei metri da loro. Dillon spostò per due secondi il raggio della torcia: gli occhi bril- lavano ancora, rossi, come alimentati da fiamme proprie. Dillon tornò a illuminarlo proprio mentre il maiale snudava i denti. Non erano denti di maiale, parevano zanne di giaguaro... lunghi canini e grossi incisivi. Anche i denti brillavano. — Cristo... — fece Briggs. Alzò di nuovo la .38. Il maiale si mosse con velocità incredibile, raspando con gli zoccoli le macchie di sangue e la nera lava; gli brillavano i denti, mentre si lanciava all'attacco. Nel tunnel echeggiarono esplosioni e balenarono lampi: Briggs e Dillon avevano aperto il fuoco. 15 giugno 1866, Casa Vulcano Un giorno davvero bizzarro. Sono così sfinita per l'escursione della notte scorsa e per le avventate decisioni di oggi da non trovare quasi la forza di portare la penna alla carta. Se la notte scorsa ho dormito, si è trattato di un sonno agitato e inquieto, pieno di visioni infernali e d'incubi demoniaci. Ci siamo svegliati presto tutti, anche noi tre pellegrini del cratere, solo per udire altre notizie sul ter- ribile cimento dei cinque missionari che hanno cercato rifugio qui, nella loro fuga da Hilo. Il signor Clemens, il reverendo Haymark, Hananui e io arrivammo al- l'albergo del vulcano poco prima dell'alba, noi tre troppo sfiniti per il no- stro cimento anche solo per scambiarci qualche parola, ma stupiti di trova- re la Casa Vulcano tutta illuminata e piena di gente che discuteva. Hananui non aveva esagerato la gravità della faccenda. Cinque membri della Missione Kona, tre donne, un ragazzo e un vecchio, erano giunti nel cuore della notte, insieme con due indigeni cristiani che avevano rischiato la vita per guidare gli haole (i bianchi) al sicuro sul vulcano. Ci sono stra- de più facili per Hilo, la più breve è un sentiero accidentato che corre lun- go la sella fra i grandi vulcani Mauna Kea e Mauna Loa, ma i missionari erano sicuri di cadere in un'imboscata se avessero seguito quella via, per- ciò avevano sopportato i disagi del percorso più lungo e più difficile. Mi pare opportuno riportare qui di seguito i nomi dei fuggiaschi: la si- gnorina Charity Whister (sorella del reverendo Whister di Kona); il signor Ezra Whister (l'anziano padre del reverendo Whister), la signora Constan- ce Stanton (figlia maritata della signora Whister); il figlio novenne della signora Stanton, Theodore; e la signora Taylor, sorella dell'aiutante pastore della missione. Tutti costoro sono in uno stato pietoso, ma la signora Stanton ha riassun- to nel migliore dei modi i terribili eventi di due notti prima, gli stessi che hanno spinto il gruppetto a fuggire attraverso le alture vulcaniche. A quanto pare, il reverendo Whister (che il reverendo Haymark aveva incontrato brevemente a Honolulu) e il suo gruppo di famiglie di missiona- ri sono sbarcati dieci mesi fa sulla costa Kona. Se da una parte i selvaggi di quella costa inesplorata avevano, a dire della signora Stanton, un estremo bisogno d'assistenza per la salvezza dell'anima, dall'altra pare che un pre- cedente ministro avesse già messo radici a Kona. In seguito il reverendo Haymark spiegò che si trattava della chiesa costruita a Kona dal famoso reverendo Titus Coan, amico e consigliere dell'ancora più famoso reveren- do "Padre" Lyman di Hilo. Perfino io avevo sentito parlare del signor Coan durante il soggiorno a Hilo: il sorprendente pastore aveva percorso, non una sola ma parecchie volte, le trecento miglia di circumnavigazione dell'i- sola, a piedi e in canoa, istituendo nel frattempo delle chiese pilota e bat- tezzando personalmente, in nome della Chiesa Universale, circa dodicimila adulti e quattromila infanti. Alla luce di questo, la fedeltà dei nativi si era rivolta tutta al reverendo Coan e ai suoi successori, preannunciando tempi duri per la semplice chiesa imbiancata dove il reverendo Whister teneva prediche più severe ("meno liberali", furono le parole della signora Stan- ton). Dopo dieci mesi di duro lavoro nelle vigne battesimali, il reverendo Whister e i suoi sostenitori erano riusciti a salvare una sola anima hawaia- na... e anche quella aveva finito per ricadere nella celebrazione di chissà quale festività pagana ed era stata scomunicata da un deluso reverendo Whister. Tutto sommato, il ministero pastorale di Whister a Kona era par- so un fallimento. Così solo un mese prima il reverendo Whister aveva pre- so sua moglie, sua sorella, sua figlia, suo cognato e due altre famiglie di cristiani bianchi e aveva abbandonato la sua prima chiesa per trasferirsi più in basso lungo la costa Kona, nelle regioni meno visitate a meridione della baia Kealakekua, quella dove il capitano Cook era stato trucidato nel 1779. La signora Stanton parve amareggiata nel riferirci questi fatti, come se il Destino avesse giocato uno scherzo particolarmente spiacevole a suo padre e alla sua famiglia. (Il signor Stanton, di lei marito, studiava per diventare anch'egli ministro e pare che il di lei padre, il reverendo Whister, avesse goduto di una certa notorietà a Amherst, nel Massachusetts, da dove pro- veniva lo sventurato gruppo di missionari.) Sulle prime il trasferimento era parso riuscito. Gli hawaiani che vi- vevano nei villaggi costieri fra i desolati campi di lava non avevano parti- colare simpatia per il reverendo Coan ed erano disponibili almeno a venire ogni domenica ad ascoltare i sermoni del reverendo Whister sulla immi- nente pioggia di fuoco e di solfo. Infatti la retorica particolare e infocata del ministro pareva andare a genio a quei pagani, vivendo quelli letteral- mente all'ombra dell'ira del vulcano. Azzarderei il sospetto che l'accresciu- ta attività vulcanica del Kilauea per tutto l'ultimo mese (la stessa che mi aveva portato sull'isola) abbia anche accresciuto nei confronti del reveren- do Whister l'interesse degli spaventati indigeni. Poi, due settimane fa, iniziarono le minacce. La signora Stanton raccontò le prepotenze e il terrore che i locali seguaci di Pele, la dea del fuoco da me menzionata in questi appunti, riversarono sulle famiglie cristiane che si erano da poco sistemate in quell'avamposto nel South Kona. La chiesa (a questo punto la signora Whister interruppe le lacrime per parlarcene) era proprio in fase di costruzione. Pare che i locali kahuna (sacerdoti) di Pele fossero due imponenti fratel- lo e sorella (dico "imponenti" perché la signora Stanton giurò che ciascuno pesava almeno quattrocento libbre) che avevano finalmente visto il mini- stro e la sua congregazione come seri rivali nell'affetto e nella lealtà dei lo- ro fedeli verso Pele. Secondo la signora Stanton, i primi accenni del terrore in arrivo furono trasmessi sotto forma di "avvertimenti" del sacerdote di Pele al reverendo Whister. Il sacerdote avvertì schiettamente il pastore che qualcosa di terribile sarebbe accaduto, che le porte stesse dell'inferno si e- rano aperte di recente in quella regione e che i cristiani (i "non credenti non protetti dalla benevolenza di Pele", erano state le parole del sacerdote pagano) avrebbero corso gravi pericoli. "Pericoli di quale sorta?" aveva domandato a questo punto il signor Clemens, accomodandosi a cavalcioni sulla sedia in maniera tutt'altro che degna d'un gentiluomo e sporgendosi verso di lei, con negli occhi quel ma- ligno luccichio che a quanto pare i corrispondenti acquisiscono a furia d'a- scoltare le disgrazie altrui. La signora Stanton aveva spiegato che il sacerdote aveva fatto un discor- so assurdo, sostenendo che lì c'era un ingresso dell'inferno hawaiano, un ingresso che Pele aveva chiuso al termine di una battaglia contro gli dèi del male e i malefìci demoni che un tempo vagavano per quella costa. Se- condo il sacerdote, i nativi avevano abbandonato da secoli quella parte del- la costa Kona a causa dell'intensa attività di quei demoni. Perché la gente di Kamehameha tornasse in quella zona era stato necessario il generoso at- to di Pele, la chiusura dell'inferno. "Tutte assurdità, naturalmente" aveva dichiarato la signora Stanton, in tono secco. "La più inconsistente delle fantasie, per nascondere le vere intenzioni di quel gaglioffo... seminare il terrore." A questo punto, con sorpresa di tutti, era stata interrotta: "No, no!" aveva gridato la nostra guida, dimenticandosi del suo posto fra i bianchi. "Il Mondo Sotterraneo di Milu esiste davvero! C'erano due ingressi... la grotta a Waipio, dove i morti entrano per diventare fantasmi, e l'apertura a Kona, da dove una volta fuggirono i demoni più malvagi! Madame Pele fece una cosa molto buona quando sigillò a Kona l'entrata al mondo degli spiriti!" "Silenzio!" aveva gridato il locandiere, visibilmente infuriato per la scor- tese intrusione del nativo. Ma il signor Clemens aveva zittito a sua volta il locandiere, alzando imperiosamente la mano per impedirgli di sgridare an- cora la nostra povera guida terrorizzata. "Hananui" gli aveva detto gentil- mente il signor Clemens "stai tranquillo. Raccontaci chi o che cosa vive in questo Mondo Sotterraneo." Hananui aveva lanciato un'occhiata all'incollerito locandiere e al fiero cipiglio dei missionari, ma aveva proseguito con coraggio: "È come ho detto l'altra notte... Milu, lui è il re del Mondo Sotterraneo. Pana-ewa, un demone molto cattivo, uomo-serpente. Ku... a volte ha la forma di un cane. Tutti demoni molto cattivi, là sotto". Il signor Clemens aveva annuito, ovviamente ansioso di saperne di più ma poco propenso ad aumentare l'irritazione della signora Stanton o del suo gregge. A questo punto è doveroso dire che la signorina Whister era presente ma si accontentava di piangere, che il bambino, Theodore, e il di lui nonno, Ezra, si erano addormentati e che la signora Taylor, la terza donna, era rimasta in silenzio per tutto il tempo, seduta, con lo sguardo fìs- so, tutta presa da chissà quale interiore visione. Con labbra strette e sbiancate per la scortese intrusione, la signora Stan- ton aveva proseguito: "Gli avvertimenti... le fantasie... furono trasmessi a mio padre, reverendo Whister, una quindicina di notti fa. Poi, quattro notti fa, iniziarono i terribili eventi...". A questo punto anche la coraggiosa signora Stanton mostrò segni di sconvolgimento, ma il locandiere le portò un bicchiere d'acqua e lei prose- guì, malgrado il torrente d'emozioni che traboccava in lei. "Sulle prime ci furono gli... avvistamenti. Bizzarre creature nelle vie del villaggio di not- te." "Quale sorta di bizzarre creature?" aveva domandato il signor Clemens, a cavalcioni sulla sedia come se ancora montasse un cavallo. "Stavo proprio per spiegarlo, signore" aveva detto a labbra strette la si- gnora Stanton. "I nativi raccontavano terribili storie su bizzarri animali. Una grossa..." Aveva scoccato un'occhiata di rimprovero a Hananui. "Una grossa lucertola. Un verro selvatico. Una sorta di spaventoso rapace." Di nuovo aveva lanciato alla nostra guida un'occhiata di fuoco. "Un cane ne- ro. Tutte assurdità, naturalmente." Scoprii che il cuore mi batteva all'impazzata, mentre la signora Stanton raccontava quei fatti. Qualcosa, nel fatto di trovarci sul bordo di quel ribol- lente vulcano, rendeva il suo racconto, anche nella torbida luce del giorno, ancora più sconvolgente. "Erano assurdità, finché non iniziò l'incubo" aveva proseguito la signora Stanton. "Mio marito fu il primo a morire." Eravamo almeno dodici nella stanza, ma a quel punto il silenzio fu asso- luto, come se nessuno, a parte la signora Stanton, respirasse. E a dire il ve- ro la signora Stanton trasse un profondo respiro, prima di continuare: "Quattro notti fa, dal villaggio provennero urla terrificanti. La nostra ca- panna era la più vicina... mio padre e mia madre vivono in una casa più so- lida, sulla montagna, accanto alla chiesa temporanea. August.. mio marito, il signor Stanton... prese il moschetto e decise d'andare a scoprire il motivo di quel trambusto. Lo supplicai di non andare. Gli dissi che nessuna vita pagana che andasse perduta in quale che fosse l'alterco in corso giustifica- va il fatto di mettere a repentaglio una vita cristiana. Lui allora mi diede un colpetto affettuoso sul nastro nei capelli, mi disse che eravamo venuti in un luogo così remoto per dimostrare esattamente l'opposto, diede al picco- lo Theodore l'incarico di badare alla casa fino al suo ritorno e uscì con Ka- luna, uno degli hawaiani da noi convertiti. "Quella notte August non tornò. Dal villaggio provenivano grida e rug- giti. Ero sicura che saremmo stati uccisi tutti... Theodore, la signora Taylor e suo marito sulla montagna, mio padre, mia madre, tutti noi... ma gli altri non reagirono al clamore e io ero troppo atterrita per andare a cercare aiuto nel buio. "Giunto il mattino, io e Theodore corremmo alla casa di mio padre. Mio padre radunò gli uomini... il nonno, il signor Taylor, due hawaiani conver- titi di cui ci si poteva fidare... e scese al villaggio. Trovarono Kaluna al li- mitare del villaggio: aveva la testa incrostata di sangue, era vivo, ma non ricordava che cos'era accaduto nella notte. Trovarono August nei campi di lava..." A questo punto la signora Stanton era crollata. Il reverendo Haymark si era prodigato per confortarla. Per qualche tempo non ci sarebbero stati altri particolari su quel terribile evento. I due hawaiani che avevano guidato i cristiani fuggiaschi riferirono al locandiere le parti mancanti e quest'ultimo, più tardi, informò il signor Clemens che in seguito ne parlò al reverendo Haymark. Tutti gli uomini cercarono di risparmiarmi i particolari di quell'orrore, ma io, fermandomi in posti opportuni nel piccolo atrio dell'albergo, riuscii a udire le notizie solo bisbigliate. Il signor Stanton era stato trovato nei campi di lava, privo di vita, con la gola tagliata come un animale che avessero dissanguato. Quella notte i bianchi si erano radunati nella casa, più grande, del reverendo Whister, ac- canto alla chiesa temporanea. Secondo le descrizioni fatte a bassa voce da- gli hawaiani, era stata una notte di puro terrore... rumori bizzarri, mostri che strisciavano fra i massi di lava, urla inumane... il tutto illuminato dal riflesso delle stesse eruzioni dello Hale-mau-mau alle quali avevo assistito non più tardi della notte precedente. Creature avevano graffiato e artigliato la capanna di paglia degli atterriti bianchi... il signor Taylor e il reverendo Whister avevano impugnato due vecchi moschetti, pronti a fare fuoco, mentre le donne si prendevano cura delle tremolanti lanterne... ma, anche se le pareti della capanna non avrebbero resistito neppure a un topo intra- prendente, nessuna creatura era entrata. Il reverendo Whister aveva detto a tutti che quello era un segno del potere di Cristo contro le forze delle tene- bre... ma nessuno sapeva se si fosse riferito a vendicativi indigeni o a veri demoni. Al mattino, solo quattro giorni fa! proprio quando io andavo ai ri- cevimenti e chiacchieravo con le famiglie dei missionari a Hilo!, i cristiani erano timorosamente usciti di casa e avevano scoperto che nella notte tutti i loro cavalli erano stati massacrati, gola tagliata, zampe mozzate. (Questa parte fu bisbigliata a voce ancora più bassa dal locandiere che ne parlava al signor Clemens e al reverendo Haymark, come se sfigurare cavalli fosse molto peggio che non trucidare il povero signor Stanton.) Malgrado l'orrenda scoperta, il signor Taylor aveva insistito per prendere con sé un indigeno affidabile e andare a Kona, con la promessa di portare aiuti il giorno seguente. La signora Taylor aveva discusso contro quel pia- no, ma era stata baciata sul nastro per capelli e messa in minoranza. Evi- dentemente il reverendo Whister era d'accordo con quella linea d'azione, rendendosi conto che con l'anziano genitore e con il bambino il gruppo non sarebbe giunto a Kona in due giorni, mentre un uomo, da solo, anche a piedi, avrebbe potuto raggiungere il villaggio in ventiquattro ore di marcia a tappe forzate. Il signor Taylor e l'indigeno, lo stesso Kaluna già menzionato, partirono verso le dieci di mattina. Verso le cinque del pomeriggio, Kaluna tornò... di nuovo da solo. L'indigeno, con voce scossa e mani tremanti per la terri- bile emozione, riferì che un gigantesco rettile con occhi umani era balzato su di loro da una roccia, a meno di quattro miglia da dove si trovavano ora. Kaluna disse che il signor Taylor aveva sparato col moschetto a quella cre- atura, da meno di sei piedi di distanza, ma che il rettile non aveva esitato. Kaluna disse che la testa del signor Taylor si era rotta con il rumore di una noce di cocco spaccata in due (sono le sue esatte parole) e che la creatura era stata così impegnata a divorare il cristiano che lui, Kaluna, era riuscito a fuggire, ferendosi per le cadute fra le taglienti rocce dei campi di lava. Kaluna disse che creature simili a gnomi l'avevano inseguito per due mi- glia, ma lui era riuscito a non farsi raggiungere. A questo punto parve che fosse colma la misura della credulità del reve- rendo Whister, perché questi accusò Kaluna di mentire e di essere un e- missario dei sacerdoti di Pele. Kaluna lo negò. Seguì una discussione fra l'hawaiano ferito e l'offeso missionario. Kaluna aveva alzato il coltello (per giurare su di esso, spiegarono poi i due indigeni convertiti che avevano aiutato gli altri a fuggire) ma il reverendo Whister fraintese il gesto e con un colpo di moschetto centrò in pieno lo sventurato indigeno. Kaluna ave- va impiegato varie ore a morire. Intanto era scesa la notte. Ancora una volta il reverendo Whister, con sua moglie terrorizzata, l'anziano e mentalmente debole genitore, sua fi- glia, suo nipote, sua sorella e la signora Taylor, silenziosa come una tom- ba, avevano sopportato ansiti, sibili, brontolii e raspii. Alla fine, come spiegarono al locandiere gli indigeni, mentre le donne, il bambino e il non- no dormivano nella seconda stanza della casa, un terribile frastuono pro- venne dalla stanza dove il reverendo e sua moglie montavano la guardia. Urla. Versi inumani. Un colpo di moschetto. Altre urla. La signora Stanton aveva cercato di aprire la porta, ma in quel momento alcuni indigeni ami- chevoli erano entrati dalla parete posteriore e avevano incoraggiato gli sconvolti superstiti a fuggire verso la salvezza, spingendoli nella notte sul sentiero tra i campi di lava. Alle loro spalle, la chiesa e la casa appena ab- bandonata erano in fiamme. Dopo quaranta ore di cammino su uno dei peggiori terreni del mondo, erano giunti a Casa Vulcano. Non avevano vi- sto segni d'inseguitori, ma le guide riferirono di bizzarri rumori nei campi di lava e di spettrali bagliori fra le rocce alle loro spalle. Così terminò il racconto. Era abbastanza terribile da spingere il si- gnorino McGuire e il gemello Smith a parlare con Hananui di un im- mediato ritorno a Hilo. Anche il locandiere decise di andarsene al mattino, chiudendo Casa Vulcano e lasciandola alla misericordia dei venti e delle esalazioni vulcaniche. Gli indigeni (sia la servitù del locandiere, sia le due fedeli guide dei cristiani) erano atterriti alla prospettiva di viaggiare di nuovo di notte, ma erano disposti a farlo, pur di mettere maggiore distanza fra loro e l'Orrore lungo la costa Kona. Proprio qualche minuto fa, mentre tutti terminavano i preparativi per la partenza, udii un discorso incredibile fra il signor Clemens e il reverendo Haymark, fermi sulla veranda. "Non torno a Hilo con voi" diceva il corrispondente. "Devo vedere cos'è accaduto. Quale che sia la verità su questo terribile evento... e sospetto che non ci sia niente di più soprannaturale della vendetta di un invidioso scia- mano di villaggio... promette di rivelarsi una storia molto più interessante del naufragio della Hornet!" Il reverendo Haymark si era accigliato a questo egoistico punto di vista di una ovvia tragedia, ma mi sorprese dicendo: "Vengo con lei. Hananui, McGuire, l'albergatore, Smith e gli altri baderanno che le donne scendano la montagna e giungano al sicuro a Hilo". Anche il corrispondente fu chiaramente sorpreso da quell'annuncio e di- chiarò di voler correre da solo il rischio. Il reverendo Haymark spazzò l'o- biezione: "Non vengo per badare a lei, signore. Ho conosciuto a Honolulu il reverendo Whister e suo cognato. Ancora non sappiamo con certezza quale sia stata la loro sorte. Gran parte di ciò che ho udito è solo panico femminile e superstizione indigena. Ho il dovere, nei confronti del reve- rendo Whister e degli altri, di accertare se si può fare qualcosa per loro. Nel caso peggiore, meritano almeno una sepoltura cristiana. Sono sicuro che da Hilo manderanno un veloce schooner che giungerà poco dopo il no- stro arrivo. Non dovrebbero esserci grandi pericoli". I due si strinsero la mano. lo andai nella mia stanza, preparai i bagagli e indossai gli stivali più robusti e il più resistente abito per andare a cavallo. Il signor Clemens e il reverendo Haymark ancora non lo sapevano, ma sa- rei andata con loro alla costa Kona. Dopo l'interminabile cena, Sato e i suoi collaboratori si ritirarono nelle rispettive suite, così alle 10.30 di sera Byron Trumbo fu libero di occuparsi dei suoi disastri. Accompagnato da Will Bryant prese l'ascensore e andò nella suite di sua moglie e dell'avvocato di lei, sul lato nord della Grande Hale. Fuori della suite, Trumbo toccò il braccio di Will. — Cinque minuti — gli disse. — Nemmeno uno di più. Inventa una faccenda urgente, non m'importa quale. Cinque minuti. — Will Bryant annuì e scomparve dietro le palme in vaso. Trumbo inalberò l'espressione più affabile di cui era capace quella sera e suonò il campanello della suite. Myron Koestler aprì la porta. Aveva i ca- pelli, ricci e brizzolati, raccolti nella solita coda di cavallo e indossava un pesante accappatoio di spugna con l'emblema a forma di vulcano del Mau- na Pele. Teneva in mano un bicchiere con quelle che parevano più di quat- tro dita di scotch. Trumbo perdette l'aria affabile. — Sta abbastanza comodo, Myron? Ha già provato con Caitlin la Jacuzzi? L'avvocato gli rivolse un pallido sorriso. — Caitlin l'aspetta. — Già — disse Trumbo, ed entrò nella suite. Tutto era lucido cuoio e cotone pettinato nei punti non in vista. Le piastrelle di marmo e i folti tap- peti persiani parevano emettere luce propria. Raffiche di vento agitavano le lunghe tende delle finestre della parete ovest, alte dal pavimento al soffitto. Trumbo udiva la pioggia e ne sentiva l'odore che superava il profumo di legno di sandalo e di cera per mobili. — Dov'è? — domandò. — Sulla terrazza. Trumbo uscì nella lanai coperta e vide con irritazione che il legale lo se- guiva. Dalla terrazza di giorno si vedevano il cono del Mauna Loa e più ol- tre la vetta ammantata di neve del Mauna Kea. Quella sera la vista si limi- tava alla cima delle palme frustate dal vento e illuminate di tanto in tanto da un lampo. Anche Caitlin Sommersby Trumbo indossava un accappatoio del Mauna Pele e teneva in mano un bicchiere. Vodka liscia con ghiaccio, come Trumbo ben sapeva. Se ne stava su di una sdraio, piedi tirati su, una gamba sollevata che metteva in mostra la coscia incredibilmente liscia. La lampa- da da lettura mutava in una luminosa cascata i suoi lunghi capelli biondo miele. Trumbo provò l'antico rimescolamento che l'aveva spinto in primo luogo a sposarla... quello, e il fatto che da parte sua Caitlin aveva un pa- trimonio di alcune centinaia di milioni di dollari. Davvero un peccato, pen- sò, che fosse una puttana. — Cait, è un piacere vederti. Per un momento lei si limitò a fissarlo. Trumbo soleva pensare che i suoi occhi fossero blu fiordaliso; ora sapeva che erano blu ghiaccio. — Mi hai fatto aspettare — disse infine Caitlin. Trumbo non era stato mai capace di stabilire quale personalità rivelasse quel tono: in parte un'imbronciata ragazzina alla prima comparsa in socie- tà, in parte una bambina viziata, in parte una gelida regina, in parte un'au- toritaria donna d'affari. Ma, in tutto, una puttana. — Ero impegnato — rispose, notando di essere ricaduto nel vecchio to- no aggressivo. Caitlin Sommersby Trumbo sbuffò dalle aggraziate narici. Prima che lei potesse parlare, Trumbo tentò di prendere l'iniziativa. — Venendo qui — disse — hai violato i termini della separazione. Lo sai be- nissimo. Caitlin mandò lampi dagli occhi. — Non è vero e lo sai anche tu. Questa non è una tua residenza. È una proprietà. E un albergo. Trumbo sorrise. — E con Myron... — Mosse la testa in direzione dello sfaccendato legale. — Ti conviene stare attenta, Cait. Forse ho fatto instal- lare videocamere nelle stanze da letto. Caitlin sporse il mento. — Te ne ritengo capacissimo. — Guardò il lega- le. — A Big T è sempre piaciuto guardare, più che fare! Trumbo si accorse di digrignare i molari. — Cosa vuoi? — Lo sai. — Non puoi averli. Sono sequestrati. — Voglio il Mauna Pele. — Non puoi avere nemmeno quello. Caitlin alzò ancora il mento. — Ti abbiamo fatto una buona offerta. Trumbo rise. — Cait, Cait, Cait... ho speso più di ottanta milioni di dol- lari solo per quei merdosi giardini! — Non dire oscenità in mia presenza. — Oh cazzo, non me lo sogno nemmeno. Koestler si schiarì la voce. — Se posso suggerire una cosa... — Chiuda il becco, Koestler — disse Trumbo. — Chiudi il becco, Myron — disse Caitlin. Il legale tornò ad accomodarsi nella poltrona e sorseggiò lo scotch. — Senti, Cait — disse Trumbo, cercando di apparire ragionevole — so perché sei qui, ma è controproducente. Ti conviene aspettare che io abbia scaricato ai giap questo posto e prenderti la tua maledetta parte di soldi, anziché cercare di avere il Mauna Pele a prezzo di saldo. La sua ex moglie sorseggiò la vodka e lo fissò da sopra il bordo del bic- chiere. — Voglio il Mauna Pele. — Perché? Non ci eri mai venuta. Non è da te provare per il Mauna Pele un valore sentimentale. E sai bene quanto me che ci si perde solo denaro, cazzo. — Lo voglio — disse Caitlin Sommersby Trumbo, in un tono che non lasciava spazio a discussioni. — Se me lo vendi, ricavi qualcosa. Se non riesci a venderlo, potrei finire comunque per farlo rientrare nei termini del- l'accordo di divorzio. Trumbo rise di nuovo, ma stavolta a denti stretti. — Non l'avrai mai. Piuttosto, gli do fuoco. E sta' tranquilla che lo venderò! Caitlin sorrise dolcemente. — Il tuo signor Sato sa di tutti gli omicidi avvenuti qui nell'ultimo anno? — Sparizioni — rettificò Trumbo. — Sei omicidi — ronfò lei. — Questo posto è più pericoloso del Central Park di notte. E non credo che al signor Sato o ai suoi investitori piacereb- be acquistare il Central Park. — Stai lontana da Sato... — cominciò Trumbo, sorpreso di riuscire a parlare anche digrignando i denti. — Altrimenti, T? — Altrimenti scoprirai quanto può essere pericoloso il Mauna Pele... — Ho sentito! — esclamò Koestler, scattando in piedi. Dal lembo del- l'accappatoio mostrava le gambe irsute. — Era una minaccia. Posso testi- moniare. — Era un avvertimento — replicò Trumbo, girandosi verso il legale e puntando contro di lui il dito come un revolver. — E avverto anche lei... questo posto potrebbe non essere sicuro. Accadono merdate misteriose. Ho messo uomini della sicurezza intorno a Sato e ai suoi, ma non ne ho altri da dedicare a visitatori inattesi. — Un'altra minaccia — disse Koestler. — Possiamo portarla in tribunale e... — Chiudi il becco, Myron — lo interruppe Caitlin. Puntò su Trumbo il suo pallido sguardo. — Allora non vuoi vendere? Trumbo la ricambiò con uguale intensità. — Cait, c'è stato un tempo in cui te l'avrei regalato, il Pele. Diavolo, a momenti te lo regalavo, tre anni fa, a Natale. Ora non te lo lascerei nemmeno se io avessi i capelli in fiam- me e fosse quello l'unico modo per spegnerli. Suonarono alla porta. Koestler andò ad aprire. — Capo — disse Will Bryant, porgendo a Trumbo un telefono — sono spiacente di disturbarla, ma c'è in linea il dottor Hastings, dall'Osservatorio Vulcano. Dice che la colata di lava del Mauna Loa non si sposta a sud come previsto. Dice che segue le vecchie zone di faglia tettonica verso il Mauna Pele. Trumbo sospirò. — Rispondo fuori. — Puntò il dito verso Cait. — Parlo sul serio, quando ti dico di non incasinare la vendita. Caitlin posò il bicchiere ormai vuoto e rivolse a Trumbo un'occhiata che avrebbe congelato l'idrogeno. — E io sono sincera, quando dico che avrò il Mauna Pele. Trumbo girò sui tacchi e uscì, seguito da Will Bryant. Mentre scendeva- no in ascensore, guardò l'orologio. — Bicki se ne starà nella baracca a guardare la TV fino all'alba, ma devo liberarmi di Maya prima che venga a darmi la caccia. — Fissò il segretario. — Colata di lava verso il Mauna Pe- le? Ti avevo detto di inventare una faccenda urgente, ma... Cristo, Will. Will Bryant gli porse il telefono. — Non ho dovuto inventare niente. Ri- chiami Hastings. Quello dice che bisognerebbe andarsene da qui stasera. 13 Nel tempo in cui la terra divenne ardente nel tempo in cui i cieli si rivoltarono nel tempo in cui il sole fu oscurato per far risplendere la luna il tempo dell'ascesa delle Pleiadi il fango, questa fu la fonte della terra... Dal Kumulipo, canto di creazione Poco mancò che Eleanor non accompagnasse Cordie Stumpf e Paul Ku- kali nelle catacombe. La cena era stata piacevole, malgrado, o forse proprio per questo, la tem- pesta che infuriava fuori della lanai e le lanterne controvento con i loro caldi cerchi di luce soffusa. Quando tornò la corrente, quasi un'ora più tar- di, i pochi che cenavano sulla terrazza batterono le palpebre alla relativa vividezza delle poche deboli luci. Sulle prime Paul era parso reticente a di- scutere i vari miti su cui Eleanor aveva fatto domande; poi, quando capì che nella professoressa di storia a Oberlin non c'era traccia di condiscen- denza, si infervorò visibilmente. Spiegò la differenza fra moolelo, la tradi- zione orale delle imprese degli dèi, così potente da essere recitata solo du- rante il giorno, e kaao, semplici storie di eroi umani, da raccontare di notte intorno al fuoco. Discusse la gerarchia dell'animismo hawaiano: gli auma- kua, importanti dèi della famiglia; i kapua, figli degli dèi, che vivevano fra i mortali proprio come Ercole e altri semidei greci; gli akua kapu, che, come i fantasmi degli indigeni indiani della terraferma, si limitavano a spaventare le persone e presagivano sfortuna; e gli akua li' l, i "piccoli spi- riti", che completavano il quasi infinito pantheon hawaiano sotto forma di personificazioni animistiche di alberi, cascate, eventi atmosferici e altri a- spetti della natura. — Tutto è legato al mana — disse Paul, sorseggiando il caffè mentre portavano via gli ultimi piatti. — Rubare mana, conservare mana, scoprire nuove fonti di mana. — Potere — disse Cordie, che aveva ascoltato attentamente. — Sì. Potere dell'individuo. Potere su altri. Potere sull'ambiente. Cordie sbuffò. — Non è cambiato molto, col passare degli anni. La cameriera, una pesante e seria hawaiana con la targhetta del nome LOVEY spillata alla muumuu, domandò se volevano il dessert. Eleanor e Paul rifiutarono. — Diamine, sì — disse Cordie e tutt'e tre ascoltarono l'e- lenco. C'era un'ampia varietà di dessert preparati con complicate ricette che per la maggior parte includevano il cocco, ma Cordie scelse un norma- le gelato con panna montata e pezzetti di frutta... e appunto sottilissimi ric- ci di noce di cocco. Vedendolo, Eleanor rimpianse di non averlo ordinato anche lei. Si rivolse a Paul. — Dove si inserisce una divinità come Ku? — domandò. Paul posò la tazza di caffè. — Ku è uno dei più antichi dèi polinesiani che emigrarono qui in canoa con i primi hawaiani... il dio della guerra. Molto feroce. A lui si facevano sacrifici umani. Quando si aggirava fra i mortali, Ku poteva assumere una varietà di forme. — Cane compreso? — domandò Cordie, leccando il cucchiaino. Paul esitò visibilmente. — A volte — rispose poi. — In realtà, quella di cane era la sua forma caratteristica. Pensava al cane che abbiamo visto og- gi? — Sorrise, per far capire che si trattava di una domanda ironica. — Proprio a quello — rispose Cordie. Non ricambiò il sorriso. — Allora purtroppo devo deluderla — disse Paul. — Ku, perlomeno nella sua incarnazione canina; fu ucciso secoli fa dal grande capo Polihale. Il corpo di Ku fu tagliato in due parti poi tramutate in pietre... oggi sono visibili a Oahu. — Si può uccidere un cane, ma non si può uccidere un dio, giusto? — replicò Cordie. Aveva terminato il dessert. Sul labbro superiore aveva una traccia di gelato. Paul guardò Eleanor. — Voltaire e Rousseau non sarebbero d'accordo, penso. Eleanor non rispose alla battuta. Disse invece: — Il cane Ku sarebbe an- dato nel Mondo Sotterraneo di Milu, dopo la morte? Stavolta il soprintendente esitò più a lungo. — Alcuni kahuna, cioè sa- cerdoti, risponderebbero sì. Altri direbbero no. — Ma Milu è il luogo dove vanno gli spiriti umani? — Sì. — E dove furono racchiusi alcuni kapua e mo-o? Paul si strusciò il naso. — Poco fa ho citato i kapua, ma non ricordo di aver accennato ai mo-o. — Cosa sarebbero? — domandò Cordie. — I mo-o, o moko, sono importanti demoni. Possono controllare la natu- ra, oltre ad assumere varie forme. E, sì, kapua e moko furono banditi nel Mondo Sotterraneo, dopo un'infocata battaglia con Pele. — Quasi a sotto- lineare le sue parole, un lampo balenò nelle vicinanze e il rombo del tuono entrò dalle finestre spalancate. I tre si sorrisero. — A quanto pare siamo arrivati all'ora di chiusura — disse Paul, guar- dando la lanai ormai vuota. — Ma almeno la corrente elettrica è tornata. — Si rivolse a Cordie. — Desidera sempre vedere le catacombe stasera? — Il tono suggeriva che era tardi. — Certo — rispose subito Cordie. Paul annuì. — Eleanor, le piacerebbe vederle? — Non credo. Sono un po' assonnata. Tornerò nella mia hale. Paul accennò alla pioggia, che ora cadeva con forza. — Se ricordo bene, alloggia in una delle hale nella parte sud del complesso, vero? — Sì, dopo il Bar del Relitto e il laghetto — rispose Eleanor. Guardò il soprintendente, curiosa di ascoltare che cosa stava per proporre. — Una lunga camminata sotto la pioggia — disse Paul. — Qui danno ombrelli omaggio, ma i tunnel di servizio, cioè le catacombe, hanno un'u- scita a pochi metri dalla sua hale. — Non m'importa di bagnarmi... — cominciò Eleanor. — Oh, vieni anche tu, Nell — disse Cordie. Eleanor esitò solo un secondo. — E va bene, se è una scorciatoia. Si alzarono. — Certo — disse Paul. — L'accompagneremo alla porta della sua hale e poi tornerò con la signora Stumpf alla Grande Hale. Strada facendo, daremo un'occhiata al complesso sotterraneo. Lasciarono il ristorante, salutando con un cenno, mentre uscivano, Lo- vey e il maître. La pioggia batteva sulla vegetazione tropicale, al di là delle pareti aperte dell'atrio deserto. Paul accompagnò all'ascensore le due ospiti e scese nel piano interrato. Poi le guidò lungo una rampa fino a una porta con la scritta SOLO PERSONALE AUTORIZZATO, inserì nell'apposito lettore la propria scheda magnetica e aspettò che la spia luminosa diventas- se verde; poi continuarono a percorrere la rampa ed entrarono nelle cata- combe. — Cos'è questa stronzata? — ruggì Trumbo al telefono, rivolto allo sti- mabile dottor Hastings. — Evacuare il Pele? Lo scienziato pareva stanco. — Ho semplicemente suggerito al signor Carter e al signor Bryant d'informarla della situazione e di prendere in con- siderazione la possibilità — rispose. — Le autorità civili hanno già avver- tito i residenti degli Ocean View Estates e del Kahuku Ranch... — Sono più a sud — disse Trumbo. — Sì, ma si sono aperte parecchie fenditure laterali, alcune delle quali potrebbero deviare a nord il flusso secondario di lava, anche fino a Capo Keananuionana. — Anche quello è più a sud. — Sì, ma ogni flusso secondario comporta la possibilità di ulteriori atti- vità laterali. Vorrei ricordarle che nell'aprile del 1868 l'intera area su cui ha costruito il complesso turistico fu il punto focale di tsunami, di colate di lava e di una catastrofica frana sottomarina lungo la faglia di Hilina Pali... — Io invece voglio ricordarle che non me ne frega un cazzo di cos'è ac- caduto nel merdoso 1868! — disse Byron Trumbo. — Voglio sapere che cosa accade adesso! Seguì un silenzio tanto lungo che Trumbo e Will Bryant, anche lui in a- scolto, credettero che l'anziano vulcanologo avesse riagganciato. Poi Ha- stings riprese a parlare, come se non fosse stato interrotto. — L'evento del 1868, consistendo in realtà dell'eruzione simultanea del Mauna Loa e del Kilauea, è forse il più simile all'attuale situazione lungo la faglia tettonica di sudovest. Famiglie di missionari che vivevano esatta- mente dove si trova adesso il suo impianto, signor Trumbo, riportarono che la terra rullò sotto i loro piedi come onda oceanica per lunghi minuti e che ogni edificio di costruzione umana lungo la costa del South Kona crol- lò. Dopo le scosse telluriche, una slavina di fango percorse cinque chilo- metri in meno di tre minuti e spazzò via ogni villaggio. Alcuni minuti do- po, il conseguente tsunami colpì la costa, con onde alte venti metri, e tra- scinò in mare le macerie coperte di fango. Cinque giorni dopo, l'epicentro si diffuse dal Kilauea al Mauna Loa; il vulcano più grosso eruttò a piena forza e all'improvviso la lava scaturì da una nuova fenditura proprio sopra il punto dove si trova adesso il Kahuku Ranch. — E allora? — replicò Byron Trumbo. — Dove vuole arrivare? Il vulcanologo sospirò. — Farebbe meglio a considerare l'evacuazione del Mauna Pele, se l'attività continua. — Il governatore non mi ha detto niente. — E niente le dirà, signor Trumbo. Il governatore, come ogni altro sul- l'isola, ha paura di lei. Non ha alcun desiderio di darle notizie che a lei non piace sentire. Trumbo sbuffò. — Invece lei non ha paura, dottor Hastings. — Sono uno scienziato. Il mio compito è quello di acquisire i dati più at- tendibili e di trasmettere le nostre valutazioni basate su quei dati. Il suo compito è quello dì garantire la vita e la sicurezza dei suoi clienti e del per- sonale. — Già, è il mio compito, dottor Hastings — convenne Trumbo. — Sono lieto che lei ricordi chi è il responsabile di questo e di quello. Il vulcanologo si schiarì la voce. — Ma, ciò premesso, devo aggiungere che mi rivolgerò ai media non appena i dati diranno chiaramente che c'è una minaccia alla vita e alle proprietà lungo la sua sezione della costa Ko- na, signor Trumbo. Il miliardario coprì il microfono e imprecò violentemente. Poi disse: — Capisco, dottor Hastings. So che aveva in programma di venire al Mauna Pele domani, ma mi rendo conto che i suoi doveri glielo impediscono. — Al contrario — replicò lo scienziato. — Mi aspetto d'illustrare ai suoi ospiti le... — Lasci perdere — disse Trumbo, con tono piatto. — Continui il suo la- voro lassù. Noi continueremo il nostro qui. E mi chiami per primo, se la lava punta da questa parte, d'accordo? — Tolse la comunicazione, senza dare a Hastings la possibilità di replicare. — Bene, Will — disse al suo direttore generale — ora prendo il golf cart e vado a trovare Maya sulla penisola... — Piove — disse Will Bryant. — Non me ne frega un cazzo se piove. Porterò la radio; tieni la tua a portata di mano, così possiamo parlarci. Voglio che tu scenda a vedere co- sa cazzo trattiene Briggs e Dillon nei tunnel di servizio. Will Bryant annuì. — Sistemata Maya, vado a vedere cosa vuole Bicki. La convincerò a partire domani, perciò fai in modo che il suo aereo sia pronto a decollare dopo colazione. Poi di' a Bobby Tanaka di venire nella mia suite... faremo le ore piccole, in modo che domani si possa chiudere la trattativa. Voglio che entro trentasei ore Sato e i suoi abbiano firmato e siano in volo. Do- mande? Will Bryant scosse la testa. — Bene. Ci vediamo fra un'ora, più o meno. — Si allontanò per prende- re il golf cart e andare nella penisola. — A quest'ora gli uffici sono quasi tutti chiusi — diceva in quel momen- to Paul Kukali — ma la lavanderia funziona a tutto spiano e dopo mezza- notte il forno sarà molto impegnato. I tre percorsero la conigliera di tunnel. Avevano incontrato solo un golf cart; le due donne sul veicolo avevano salutato il soprintendente chiaman- dolo per nome. — Pare che il personale vada d'accordo — commentò Cordie. — Conosco gran parte delle persone che lavorano qui — disse Paul. — Molly e Theresa sono state mie allieve per breve tempo a Hilo. L'isola è grande, ma la comunità è relativamente piccola. — Quante persone? — domandò Eleanor. — Sulle centomila, ma un terzo vive a Hilo. In termini di densità di po- polazione, questa è l'isola meno popolata dell'arcipelago. Girarono a sinistra in un altro tunnel e si fermarono un momento davanti alla lavanderia in piena attività. Eleanor sentì odore di candeggina e di panni lavati a caldo. Gli ioni emessi dalle macchine per asciugare le fecero pizzicare le narici. — Il signor Trumbo ha difficoltà a trovare manodopera? — domandò Cordie. — Sì e no — rispose Paul. — No, non c'è penuria di gente che voglia il salario relativamente alto dell'albergo... per decenni l'isola ha subito una grave recessione. Purtroppo, con la perdita delle industrie di ananas e di zucchero e con scarsissime imprese indigene a rimpiazzarle, i residenti di classe operaia devono adattarsi al settore dei servizi. E sì, il signor Trumbo ha difficoltà a trovare manodopera, a causa del relativo isolamento del complesso turistico e... — Esitò. Cordie terminò la frase: — E della cattiva fama del Mauna Pele, che è ri- tenuto pericoloso. — Sì — ammise Paul, con un pallido sorriso. — Lì c'è il mio ufficio... purtroppo non contiene nulla d'interessante da vedere. E là c'è l'ufficio del direttore della sezione astronomia... che strano, la porta del signor Wills è aperta... In quel momento le luci si spensero. Una volta, in Francia, Eleanor si era trovata in una grotta dove avevano spento per diversi minuti ogni luce per mostrare ai visitatori l'effetto della totale oscurità. Aveva ancora gli incubi, ricordando quei momenti. Ora si ritrovò a trattenere il respiro, col petto che le doleva per la pressione delle tenebre circostanti. — Maledizione — disse Paul. E poi: — State calme. Qua sotto ci sono generatori d'emergenza per le luci. Dovrebbero entrare in funzione da un momento all'altro. Il tunnel rimase nero come la pece. — Non capisco — disse Paul. — Le luci d'emergenza sono autonome. Dovrebbero essersi già accese... — Zitti! — disse Cordie nel buio. — Non sentite niente? Eleanor tese le orecchie. I rumori che fino a qualche istante prima ave- vano riempito il tunnel, il fruscio dei ventilatori, il borbottio delle lavatrici e delle asciugatrici nella lavanderia, il lieve ronzio dei neon nel soffitto, i brandelli di conversazione nel panificio, erano svaniti. Il silenzio pareva totale come il buio. Era come se le poche persone intraviste fossero svanite insieme con la luce. — Non... — disse Paul Kukali. — Zitto! — ripeté Cordie. Allora Eleanor udì il rumore, alla loro sinistra, anche se le pareva che da quella parte ci fossero solo la parete e alcuni uffici chiusi a chiave. Era un rumore bizzarro, un misto di struscio di piedi, di respiro ansimante, di un- tuoso scivolio su pietra. Eleanor si scopri a serrare i pugni e a sforzare gli occhi per penetrare l'oscurità. Vi fu un rumore di chiavi. — State qui — disse Paul. — Vado avanti a tentoni lungo la parete fino al mio ufficio. Nel cassetto ho una torcia elet- trica. Farò... — Non si muova — disse Cordie, con un tono piatto e autoritario da far rimanere di sasso gli altri due. All'improvviso balenò una luce. Eleanor si girò di scatto: Cordie Stumpf, rannicchiata con un ginocchio a terra, teneva alto nella sinistra un accendino acceso. Eleanor provò un tale sollievo nel vedere la luce... nel vedere, semplicemente... da non reagire per un intero secondo quando Cordie frugò nella borsa di paglia che portava a tracolla e ne tolse un revolver. L'arma parve assurdamente lunga e pesante, mentre Cordie, sempre con un ginocchio a terra, la puntava in direzione del rumo- re. Chiunque lo provocava, si manteneva al di là del cerchio di luce. Ora Eleanor udiva voci provenire da dietro la curva del tunnel, dalla parte della lavanderia. — Faccia luce da questa parte — disse Paul, un'ombra alla loro sinistra — e troveremo il mio ufficio. — No — disse Cordie, di nuovo in un tono che non ammetteva repliche. — Non muovetevi. — Si rialzò, col brutto vestito che si gonfiava intorno a lei, l'accendino alto, il braccio destro proteso, il revolver ben fermo. Si mosse rapidamente verso la fonte del rumore. Eleanor la seguì solo per ri- manere nel benedetto cerchio di luce. Per prima cosa Eleanor vide gli occhi luccicanti. Cordie non rallentò l'a- vanzata. — Merda santa — disse. Eleanor impiegò qualche istante a riconoscere nell'uomo barbuto, acca- sciato contro la parete del tunnel, il direttore della sicurezza che aveva par- lato con loro alcune ore prima... Dillon. Ora l'uomo li fissava con occhi vacui, come se fosse in stato di choc. Mentre Cordie si avvicinava ancora, Eleanor vide il motivo: pareva che il direttore della sicurezza fosse stato vittima di un incidente automobilistico, aveva gli abiti ridotti a stracci... la manica destra del blazer mancava, la camicia bianca era a brandelli... e sangue sul viso, sulle mani, sul petto, incrostato nei capelli arruffati; dalla bocca spalancata gocce di saliva gli gocciolavano nella barba. Paul accorse a sorreggerlo, mentre Dillon scivolava ancora alla base del- la parete e le scarpe lucide si allungavano sul pavimento. — Dobbiamo portarlo da un medico! Cordie si girò all'improvviso e alzò accendino e revolver nella direzione da cui erano giunti. Rapidi passi avanzavano verso di loro nel buio. 17 giugno 1866, sulla costa Kona Negli ultimi due giorni non ho preso appunti perché le ore di lucidità mentale sono state troppo piene d'eventi e gli eventi stessi sono stati troppo straordinari per metterli in qualsiasi sorta di prospettiva, inclusa la perso- nale prospettiva di questo diario. Perfino ora, mentre scrivo in questa mise- ra casupola raggiunta dal sordo fragore dei frangenti, con le orecchie tese nel timore che ricomincino i rumori notturni dell'incredibile orrore e supe- rino il sottofondo dell'oceano e delle palme da cocco sferzate dal vento, sapendo fin troppo bene che potrebbero presagire la nostra orribile morte, non riesco a dare credito ai miei stessi sensi e ai miei ricordi. Mi sembra che sia passato un secolo da quando, spinta dall'impulso, in- sistetti per accompagnare il corrispondente e l'ecclesiastico nella loro mis- sione di misericordia e di curiosità alla costa Kona. Con mia sorpresa, le loro proteste non furono né lunghe né veementi. Forse la comune esperien- za della notte precedente li aveva indotti a considerarmi un'affidabile com- pagna in qualsiasi avventura potessero escogitare. Rimpiango adesso che non avessero pensato diversamente. A ogni modo, nella tarda mattinata partimmo da Casa Vulcano, da dove Hananui, McGuire, Smith, il locandiere e le guide indigene cristiane a- vrebbero scortato a Hilo i missionari fuggiaschi. Nella locanda sul cratere del vulcano c'erano sei cavalli e altrettanti muli, così almeno tutti i bianchi potevano compiere in sella l'ultimo tratto della loro fuga verso oriente. Sia il locandiere sia il suo capo della servitù avevano moschetti, che provvide- ro a caricare prima della partenza. Ci fu qualche discussione sull'opportunità di armare il nostro piccolo gruppo. Il reverendo Haymark ricusò con un gesto la proposta del locan- diere, che ci aveva offerto uno dei moschetti, ma il signor Clemens ritenne che non fosse una cattiva idea. Alla fine, accettò in prestito un revolver. "Sa sparare?" gli domandò il locandiere, chiaramente dubbioso delle sue capacità. "È stato in guerra?" Il signor Clemens smise di esaminare il vecchio revolver e guardò il lo- candiere. "Signore" rispose, calcando la sua cadenza del Missouri "ho avu- to l'onore di fare parte della milizia irregolare al servizio della Confedera- zione." "Ah" disse il locandiere e annuì per mostrare che capiva. "Disertai dopo tre settimane" soggiunse il signor Clemens. "Mmm?" Il locandiere inarcò le sopracciglia. Il signor Clemens mise nella tasca della giubba il revolver e alzò il dito. "E il Sud perdette la guerra." Potrei menzionare qui, prima d'illustrare le terribili immagini dei giorni seguenti, che l'umorismo del signor Clemens, se da una parte era forse fa- stidioso, dall'altra però ben di rado mancava. Potrei portare a esempio il "Registro del vulcano", che ci chiesero di firmare malgrado la frettolosa partenza. Se da una parte alcuni dei commenti colà scritti. erano preziosi perché rilevavano particolari dell'eruzione, dall'altra molti erano solo pat- tume: "Nemmeno un gorgoglio" o "Madame Pele è giù di corda" o "Un grandioso spruzzo". Questi commenti avevano di solito firme inglesi. I contributi americani tendevano a essere più trepidanti: "9 giugno 1965... Disceso il cratere e fatto visita a Madame Pele. Trovato il piccolo lago in grande attività, mi ha ricordato il mare mosso. Lo spettacolo è spaventoso, oltre che magnifico e sublime..." oppure questo, datato 4 agosto 1865: "Il professor William T. Brigham, insieme con il signor Charles Wolcott Bro- oks, è sceso nel cratere e ha trascorso la notte a dieci piedi dal magma in ebollizione. La scena era veramente grandiosa. Il professor Brigham e il signor Brooks furono svegliati da un profondo sonno da un violento sbuffo di vapori sulfurei, a causa dei quali si allontanarono in maniera notevol- mente frettolosa, lasciandosi alle spalle coperte, ecc". Ho copiato parola per parola questi commenti per offrire un paragone al- la nota del signor Clemens: Casa Vulcano, venerdì 15 giugno 1866 Come altri che vennero prima di me, sono giunto qui. Ho viaggiato allo stesso modo, per gran parte della via. Ma sapevo che una Provvidenza ve- gliava su tutti noi e non ho avuto paura. Abbiamo avuto una buona dose di maltempo. In qualche caso il tempo era solo così cosi (e per essere schiet- to, nei restanti casi è stato simile). I miei compagni di viaggio, reverendo Haymark e signorina Stewart del- l'Ohio... Tuttavia, i particolari delle futili esperienze del viaggio fin qui di tre persone non sempre sono di buon gusto in un libro destinato alle regi- strazioni di fenomeni vulcanici, anche se una di queste persone fuma e l'al- tra si lascia andare a sfoghi di focoso temperamento; perciò torniamo al tema specifico. Visitammo il cratere, con l'intenzione di trattenerci tutta la notte, ma la bottiglia contenente le provviste si ruppe e fummo obbligati a fare ritorno. Però, mentre stavamo fermi nei pressi del Lago Meridionale (diciamo a una distanza di 250 iarde) vedemmo un grumo di terriccio, grosso circa come un gessetto. Subito dissi: «Sta per accadere qualcosa d'insolito». Ma poco più tardi osservammo un'altra zolla all'incirca delle stesse dimensio- ni; essa rimase in bilico... tremò... e poi si staccò e cadde nel lago. Mio Dio! Fu orrendo. Allora bevemmo un goccio. Pochi visitatori proveranno mai la gioia di fare due esperienze simili al- le sopra citate, una di seguito all'altra. Mentre stavamo li distesi, fummo raggiunti da uno sbuffo di gas, per cui balzammo in piedi e ci lanciammo al galoppo sulla lava, nella più ridicola delle maniere, abbandonando le nostre coperte. Fuggimmo di corsa per- ché è di moda e perché si dà agli altri l'impressione che si sia vissuta u- n'avventura emozionante. Allora bevemmo un altro goccio. Rincorati, tornammo indietro e ci accampammo un po' più vicino al la- go. Meditai a voce alta: «Quanto la stupenda grandiosità di questa magnifi- ca, terribile, sublime manifestazione di potere celestiale riempie l'anima poetica di elevati pensieri e di più elevate immagini! e quanto è sconvol- gente e solenne!» (A questo punto il gin terminò. Nelle incaute mani del mio stimato com- pagno ecclesiastico nonché guida dilettante, sprofondato nella crosta di lava alla diligente ricerca dell'Infocato Abisso di Fiamme e di Solfo del quale così spesso e così amorevolmente aveva predicato, la bottiglia si ruppe. Dispensata la nostra penzolante guida da ogni altra funzione reli- giosa a causa della sua trascuratezza verso le nostre provviste, la signori- na Stewart dell'Ohio e io decidemmo che avrei posto fine a ulteriori rifles- sioni filosofiche.) Il reverendo Haymark rise forte nel leggere questo inutile tentativo di "fare umorismo", ma io l'ho riportato qui solo per mostrare la disposizione dei miei compagni di viaggio anche in questa gravissima ora. Nessun indigeno volle accompagnarci alla costa sottovento, anche se il signor Clemens offrì loro una notevole ricompensa. Tutti erano atterriti, compreso Hananui. Alla fine, ci mettemmo in viaggio, con una mappa di- segnata alla buona dal locandiere, mentre i cavalli faticavano sotto il peso di provviste bastanti per svariati giorni, prese dalla dispensa di Casa Vul- cano. La prima parte del nostro viaggio a cavallo giù dal vulcano fu priva d'e- venti, ma resa abbastanza fantastica dai geyser di lava alle nostre spalle e dai lunghi pennacchi di vapori sulfurei che si libravano su di noi come nu- vole puzzolenti. Il Mauna Loa incombeva alla nostra destra: la sua vetta sfiorava i 14.000 piedi e superava di quasi diecimila quella del fratello più basso, il Kilauea. Di quest'ultimo non vedevamo lava, ma dalla sua caldera saliva una nube che impennacchiava il cielo di ponente, come un cattivo presagio per la nostra impresa. Il terreno nella zona sottovento dell'isola è di una monotonia quasi in- sopportabile, con campi di lava che si succedono a campi di lava, la fredda pahoehoe modellata in migliaia di forme diseguali, i bastioni di basalto e i morti coni di cenere che creano un paesaggio composto in parti uguali d'in- ferno dantesco e di bacino carbonifero di Pittsburgh. La pista, un tratto di un antico sentiero hawaiano che gli indigeni chiamano Ainapo, serpeggia- va verso sudovest fra il massiccio del Mauna Loa e le scogliere meridiona- li. Per le prime ore non ci fu quasi nulla da vedere se non la lava, a parte alcuni stenti alberelli dall'aria sciatta che gli hawaiani chiamano ohi'a e al- cune felci coriacee, ama'u, che secondo il reverendo Haymark crescono in campi di lava vecchi meno di un anno. Poiché quel tratto di pista era meno battuto e più aspro del sentiero fra Hilo e il Kilauea, coprimmo meno di venti miglia prima che scendesse l'o- scurità tropicale. A questo punto dovrei cogliere l'occasione per descrivere quel tramonto: avevamo viaggiato abbastanza a lungo verso ponente, tanto che in basso vedevamo la costa sottovento dell'Isola Grande, mentre il pa- norama a settentrione lungo la linea costiera era ostacolato solo dal ramo inferiore della cresta di sudest del Mauna Loa; dalla nostra posizione anco- ra duemila o più piedi sopra il livello del mare potevamo vedere la punta meridionale dell'isola e la grande distesa d'oceano a meridione e a ponente, con il vento che si era girato e ora soffiava lontano da noi le nubi vulcani- che: nulla, se non il cielo azzurro, ci separava dal lontano orizzonte occi- dentale. Mentre preparavamo il campo e mettevamo le pastoie agli stanchi caval- li, ci fermammo ad ammirare il tramonto: il sole era un perfetto disco rosso che esitava sull'orizzonte come un corteggiatore che detesta augurare al- l'amata la buona notte. Il sole sparì infine, lentamente divorato da una fra- stagliata linea di nuvole scure proprio sopra l'orizzonte. Avevo ammirato con occhio poetico il tramonto, ma il signor Clemens l'aveva di sicuro guardato con l'occhio esperto di un ex timoniere di battelli fluviali, perché disse in tono distaccato: "Se il vento tiene, forse quelle nubi ci causeranno guai prima di domattina". La sua previsione parve ben poco attendibile, mentre mangiavamo carne secca, eseguivamo per quanto possibile le abluzioni serali tra i massi di a'a e, legati i cavalli mediante le lunghe cavezze a un solitario albero lauhala, ci preparavamo a dormire, usando come guanciale la sella, sotto un bal- dacchino di vivide stelle. Mentre mi lavavo il viso in una delle pozze d'ac- qua piovana, dietro un masso corroso dalle intemperie, udii senza volerlo gli uomini discutere se fosse il caso di montare la guardia quella notte. Il reverendo Haymark non era favorevole all'idea, perché avrebbe potuto al- larmare "la signora". Il signor Clemens si mise a ridere e disse: "Penso che su questo pianeta siano ben poche le cose che spaventerebbero quella par- ticolare signora". Ammetto di non avere saputo esattamente come considerare quel com- mento, ma so d'essermi risentita per il suo tono faceto nell'usare la parola "signora". Comunque nessuno montò la guardia, anche se ebbi l'impressione che gli altri due confidassero nei cavalli per quel compito. Quanto a me, credo che il mio cavallo avrebbe dormito anche sotto un attacco di indiani ulu- lanti, tanto era pigro. Al mattino la previsione del signor Clemens trovò conferma, perché fummo svegliati prima dell'alba da un forte acquazzone. Senza un posto dove ripararci, a parte l'unico albero lauhala, rinunciammo a preparare il caffè sul focherello che il corrispondente aveva acceso e caricammo sui cavalli il rotolo di coperte e le bisacce da sella per proseguire la discesa. Già cominciavo a dubitare d'avere agito con saggezza, insistendo per par- tecipare a quell'eccentrico viaggio. Mentre i cavalli avanzavano con pru- denza tra meridione e ponente sugli scivolosi campi di lava, con il rumore dei loro zoccoli che echeggiava tra i massi di a'a, ero fin troppo consape- vole che, se fossi andata con gli altri, a quell'ora mi sarei crogiolata nelle comodità di Hilo. Nemmeno immaginavo quanto prive d'importanza sarebbero sembrate le comodità, da lì a qualche ora. Per tutto quel giorno (sarebbe poi ieri) procedemmo sempre in discesa; attraversammo la cresta meridionale del Mauna Loa e uscimmo negli alti- piani sopra la costa Kona. Dalla nostra posizione, un migliaio di piedi so- pra il livello del mare, potevamo vedere le chiazze di verde brillante dove le palme da cocco segnavano la striscia di terreno fertile in prossimità delle scogliere oceaniche. Dico scogliere perché, anche da quella distanza, scor- gevamo l'agitarsi impazzito dei frangenti nel punto dove il rabbioso Pacifi- co incontrava la costa ripida e rocciosa. C'erano solo poche baie e spiagge, nelle dieci e passa miglia di costa a noi visibile, perché la quasi totalità del litorale era costituito di scogliere dove navi e scialuppe non avrebbero po- tuto fare scalo. Laggiù, da qualche parte, i Whister e gli Stanton e le altre famiglie avevano incontrato la loro triste sorte. La costa compariva per brevi istanti fra nubi sempre più alte che correvano verso di noi da ponen- te, con bordi che si arricciavano contro la grande massa vulcanica alle no- stre spalle. "Pensavo che questo fosse il lato secco" notò laconicamente il signor Clemens. "Lo è, infatti" disse il reverendo Haymark, con la pioggia che gli goccio- lava dal cappello a tesa stretta. "Questo tempo è molto insolito in giugno." "Strano come per il tempo sia sempre normale essere insolito" brontolò il signor Clemens. Proseguimmo con grande cautela la discesa e le nubi parvero scendere con noi, mentre il cielo diventava tetro e scuro già varie ore prima del tramonto. Raggiunta una sorta di cengia alberata a mezzo miglio dalle scogliere, incontrammo uno stretto sentiero che serpeggiava fra gli alberi e i cespugli a quell'altitudine più fitti. "Questa è la pista principale fra Kona e le mis- sioni di Kau e di South Point" disse il reverendo Haymark, girando a set- tentrione il muso del cavallo. "Manca ancora molto?" domandai, allarmata nell'udire me stessa fare la lamentosa richiesta di tutti i viaggiatori indisciplinati. "Otto o dieci miglia" disse l'ecclesiastico, cambiando posizione in sella. "Purtroppo, con cavalli così stanchi e con un tempo così inclemente, non arriveremo prima di notte alla missione del villaggio." "Forse è meglio così" notò il signor Clemens e io impiegai solo un istan- te per capire il suo punto di vista. Non sapevamo che cosa ci aspettasse laggiù. Se gli abitanti del villaggio erano ancora in armi, se avevano dav- vero massacrato le famiglie dei missionari, non sarebbe stato saggio giun- gere alla loro soglia di casa qualche minuto prima di notte. Il reverendo Haymark annuì. "C'è un posto a un paio di miglia a nord da qui, credo. Un sito di rituali pagani. Potremmo trovarvi riparo." Così quella sera arrivammo al grande heiau dove sarebbero avvenuti i terribili eventi di quella notte. Il nostro ingresso nello heiau fu abbastanza carico di funesti presagi: fummo costretti a seguire il sentiero fra due alti muri di pietra, lo stesso passaggio (osservò in tono triste il reverendo Haymark) usato dai sacerdoti pagani per trascinare le vittime sacrificali al massacro sui gradini di quella enorme pila di pietre che ci aspettava. "Kamehameha il Grande fece costruire questo posto prima di andare alla conquista di Ohau" disse l'ecclesiastico, mentre i nostri cavalli si fermava- no alla base della terrificante costruzione. "La notte scorsa ho sognato Kamehameha" disse il signor Clemens, in un tono assai lontano dallo scherzoso. "Ho sognato che una figura magris- sima e imbacuccata compariva nel nostro campo e mi guidava di nuovo nel cratere del Kilauea. Là, nella caverna sotterranea, la mia spettrale guida indicò un enorme masso e gridò: 'Ecco la tomba dell'ultimo Kamehame- ha!'. Ricordo d'avere appoggiato alla pietra la spalla, d'avere spostato l'e- norme masso e d'avere visto i resti mummificati del grande re." "Un sogno sconvolgente" commentò il reverendo Haymark, asciu- gandosi con un fazzoletto il florido viso e guardando dalla mia parte. "Più che sconvolgente" disse il signor Clemens, con una serietà che mi era nuova. "Il defunto re mi posò sulla spalla la mano ossuta e cercò di par- larmi, con voce che tentava di uscire da labbra vizze che qualcuno gli ave- va cucito. Il suono era piuttosto un orribile gemito umano, ma fui sicuro che cercasse di mettermi in guardia da qualcosa." "Non mi sembra un momento molto adatto per storie di fantasmi" dissi, guardando le muraglie sovrapposte di pietre sacrificali che si alzavano da- vanti a noi. Il signor Clemens parve scuotersi dalle proprie fantasticherie. "Sì" disse con aria assente. "Chiedo scusa." Sorpresa dalle sue scuse, le prime in tutto il viaggio, distrassi da lui l'at- tenzione e m'impegnai nel tentativo di calcolare le dimensioni di quello heiau. Il monumento aveva la base a forma di un parallelogramma irrego- lare lungo più di duecento piedi; le pareti, fatti di pietre di lava accostate senza calce, larghe circa dodici piedi alla base, si alzavano per venti piedi e si rastremavano fino a sei in cima. Questo, dal lato mauka, ossia verso la terraferma; verso il mare, i muri erano crollati in alcuni punti ed erano alti solo sette otto piedi, piatti in cima per facilitare i capi e i sacerdoti nelle lo- ro cerimonie. Nella parte meridionale c'era una corte interna e il reverendo Haymark commentò che quello era il posto dove si trovava l'idolo princi- pale... Tairi, feroce d'aspetto, con elmo e festoni di piume rosse, il dio della guerra preferito da Kamehameha. Era lì che si sacrificavano centinaia, for- se migliaia, di vittime per facilitare le imprese del re. Ora la pioggia cadeva più intensamente e confesso che il mio spirito era abbattuto com'erano bagnati i miei vestiti e tutto il corpo. Ogni cosa era grigia e gocciolava acqua. Il posto pareva peggio che privo di vita... pro- sciugava la vita, se questo ha un senso. C'erano tre capanne di paglia da lungo tempo abbandonate, poste a circa cinquanta iarde a nord dell'infausto heiau e fu lì, nella capanna meno rovi- nata, che decidemmo d'impastoiare i cavalli e passare la notte. Al riparo dalla pioggia, il signor Clemens riuscì a usare i pezzi più asciutti della ca- panna per accendere un focherello sul pavimento di terra battuta e riu- scimmo a fare un po' di caffè da bere con la cena a base di carne salata e di manghi. Avrei preferito il tè, ma il caffè caldo contribuì a sollevarci il mo- rale; mentre scendevano le tenebre, parlammo di che cosa avremmo trova- to il giorno seguente. Il reverendo Haymark era dell'opinione che i locali kahuna avessero cospirato per atterrire i missionari, ma era anche possibile che il reverendo Whister e gli altri fossero ancora vivi. "E i mostri di cui parlava Hananui?" domandò il signor Clemens. "L'uomo-rettile, l'uomo-cane e gli altri?" Il reverendo Haymark mostrò il suo disprezzo nei riguardi di simili su- perstizioni. "Per un articolo sarebbero di sicuro materiale migliore dei nativi infuria- ti" suggerì il corrispondente. A questa battuta sbuffai. "Perché mai il giornalismo deve sempre riguar- dare cose grottesche e sconvolgenti?" Il signor Clemens sorrise. "Signorina Stewart, morte e smembramenti, follia e cannibalismo, sono buoni argomenti cristiani che spingono gli a- nalfabeti a imparare a leggere i giornali. Più bizzarro è l'evento, migliore è la lettura durante la colazione." "Ma di sicuro" replicai "questo è un segno della nostra epoca sensazio- nalista." "Certo" convenne il signor Clemens. "E di tutte le epoche prima della nostra e di quelle a venire. Le nazioni crescono e muoiono, le macchine vengono inventate e cadono in disuso, la moda fiorisce e appassisce come i fiori dell'estate scorsa... ma un buon assassinio prima di colazione, signori- na Stewart, è la sostanza dell'eternità. Se questa storia è sensazionale solo la metà del naufragio della Hornet, riuscirei a venderla a qualsiasi giornale, sia esso del 1866, del 1966 o dell'anno 2066." Scossi la testa a simili stupidaggini. In quel momento i cavalli co- minciarono ad agitarsi e a nitrire nell'inconfondibile espressione del puro panico equino. 14 Pana-ewa è una grande isola di lehua; una foresta di ohia nell'entroterra. Caduti sono i rossi fiori di lehua, marce sono le rosse mele degli ohia, calva è la testa di Pana-ewa; il fumo ricopre la terra; il fuoco avvampa. Canto della sorella di Pele a Pana-ewa Byron Trumbo, nudo e sfinito, disteso sulla schiena, con il copriletto gettato da parte a calci, guardava girare le pale di legno del ventilatore ap- peso al soffitto, mentre Maya sonnecchiava nell'incavo del suo braccio. Tutt'e due erano coperti di un sottile velo di sudore. Trumbo respirava a bocca aperta, cercando ancora di riprendere fiato. Aveva dimenticato quan- to potessero risultare faticose quelle sedute con Maya Richardson. La donna distesa con la testa sul petto di Trumbo era alta, snella, giova- ne, bella, famosa, ricca e focosa al di là d'ogni immaginazione di Trumbo. Quest'ultimo andava a letto con lei da poco più di due anni, da quasi due anni continuava a prometterle che l'avrebbe sposata e non ricordava più da quanto tempo vedeva la sua foto accanto alla propria sui giornali scandali- stici. Non sapeva con certezza quando si fosse stancato di Maya: sapeva solo d'essere stufo di lei, della sua inesorabile bellezza, del suo narcisismo da modella professionista, della sua inflessione britannica e del suo umori- smo britannico, del suo insaziabile ardore e della sua infaticabile tecnica sessuale. Bicki era stata la risposta: la giovane cantante rock, nera e mino- renne, aveva in qualche modo bilanciato l'attraente malevolenza di Caitlin e l'affettata bellezza di Maya. Le impacciate ed egoistiche tendenze sessua- li di Bicki avevano in qualche modo reso più sopportabili, perfino interes- santi, la frigidità di Caitlin e il selvaggio abbandono di Maya. Era strano come nella vita di Byron Trumbo occorresse la combinazione delle tre donne per stabilire una sola relazione soddisfacente; ma così era e Trumbo l'accettava. La parte difficile era mantenerla. Trumbo non s'illudeva che Maya avrebbe accettato l'esistenza di Bicki, se fosse venuta alla luce; così si era accertato che non accadesse. Solo di recente i giornali scandalistici avevano cominciato a bisbigliare di una nuova relazione di Trumbo ed era una fortuna che Maya fosse troppo raf- finata per leggere quei giornali. — Mmmmmm — mugolò la supermodella, agitandosi nel dormiveglia. Con le lunghe dita accarezzò i peli del petto di Trumbo. — Mmmmm a te — disse Trumbo. Le diede un buffetto sulle natiche dalla forma perfetta. — Togli la testa, bambina. Devo andare a vestirmi. — Nooo — miagolò Maya. Si alzò sul gomito, mentre Trumbo si sedeva sul bordo del letto. — Devi rimanere tutta la notte. — Mi dispiace, piccola. Will e Bobby Tanaka e gli altri mi aspettano. Abbiamo ore di lavoro, prima dell'incontro con Sato domattina. — Mmmmm — disse Maya. — Non ti piace la mia piccola sorpresa? Trumbo si era infilato i calzoni. Ora girò la testa e la guardò. Aveva seni piccoli ma perfetti, capezzoli rosei e perfetti. Non si coprì col lenzuolo. — Venire qui per farti una sorpresa, voglio dire — proseguì Maya: ogni sillaba era posta in evidenza dalla sua perfetta pronuncia britannica. Il suo addetto stampa diceva che era stata allevata e aveva studiato in Inghilterra, ma Trumbo sapeva che Maya era cresciuta nel New Jersey. La perfetta di- zione le derivava da sei mesi di corso intensivo, fatto a diciassette anni, subito dopo essere diventata modella professionista. — Sì — disse Trumbo. — Mi piace. Solo, sono occupato come l'inferno. Sai quant'è importante questa vendita. — Si alzò per cercare la camicia. Il ventilatore girava lentamente. — Non ti starò fra i piedi — disse lei, con un accenno di broncio. — Lo so, bambina. — Si mise l'ampia camiciola hawaiana e cominciò ad abbottonarla. — Domattina sarai via da qui. — No! — Sì. — Per due anni mi hai promesso una vacanza al Mauna Pele. — Cristo, Maya, hai scelto il momento peggiore. Sai che cerco di molla- re questo posto. Lei si coprì col lenzuolo. — Per questo volevo vederlo prima che tu lo vendessi. Trumbo scosse la testa e cercò i sandali. — Devi andartene da qui do- mattina. — Perché? C'è un'altra? Trumbo si bloccò, si girò lentamente. — Cosa vorresti dire? Maya si sporse dal letto, tolse dalla borsa di paglia un giornale e lo aprì sul lenzuolo. Trumbo prese il tabloid, diede un'occhiata alla prima pagina e lo gettò da parte. — Tutte stronzate. Lo sai. — So che hai detto la stessa cosa a Cait, quando i giornali hanno comin- ciato a parlare di noi, due anni fa. Trumbo si mise a ridere. — Non dirai sul serio! Questa musica non sto neanche a sentirla. Mai vista quella donna. — No? — Nel suo tono c'era qualcosa di strano e di fragile. — No — disse Trumbo. — Bene. Perché se scopro che in questa storia c'è qualcosa di vero, darò ai giornali di che scrivere. — Si sporse di nuovo dal letto, con un seno per- fetto che si liberava del lenzuolo, e prese dalla borsa un altro oggetto. — Cristo — disse Trumbo, fissando la piccola automatica nichelata fra le dita perfette di Maya. La pistola non era grossa, probabilmente una .32, ma Trumbo aveva rispetto per le automatiche di qualsiasi calibro. — Vuoi minacciarmi, bambina? — Non ti minaccio — replicò Maya, con la sua perfetta pronuncia ingle- se. — Non ho nessuna intenzione di passare per scema, Byron. Fidati di me. Trumbo sentì qualcosa di simile alla furia omicida montare in lui. Ne aveva abbastanza di quella storia. La situazione gli sfuggiva di mano. Mosse un passo verso il letto, pronto a strappare la pistola a quella puttana viziata, a suonargliele fino a farla urlare. Dalla radio, lasciata sulla sedia di vimini, provenne il suono stridulo del cicalino. Trumbo esitò, poi prese l'apparecchio. — Sì? — Capo — disse la voce di Will Bryant — sarebbe meglio che lei tor- nasse qui. Trumbo continuò a guardare rabbiosamente Maya. La donna non punta- va contro di lui la pistola, ma l'aveva posata sul ginocchio piegato e si e- saminava le lunghe unghie. Trumbo sentì un prurito alla mano, per la vo- glia di picchiarla. — Perché? — ringhiò nel microfono. — Si tratta di Briggs e Dillon — fu la fastidiosa risposta di Will. — Cos'hanno combinato? — Meglio che lei venga qui. — Tra un minuto — disse Trumbo. Spense la radio. Puntò il dito contro Maya. — Dammi quell'affare. La supermodella mandò un lampo dagli occhi. — No. — Cazzo, finirai per spararti da sola. — Può darsi. — Quando era arrabbiata, non aveva la solita dizione per- fetta. — Ai tabloid piacerebbe anche questo. Trumbo mosse un passo verso di lei, si fermò. — Senti, tesoro... sarò onesto con te. Caitlin è qui. Col suo avvocato. Sono giunti stasera, senza preavviso. Maya strinse le labbra. — Quella puttana? Perché? — Cerca di mandare a rotoli l'affare. Lei e Koestler hanno formato una cordata d'investitori e pensano di potermi rubare il Pele a un prezzo ridico- lo... mi minacciano perché venda. Gli occhi di Maya cambiarono, divennero più profondi. — Non ti cono- sce proprio per niente, Byron? — No — rispose Trumbo. — Ora metti via quella roba. Maya rimise nella borsa l'automatica. Trumbo considerò l'idea di strap- parle la borsa, ma lasciò perdere. — Mi serve il tuo aiuto, bambina. — In che senso? — Maya alzò la testa e la luce soffusa delle candele le illuminò gli zigomi perfetti. — Parti domani. Non lasciare che Caitlin ti trovi qui e aggiunga anche questo all'elenco delle cose di cui vendicarsi. Maya sporse il perfetto labbro inferiore. Trumbo si sedette sul bordo del letto e le accarezzò la gamba sotto il len- zuolo. — Sta' a sentire, bambina. Si tratta solo di un altro mese o poco più. Allora questa merda andrà a posto e ci sposeremo. Appena avrò venduto il Mauna Pele, tutto tornerà in carreggiata. Faremo la luna di miele dove vuoi tu. Abbi fiducia. Maya piegò di lato la testa. — Allora non c'è niente di vero su questa... Bicki? — Non l'ho mai nemmeno sentita nominare! Maya si sporse a strofinargli sul braccio i corti capelli. — D'accordo. Ma stanotte devi tornare a dormire qui. Trumbo esitò solo un secondo. — Sì. Certo. Però dammi quella pistola. Maya spostò fuori portata la borsa. — No. Ho sentito su questo albergo storie che fanno paura. Tu stesso mi hai detto che qui sono sparite alcune persone. Trumbo sospirò. "Allora perché diavolo sei venuta, piccola stronza?" — Tesoro — disse — in questo stesso momento ci sono due uomini fuori nel- la pioggia a fare la guardia alla tua hale. Maya lanciò un'occhiata alle finestre prive di tendine. — Non possono guardare dentro — disse Trumbo. — Siamo a quattro metri da terra e a ovest non c'è niente da vedere, tranne gli scogli e il Paci- fico. Ma la pistola non ti serve. — La tengo finché non sarai tornato. Trumbo si strinse nelle spalle. Conosceva bene quel tono. Era contento che le persone con cui trattava affari fossero per la maggior parte uomini. — D'accordo, bambina, ma tornerò tardi. Ho un mucchio di lavoro da fare. Maya scivolò sotto il lenzuolo, coprendosi fino agli occhi. — Resterò sveglia ad aspettarti — disse. Trumbo si chinò a baciarla sulla testa. Fuori, si fermò nella veranda e per qualche istante ascoltò la pioggia tamburellare sul tetto di stoppie della grande hale; accese di nuovo la radio. — Will? — chiamò. — Sì, capo. — Cos'è questa merda su Briggs e Dillon? Crepitio di statica. — Non so se questa frequenza è sicura... — Parla! — Dillon è in infermeria. Briggs è disperso. Trumbo si appoggiò alla ringhiera della veranda. I frangenti colpivano le rocce laviche a meno di dieci metri dalla porta anteriore della hale. Da qualche parte, dietro Trumbo, balenò un lampo. — Cos'è accaduto? — Ancora non sappiamo. Dillon non può parlare. Forse c'è qualcosa giù nei... — Le scariche coprirono la voce di Will, mentre un lampo balenava di nuovo e il tuono rombava sopra le palme. — Will? Mi senti? — Sì. — Ora vado da... — Trumbo esitò, guardò la porta chiusa alle sue spalle. — Passo dalla baracca, prima di tornare. Di' a Fredrickson di mandare qui ancora un uomo per sorvegliare la hale di Maya e digli di venirmi a prendere alla baracca fra tre quarti d'ora. Digli d'aspettare fuori. — Bene, signor T. Ma penso che forse le servirebbe... — Ci vediamo fra un'ora — lo interruppe Trumbo. Mise in tasca la ra- dio, scese in fretta gli scalini e andò al golf cart coperto. Il faro illuminò un sottile cono di pioggia e di folta vegetazione, mentre Trumbo faceva girare sul sentiero asfaltato il piccolo veicolo e tornava verso la base della peni- sola. Dopo dieci metri si fermò a parlare a una figura scura rannicchiata sotto un albero. — Michaels? — Sissignore. — L'uomo della sicurezza portava una giacca a vento zuppa di pioggia e un berretto da baseball che gocciolava acqua dalla vi- siera. — Dov'è l'altro? — Williams è sul lato nord. Facciamo a turno a pattugliare. Trumbo annuì. — Fredrickson manda ancora un uomo. Hai la radio? — Certo — rispose Michaels, toccando l'auricolare e il piccolo apparec- chio agganciato alla cintura. — Fatti mandare un'altra pistola. Dammi la tua. — Un'altra... certo — disse Michaels, infilando la mano sotto la giacca a vento e tirando fuori la pistola. La porse a Trumbo. — Una Browning, si- gnor Trumbo. Nove millimetri. La sicura è... — Sì, sì, ne ho una anch'io. Parla a Fredrickson e digli di mandartene u- n'altra. — Sissignore. Trumbo avviò il carrello, ma si accorse che Michaels gli trotterellava a fianco. — Cosa c'è? — Ah, signor Trumbo... mi domandavo... — Sì? — Be', signore... mi domandavo se... voglio dire, appena ha finito... po- trei riavere l'automatica? È un regalo della mia prima moglie. Ha... sa... un valore sentimentale. — Oh, Cristo! — disse Trumbo. Si allontanò sotto la pioggia. 17 giugno 1866, sulla costa Kona Eravamo al riparo della tempesta, nella capanna in rovina accanto all'an- tico heiau, quando i cavalli cominciarono a imbizzarrirsi e a nitrire di ter- rore. Il reverendo Haymark balzò in piedi e il signor Clemens tolse dalla tasca della giubba la grossa pistola che si era fatto prestare a Casa Vulca- no. Tutti e tre ci affollammo nel vano della porta e scrutammo nel buio e nella pioggia. Lungo i viali lastricati dello heiau si movevano delle torce. Al di sopra del frastuono provocato dai cavalli atterriti riuscivo a sentire il rumore di tamburi e la frenata musica dei flauti da naso. Come un sol uomo tutt'e tre uscimmo sulla veranda. Il reverendo Haymark cercò di tranquillizzare i cavalli, mentre il signor Clemens e io guardammo le luci in movimento nel labirinto di pietre. "Kapu o moe!" Il grido proveniva dalla parte delle torce in movimento. "Kapu o moe!" "Cosa significa?" bisbigliai. Senza smettere di accarezzare sul muso i cavalli, il reverendo Haymark mi bisbigliò di rimando: "Un grido d'avvertimento per chiudere gli occhi o prostrarsi. Credo si usi solo davanti a un corteo reale o ai Marciatori della Notte". "I Marciatori della Notte?" bisbigliò il corrispondente. Teneva sempre in pugno la pistola. Aveva occhi luminosi. "Fantasmi?" "Gli indigeni credono che i loro defunti di sangue reale ritornino dal mondo dei morti in queste marce" disse il reverendo Haymark, alzando un poco la voce per dimostrare di non essere intimorito da quelle superstizio- ni. "A volte marciano gli stessi dèi." Le torce e la musica oltrepassarono la nostra radura, proprio al di là del più vicino muro di pietre dello heiau. Il vento frustò gli alberi come se un ciclone soffiasse da terra e nello stesso tempo la burrasca arrivasse dal ma- re. Malgrado i tentativi del reverendo Haymark, i cavalli continuarono a ti- rare la cavezza e a mostrare il bianco degli occhi. "Venite" dissi e impulsivamente mi avviai sotto la pioggia. Il signor Clemens mi seguì a balzi. Il reverendo Haymark gridò qualcosa, ma poi controllò che le cavezze dei cavalli reggessero e attraversò in fretta la ra- dura, dietro di noi. Percorremmo una ventina di iarde per arrivare alla fine del muro che ci separava dall'ingresso dello heiau e dalla piccola corte; quando aggirammo l'ostacolo, il corteo aveva proseguito. Potevamo scorgere la luce delle torce e udire la nenia e la musica che provenivano dal lato opposto dell'edifìcio pagano. Un poco senza fiato per la corsa nella radura, mi rivolsi al signor Cle- mens. "Non hanno l'aspetto di fantasmi." "Può darsi" disse il corrispondente e indicò il passaggio fra due muri, dove ci trovavamo in quel momento. La pioggia aveva mutato lo stretto sentiero in una palude di fango. Da quel punto erano chiarissime le nostre impronte intorno all'estremità del muro, com'era chiaro il risucchio dei passi del reverendo Haymark. Del corteo appena passato non c'era alcun segno sul terreno fangoso. Mi toccai la guancia. "Non potrebbero essere passati da un'altra parte?" Conoscevo già la risposta. Davanti a noi c'era la massiccia costruzione del- lo heiau. Perché le torce fossero visibili, il corteo era passato per forza da quel vicolo fangoso. "Sarebbe meglio tornare indietro" disse il reverendo Haymark, col fiato grosso. Dal cappello e dalle spalle gli ruscellava acqua. "Non abbiamo lan- terna né candele." Quasi a rispondergli, un lampo balenò sopra le pietre e le palme intorno a noi. "Devo dare un'occhiata" disse il signor Clemens. Notai che aveva rimes- so in tasca la pistola. Il corrispondente si avviò per il sentiero e io lo se- guii. Il reverendo Haymark brontolò qualcosa, ma venne con noi. Quando arrivammo al lato settentrionale dello heiau, il corteo si era già spostato nella foresta più avanti. Si udiva ancora il grido Kapu o moe!, ma proveniva da più lontano. Seguimmo fra gli alberi il sentiero. Fronde cadu- te dalle alte palme ingombravano il terreno. Il signor Clemens scrutò in al- to, nel buio. "Come le hanno tagliate? E perché?" "Secondo la tradizione, quando gli dèi marciano, nulla può stare sopra di loro" spiegò l'ecclesiastico. "Ma la tradizione dice pure che gli dèi in mar- cia non sono accompagnati dalla musica. Solo i capi defunti marciano al suono della musica." Nel bagliore intermittente dei lampi vidi il signor Clemens inarcare il sopracciglio. "Reverendo, per essere un uomo di chiesa lei sa un mucchio di cose sulle credenze di questi non credenti." "A Ohau ho avuto il piacere di lavorare con il signor Hiram Bingham nella stesura del suo compendio di dissertazioni etnologiche riguardanti gli indigeni delle isole Sandwich e le loro bizzarre credenze" rispose con una certa freddezza il reverendo Haymark. Il signor Clemens annuì e indicò la direzione del corteo che si al- lontanava. "Be', se non ci affrettiamo a seguirli, quel compendio di bizzar- re credenze ci lascerà indietro. Sono curioso di scoprire che cosa questi in- digeni delle isole Sandwich trovino tanto importante da uscire sotto la pioggia e bagnarsi le penne." Seguimmo il sentiero nella giungla e ogni lampo mostrava con grande chiarezza le nostre impronte sul fango intatto. Il percorso era ingombro di rami e di fronde, come se una forza invisibile avesse reciso tutto ciò che cresceva al di sopra del corteo, anche se la maggior parte degli alberi rag- giungeva i sessanta piedi e passa. Percorso un quarto di miglio a settentrione dello heiau, eravamo pronti a tornare indietro. La tempesta si era spostata verso l'entroterra e non aveva lasciato fonti d'illuminazione. Imprecai tra me per non avere preso dalle bisacce qualche candela. La luce di torce era di nuovo visibile, molto più avanti, ma a quanto pareva non riuscivamo a raggiungerla. Non si udiva più la musica. Almeno, la pioggia era quasi cessata e intorno a noi c'era so- lo lo sgocciolio delle foglie. Ero tutta bagnata, fin quasi alla biancheria. Ci eravamo fermati in una piccola radura per decidere se non fosse me- glio fare ritorno, quando un ultimo lampo lontano ci rivelò la scena intorno a noi. Da quel punto il sentiero curvava a levante e in basso, senza dubbio verso una delle poche spiagge viste dall'alto delle pendici del vulcano. At- traverso l'ultimo schermo di alberi e di cespugli, prima che il sentiero scendesse la parete di una scogliera, sulla spiaggia lontana fu visibile la lu- ce delle torce. Fu anche visibile la piccola radura dove ci trovavamo. Nel- l'erba rigogliosa erano sparpagliati rami e massi, come pure alcune noci di cocco che parevano ispide teste spiccate dal busto. Mentre pensavo a quel- la sinistra allusione, notai nell'erba una vera testa e poi vidi due livide spal- le. Credo d'avere soffocato uno strillo, proprio mentre alla luce del lampo il signor Clemens mostrava un'espressione di sorpresa e metteva in tasca la mano per impugnare la pistola. Intorno a noi nella radura c'erano almeno sei cadaveri nudi, tutti irrigiditi nelle penose posture della morte. Il lampo svanì. Scese di nuovo l'oscurità della giungla, non mitigata dal luccichio delle stelle né dal lontano bagliore del Kilauea, coperto da nubi tempestose in movimento. In quell'attimo, nel buio, udii il signor Clemens imprecare a qualche iar- da da me, udii il reverendo Haymark schiarirsi la gola qualche iarda più in là e sentii chiaramente una gelida mano stringermi la caviglia nell'alta er- ba. Fu una fortuna, pensò più tardi Eleanor, che Cordie Stumpf non avesse fatto fuoco contro i passi nel buio. Eleanor era di sicuro spaventata al pun- to da sparare, se avesse avuto una pistola puntata contro chi o che cosa ve- niva verso di loro nelle catacombe. Un giovanotto alto, con un costoso completo e capelli lunghi ben raccol- ti in una coda, entrò nel cerchio di luce. Cordie abbassò la pistola. — Signor Dillon! — esclamò il giovanotto e si accostò in fretta a Paul Kukali che sorreggeva il capo della sicurezza ferito, tenendolo in piedi contro la parete. Il giovanotto passò la mano davanti agli occhi sbarrati di Dillon, senza ottenere reazioni. Guardò gli altri. — Cos'è accaduto? — Non sappiamo — rispose Paul. — Passavamo di qui, quando è man- cata la luce. — E lei chi è? — domandò Cordie Stumpf al giovanotto. Rimise nella borsa di paglia la pistola. — Will Bryant. Sono il direttore generale del signor Trumbo. Lei è la vincitrice del concorso... la signora Stumpf, giusto? Cosa ci fa con quel re- volver? Cordie sorrise. — Provi a immaginarlo, signor Bryant. Non è questo il posto dove gli ospiti spariscono come tartine a un cocktail party? Will Bryant brontolò qualcosa e si rivolse a Paul: — Mi aiuta a portare di sopra Dillon? — Certo, ma... — In quel momento tornò la luce. Cordie socchiuse gli occhi e spense l'accendino. — ... l'infermeria del personale è qua sotto — terminò Paul. Bryant scos- se la testa. — Per un poco chiuderemo i tunnel di servizio. Porteremo Dil- lon al gabinetto medico per gli ospiti, nella Grande Hale. — Quello ha bisogno di un ospedale — disse Cordie. Will Bryant e Paul presero per le braccia il capo della sicurezza e lo res- sero in piedi. Dillon non protestò e neppure mostrò interesse nella mano- vra. — Sì, ma prima lo visiterà il nostro medico — disse Bryant. — Il signor Dillon ha detto cos'è accaduto? — Non ha detto una parola — intervenne Eleanor. Indicò il corridoio e la porta spalancata con la targa DIRETTORE ASTRONOMIA. — Veniva da lì. Will Bryant annuì. — Dottor Kukali — disse a Paul — può reggerlo un momento? — Percorse il corridoio, diede un'occhiata nell'ufficio dell'astro- nomo, chiuse lentamente la porta e tornò indietro. — Andiamo pure — disse, mettendosi intorno alle spalle il braccio di Dillon. Il corridoio si riempì di persone uscite dalla lavanderia e dal panificio, che si spintonavano verso l'uscita. — È tutto a posto — annunciò Bryant, facendosi riconoscere. — I capisquadra facciano rapporto nell'ufficio del signor Carter. Gli altri hanno la notte libera. — Ci furono esclamazioni di sollievo, mentre tutti sparivano su per le scale e per la rampa che portava nella Grande Hale. — Quando è mancata la luce ero nel corridoio principale — diceva Will Bryant, mentre facevano entrare Dillon nell'ascensore della Grande Hale. — Ho visto il tremolio della sua luce e sono venuto da quella parte. Non volevo spaventarla. — Non mi ha spaventata proprio — disse Cordie. — Penso che dovrebbe lasciare l'arma in custodia fino alla partenza. E contro la legge e contro la prassi dell'albergo che gli ospiti portino armi na- scoste. Cordie emise un borbottio. — Scommetto che è pure contro la prassi dell'albergo che i cani portino in giro mani di persone e che il pezzo grosso della sicurezza sia fatto a brandelli, no? Will Bryant non replicò. — La pistola me la tengo — disse Cordie. — Se al signor Trumbo la co- sa non piace, gli dica per favore che può baciarmi il culo. Bryant le rispose con un pallido sorriso. — Siamo arrivati — annunciò poi. Aiutarono Dillon a uscire dall'ascensore e lo accompagnarono in un corridoio a piastrelle fino alla suite medica. Bryant aveva già avvisato via radio il dottor Scamahorn, che aspettava nel vestibolo. — Grazie per l'aiuto — disse Bryant alle due donne. — Dottor Kukali, le dispiace aspettare un momento? Devo parlarle. Paul guardò Eleanor. — Stavo per accompagnare la signora Stumpf in camera sua e la signorina Perry nella sua hale. — Non abbiamo bisogno della scorta — disse Cordie. Si mise in spalla la pesante borsa. — Ci dia l'ombrello omaggio. Accompagno io Eleanor alla capanna. Eleanor stava per protestare che nemmeno lei aveva bisogno di scorta, ma capì dal tono che Cordie voleva parlarle in privato. Attraversarono in- sieme l'atrio aperto della Grande Hale, scesero la scalinata passando da- vanti al Belvedere delle Balene e presero il sentiero che portava alla spiag- gia. La tempesta era scemata notevolmente d'intensità, cadeva solo una pioggerella. Dietro di loro, la Grande Hale era uno splendore di luci: il sentiero era illuminato da torce a gas e da lampade elettriche poste a poca distanza da terra lungo i lati. Eleanor e Cordie seguirono in silenzio il sen- tiero che serpeggiava fra la vegetazione tropicale a sud del Bar del Relitto, passando davanti alle hale buie. La luce della veranda della hale di Eleanor si era accesa automaticamente, ma dalle persiane non filtrava luce. Eleanor girò la chiave e si voltò per dire: — Volevi... Col dito sulle labbra Cordie le intimò di tacere, estrasse la pistola, spinse da parte Eleanor ed entrò nella hale, accendendo nello stesso tempo le luci. L'attimo dopo disse: — Entra pure. Non volevo fare scena, ma oggi ne so- no successe di tutti i colori. Se qualcosa doveva saltare addosso a qualcu- no, tanto valeva che saltasse addosso a chi portava una pistola. Eleanor le passò davanti e accese anche le luci accanto al letto. La hale era piccola, ma aveva un'aria comodissima ed era in ordine come lei l'ave- va lasciata ore prima. Anzi, più in ordine: qualcuno aveva rifatto il letto e lasciato un fiore sul guanciale. Eleanor raccolse il fiore e indicò a Cordie di accomodarsi sulla sedia di vimini di fianco alla piccola scrivania, accan- to alla finestra con le persiane. Occupò l'altra sedia e depose il fiore sulla scrivania. — Volevi parlarmi? — Già — disse Cordie. Mise via la pistola e dalla borsa tolse una botti- glia. La posò sulla scrivania, fra loro due, andò in fondo al breve corridoio e prese dalla credenza due bicchieri. — Sheep Dip — disse Eleanor, leggendo l'etichetta. — È davvero un "bagno disinfettante per le pecore"? — Puoi giurarci, maledizione — disse Cordie, posando sulla scrivania i bicchieri e lasciandosi cadere sulla sedia. — È uno scotch di puro malto, invecchiato otto anni, distillato in Inghilterra. Lo bevi, il whisky? Eleanor annuì. Durante un viaggio in Scozia aveva apprezzato i whisky di puro malto e quando frequentava un amico pilota, anni prima, aveva manifestato una propensione per i whisky costosi. Non aveva mai sentito nominare quella marca. — Lo Sheep Dip e il Pig's Nose sono i miei preferiti — disse Cordie. — Migliori del Glenlivet e delle altre marche più reclamizzate. — Versò tre dita di whisky e porse a Eleanor un bicchiere. — Niente ghiaccio? — disse Eleanor. — Niente acqua? — In un puro malto? — sbuffò Cordie. — No no. Alla salute, Nell. Bevvero tutt'e due. Eleanor sentì che il liquido vellutato si apriva un cal- do sentiero verso il suo stomaco. Annuì. — Di cosa volevi parlare? Cordie si appoggiò alla spalliera e per un momento guardò dalle persia- ne la vegetazione che pareva soffocare la finestra. Poi si girò, alzò il bic- chiere e disse: — Sono pronta a parlare del perché siamo venute qui. Non le stronzate, ma le vere ragioni. Eleanor la guardò per qualche istante. — D'accordo — disse poi. — Co- mincia tu. Cordie ingollò whisky e sorrise. — Le mie ragioni sono abbastanza stu- pide. Ritrovare in parte la mia fanciullezza, immagino. Eleanor rimase sorpresa. — La tua fanciullezza? Cordie rise. — Ho avuto una fanciullezza insolita, si potrebbe dire. In una parte di essa c'è stata una... una sorta d'avventura. Quando ho sentito parlare delle cose bizzarre che accadevano qui al Mauna Pele... be', forse ho pensato di poter avere altre avventure. Eleanor annuì. — Ma hai scoperto di non poter più tornare a casa. — Thomas Wolfe — disse Cordie e riempì di nuovo i bicchieri. Alzò gli occhi, notando l'espressione sorpresa di Eleanor. — Be', forse ho letto an- ch'io qualcuno dei Grandi Libri. E... sì, hai ragione, non è la stessa cosa. Ma questo non è l'unico motivo... — Si interruppe e fissò il contenuto del bicchiere. — E allora? — domandò piano Eleanor. — Fin da ragazza ho lavorato molto duramente — disse Cordie Stumpf, facendo girare nel bicchiere il liquido ambrato. — Vedi, sono cresciuta vi- vendo praticamente in una discarica, perciò era quasi logico che il mio primo lavoro consistesse nel guidare un camion per la raccolta della spaz- zatura, a Peoria. Ho sposato il padrone dell'impresa. — Esitò un momento. — Quando lui morì, subentrai negli affari e il mio secondo marito sposò me a causa dell'impresa. Insieme la ingrandimmo. Quando divorziammo, Hubie si prese la casa e una grossa fetta dei soldi; io tenni l'impresa. Il mio terzo marito... be', aveva una sua impresa di smaltimento rifiuti... si po- trebbe dire che è stata una sorta di fusione. — Sorrise, prosciugò il bic- chiere, versò altro Sheep Dip. — Forza, Nell. Sono molto più avanti di te. Eleanor bevve e ascoltò. — Be', negli ultimi anni, con i figli già cresciuti, pareva che la vita fosse solo mandare avanti l'azienda. Sai cosa voglio dire? Eleanor annuì. — Tre mesi fa ho venduto l'azienda. Poi, due mesi fa, ho scoperto di a- vere un tumore. Alle ovaie. Hanno detto che bisognava asportarle. Ho ri- sposto: "Fate pure... ormai non mi servono più". E mi hanno operata. — Ahhh — disse Eleanor. Cordie si sfregò il labbro inferiore, poi col dito lisciò il bordo del bic- chiere. — Mi sono ripresa molto in fretta dall'operazione. Ho sempre avuto un fisico robusto. Dissero che pensavano d'avermi tolto tutto. Pensavano che avrei battuto le probabilità. Poi ho vinto questo concorso Vacanza con i Miliardari e ho creduto che la fortuna fosse ancora dalla mia. Lo stesso giorno sono andata a fare la visita di controllo e il mio medico ha detto che purtroppo il tumore si era diffuso. Questa settimana dovevo iniziare la chemio e la radioterapia, ma ho ottenuto di rimandare di una settimana per venire qui. Nella luce soffusa Eleanor guardò l'altra donna. Sapeva quanto poco fos- se favorevole la prognosi per pazienti affette da tumore alle ovaie, una vol- ta che il tumore si fosse diffuso. Sua madre era morta di quello. — Dio lo maledica — disse con sollecitudine e bevve le ultime gocce di Sheep Dip. Cordie annuì e gliene versò ancora tre dita. — Così quasi speravo che al Mauna Pele ci fosse davvero un mostro — continuò Cordie. — O almeno una sorta di squartatore. Sai, qualcosa di spaventoso, ma... esterno! Qualcosa da poter combattere come ho... be', qualcosa da poter combattere. — Sì — disse Eleanor. — Sai, oggi, quando guardavo questo posto, pensavo... perché non fare un ospedale così per i malati di tumore, in modo che si curino in tranquilli- tà e recuperino sulla spiaggia? La maggior parte degli ospedali che cono- sco è come quello di Chicago in cui devo andare... prigioni sotto la neve. — Vuoi dire un albergo di lusso che faccia da ospizio? Cordie scosse la testa. — Ospizio? No no, gli ospizi sono posti dove mo- rire mentre gli specialisti della morte ti dicono a quale stadio dovresti esse- re arrivata, no? Hai avuto il tuo rifiuto, ora passa all'accettazione, figliola, ci sono altri che aspettano. Be', merda agli ospizi. Parlo di un ospedale per malati di tumore, dove puoi aspettare che ti cadano i capelli e intanto ti prendi l'abbronzatura, ecco. Eleanor annuì e scostò le veneziane. Fuori le foglie sgocciolavano anco- ra. L'odore di giungla bagnata era sensuale e un po' triste. — Sarebbe co- stoso — disse. — Diventerebbe un ospedale per ricchi. Cordie rise. — Nooo. La malattia è costosa! Non crederesti a quanto ammontano le merdose fatture d'ospedale. Questo posto costerebbe solo il prezzo del biglietto aereo... e forse ci sarebbero delle agevolazioni... come le borse di studio per far venire qui i poveracci. Lotterie per malati di tu- more. Qualcosa del genere. Eleanor tese il bicchiere per farselo riempire. Lo scotch si era diffuso dentro di lei come fiamma lenta. — Penso che il signor Trumbo abbia altre idee. Pare che i giapponesi erediteranno questo pezzo di terra. — Già. — Cordie si strofinò di nuovo il labbro. — Proprio ciò che serve al mondo, altri circoli per il golf. — A un tratto alzò la testa. — Nell, sei mai stata innamorata? Eleanor rimase sorpresa, ma cercò di non mostrarlo. — Sì — rispose. Non si offrì di dilungarsi. Cordie annuì lentamente, come soddisfatta della semplice risposta. — Anch'io. Una volta. Oh... ho amato la gente. Due dei miei tre mariti. Tutti i miei figli. Una sorta d'amore che c'è o non c'è. Ma sono stata innamorata una volta sola. Quando ero ragazzina. — Rimase in silenzio per alcuni se- condi e l'unico rumore fu lo sgocciolio della pioggia dalle fronde di palma all'esterno. — Credo che lui non l'abbia mai saputo — disse infine. — Non gliel'hai mai detto? — domandò Eleanor. Sorseggiò lo scotch. — No no. Anche lui era un ragazzino nella piccola città dove vivevamo. Andò in Vietnam, fu ferito gravemente e si fece prete. Cattolico. Il tipo che non si sposa e non scopa. — Oh — disse Eleanor. "Non guardi i titoli dei giornali" avrebbe voluto dirle. "Ci sono sempre state più scopate di quante non avremmo immagina- to." Invece disse: — Gli hai mai parlato, dopo che si è fatto prete? — No — rispose Cordie. — Non sono neppure tornata in quella città. Mi hanno detto che qualche anno fa ha lasciato la tonaca e si è sposato, ma non importa, vero? La ragione per cui ne ho parlato è che nelle ultime set- timane ho pensato tutte le cose che pensa la gente con un tumore termina- le. Occasioni perdute... vite sprecate... tutta questa merda. — La tua vita non è stata sprecata — disse Eleanor. — Maledettamente giusto — convenne Cordie. — I miei figli sarebbero d'accordo con te. Allevarli mentre mandavo avanti l'azienda mi ha tenuta impegnata. — Posò il bicchiere vuoto. — Bene, Nell, e tu? Perché sei ve- nuta qui? Eleanor rigirò fra le dita il bicchiere. — Non credi che sia venuta qui so- lo per una vacanza? Cordie scosse la testa, facendo ondeggiare i capelli lisci e flosci. — So- no sicura che non sei venuta qui solo per una vacanza. Non sei il tipo che a tempo perso frequenta i megacomplessi turistici. Direi che sei più abituata a fare trekking in Nepal e le stronzate ecoturistiche sul Rio delle Amazzo- ni. Eleanor ridacchiò. — L'accusata si dichiara colpevole. Trekking nel Ne- pal due anni fa e stronzate ecoturistiche in Amazzonia nell'87. — E allora? — Cordie versò nei bicchieri le ultime gocce di Sheep Dip. — Perché sei qui? Eleanor prese dalla borsa il diario di zia Kidder e lo posò con cura sul piano della scrivania, evitando le tracce d'umidità. Con due dita lo spinse verso Cordie. Cordie esitò. — Posso aprirlo? — Sì — disse Eleanor. Guardò l'altra pescare dalla borsa un paio d'oc- chiali e sfogliare le pagine del vecchio diario, leggendo all'inizio una paro- la qua e là, poi paragrafi interi. Cordie fischiettò piano. — Questa roba si collega a un mucchio delle as- surde stronzate che accadono adesso. — Sì — confermò Eleanor. — Questa Lorena Stewart — disse Cordie. — È una persona importante che dovrei conoscere? Che so, la seconda moglie di Abe Lincoln o qualco- sa del genere? Eleanor rise di gusto. — No, non così importante, anche se scrisse alcuni meravigliosi libri di viaggi oggi in pratica dimenticati. Lorena era una mia lontana parente. Col passare degli anni, tutti la chiamavano Kidder per il suo umorismo e perché portava sempre guanti bianchi di capretto. Cordie toccò gentilmente il libro, con la punta delle dita. — Allora per- ché sei qui? Eleanor esitò: per quanto un po' intontita dal whisky, era stupita di parla- re di quella storia. — Ci sono parecchi misteri in quel libro — disse infine. — Il mistero più facile... il mistero esterno... di ciò che zia Kidder scrisse. E il mistero più difficile, il motivo per cui non sposò Samuel Clemens. — Samuel Clemens — disse Cordie. — Sarebbe Mark Twain, giusto? — Sì. — Una volta sono stata a Hannibal. Una graziosa cittadina fluviale. — Sì, ci sono stata anch'io — disse Eleanor. Ma non aggiunse: "Una volta ogni due anni. Per visitare la casa dove lo scrittore visse da bambino e il polveroso museo, come se lì ci fosse qualche indizio che spieghi la de- cisione presa da zia Kidder". — E Mark Twain voleva sposare questa Lorena Stewart? — Be'... — Eleanor esitò di nuovo. — Puoi leggerlo, se ne hai voglia. — Da quando (aveva dodici anni a quel tempo) zia Beanie le aveva dato quel diario... il talismano... non l'aveva condiviso con nessuno, non l'aveva pre- stato a nessuno. Cordie annuì lentamente, come se capisse. — Grazie, Nell. Lo leggerò stanotte e te lo renderò domani, sano e salvo. Eleanor guardò l'ora. — Oddìo, è l'una passata. Cordie si alzò, si tenne in equilibrio sostenendosi con una mano alla scrivania, mise nella borsa il diario. — Be', non importa — disse. — Sia- mo in vacanza. — Non mi piace che torni da sola nella Grande Hale. — Perché? — disse Cordie Stumpf. — Non piove più. — Sì, ma... Ci sono... — Mostri — terminò Cordie e ridacchiò. — Me lo auguro. Maledizione, me lo auguro davvero. — Tirò fuori il revolver, lo soppesò, lo mise di nuovo nella borsa e si diresse alla porta. — Ci vediamo domani, Nell. Non stare in pensiero per il diario di zia Kidder. Se qualcuno lo vuole, deve prima prendere me. — Ci vediamo domani — le gridò Eleanor, mentre Cordie scompariva nella giungla, oltre la curva del sentiero. 15 Rocce spaccate dal fuoco colpiscono il sole; fuoco si riversa nel mare a Puna; il mare luminoso a Ku-ki'i. Gli dèi della notte alla porta orientale, gli alberi scheletrici che si stagliano. Qual è il significato di questo? Il significato è desolazione. Canto di Hi' iaka a Pele Erano ormai le cinque passate, quando Byron Trumbo andò a letto, la- sciandosi cadere accanto a Maya per dormicchiare un'ora, prima di alzarsi e di fare la doccia. Alle sette aveva una colazione di lavoro con il gruppo Sato. La scena alla baracca era stata degna di quelle della sua fantasia da ado- lescente. Bicki l'aveva accolto sulla porta, nuda, e gli era saltata addosso ancora prima che Trumbo chiudesse l'uscio e tirasse gli scuretti. La vasca d'acqua calda gorgogliava sulla veranda rivolta al mare e Trumbo aveva portato dì peso alla vasca la minuscola stella rock e l'aveva gettata dentro, svestendosi per unirsi a lei. Bicki l'aveva tirato nella vasca prima che lui si fosse tolto i boxer. Trumbo non sottovalutava mai la propria libido o la propria resistenza, ma novanta minuti di passione con Bicki subito dopo la sera con Maya e la giornata faticosa l'avevano stremato al punto che si sarebbe lasciato volen- tieri scivolare sul fondo della vasca d'acqua calda e gorgogliante. Alla fine però si era districato, si era vestito, aveva raccontato a Bicki la storia di Caitlin che cercava di sabotare l'affare con Sato... tempo sprecato, con la giovane cantante: Bicki non mostrava il minimo interesse per gli affari di Trumbo... e aveva tentato di persuaderla a partire al mattino. — Ufff — disse la ragazzina, mettendo il broncio. — Sono appena arri- vata. — Drappeggiò la lunga gamba color caffè sopra un guanciale troppo grande. — Ti ho fatto una sorpresa, T? — Mi hai fatto una sorpresa — disse Trumbo, abbottonandosi la camicia hawaiana. — E non chiamarmi T. — Va bene, T — disse Bicki. — Non ti chiamerò T. Perché vuoi che me la batta? Trumbo esitò. Bicki era di Selma, nell'Alabama, e a lui di solito piaceva il suo modo di parlare tipico degli Stati del Sud, usato senza imbarazzo. Quella notte invece ne era irritato, proprio come si era irritato per la male- detta cadenza della Nuova Inghilterra di Caitlin e per la falsa inflessione inglese di Maya. Per giunta, nel culmine della passione, aveva dimenticato il suo maledetto vezzo: aveva baciato Bicki ed era quasi schizzato fuori dalla vasca, incontrando con la lingua le minuscole palline metalliche. — Mi distrai, bambina — disse infine. — Devo essere perfettamente lucido per la trattativa. Bicki spostò su e giù per il guanciale la coscia. — Non m'interessa la tua lucidità, T. La cosa è reciproca, pensò Trumbo. — Lo so, bambina, ma questo è un affare delicato. Bicki gli accarezzò la coscia. — Ma anch'io sono brava in cose delicate, T. Trumbo le intercettò le dita, le baciò, prese da terra la radio e la Browning 9 mm., andò alla porta. — Faccio un salto in mattinata, bambi- na. Ma domani torni ad Antigua. — Almeno, si disse, Bicki preferiva dor- mire da sola. — Domani — disse Bicki, con la strascicata cadenza del Sud — è un al- tro giorno. Trumbo esitò alla porta, scosse la testa, poi trotterellò sotto le ultime gocce di pioggia verso il golf cart... e sobbalzò di brutto, cercando la pisto- la, nel vedere una figura nera come la notte sbucare dalla giungla e avanza- re verso di lui, come librata a mezz'aria. — Merda — disse, rimettendo con dita tremanti la Browning nella fon- dina alla cintura. — Volevi spaventarmi? — Mi scusi, signor Trumbo — disse Lamont Fredrickson. Il vicediretto- re della sicurezza, afroamericano, era vestito tutto di nero. Trumbo si era dimenticato di avere dato ordine, quasi un'ora prima, che Fredrickson lo aspettasse lì fuori. Lanciò un'occhiata alle finestre con gli scuretti alzati, dalle quali Bicki era più che visibile, distesa sul letto in una pozza di luce giallastra. — Ti piace lo spettacolo? L'uomo della sicurezza ebbe il buonsenso di non rispondere e di non sogghignare. — Novità su Dillon? Fredrickson toccò l'auricolare e si strinse nelle spalle. — Il signor Bryant non ne ha parlato. — Briggs? — Non ho sentito niente. Trumbo sospirò. — Va bene. Ecco cosa devi fare. Se Dillon è fuori cau- sa, prendi il comando della sicurezza. — Sissignore. — Il tuo primo dovere è di badare che Sato e i suoi ragazzi non siano ammazzati da chi ci massacra clienti e personale. — Sissignore. — Il tuo secondo dovere è di badare che la signora Richardson e la si- gnorina nella baracca stiano bene e che si tengano lontane l'una dall'altra e dalla mia ex moglie. Capito? — Sissignore. — Come terza cosa, tieni il più possibile fuori vista i tuoi uomini. Sato non deve pensare che questo posto sia un campo paramilitare. E non dire "Sissignore". — Sissignore. Ah, volevo dire... — Fredrickson annuì. — Quarto, trova gli stronzi che se la pigliano con i nostri e fermali. Hai capito cosa intendo? — Lavorare con la polizia e i federali, signore? Trumbo scimmiottò il tono dell'altro. — No, non intendo "lavorare con la polizia e i federali, signore". Intendo: fermarli! Farli fuori. Fredrickson corrugò la fronte. — Sissignore. Ah, signor Trumbo... non dovrebbe esserci una quinta priorità? Cioè, la prima, in realtà. — Di che cazzo parli? — Trumbo intanto si era sistemato nel golf cart: il sedile era bagnato. Accese il motore e si girò a scrutare a occhi socchiusi in direzione della Grande Hale, visibile come un bagliore di luci sopra le palme, dall'altra parte della curva della baia scura. Là dentro probabilmen- te Caitlin era a letto con quella sanguisuga di Myron Koestler. — Parlo di lei, signore — disse Fredrickson. — Se il signor Briggs è scomparso, chi le guarderà le spalle? Trumbo sospirò. — Me le guardo da solo. Pensa solo a tenere gli occhi aperti, tu e i tuoi. — Lasciò l'uomo della sicurezza lì sotto la pioggia e tor- nò da solo all'edificio principale attraverso la giungla accuratamente dise- gnata del "Sud 40", dove le hale meno care se ne stavano buie e silenziose sui loro trampoli, al di là della piccola piscina e della piscina più grande e del Bar del Relitto, poi su per il tortuoso sentiero, passando davanti al Bel- vedere delle Balene ed entrando nel ventre della Grande Hale. Will Bryant lo incontrò nell'atrio principale. — Come sta Dillon? — domandò Trumbo. — Qualche taglio abbastanza grave, una clavicola rotta, segni di denti fino all'osso nell'avambraccio. Il dottor Scamahorn dice che è in stato di choc. — Segni di denti? — Trumbo si fermò un momento accanto all'ascenso- re. — Quali denti? Will Bryant scosse la testa. — Dillon non l'ha detto e il dottor Scama- horn non sa dirlo. Grossi denti. — Grossi denti — ripeté Trumbo. — Magnifico. Dov'è Briggs? — Pare che qualcosa l'abbia trascinato nel tunnel. Il signor Carter e io, con due uomini, siamo andati a vedere, ma non abbiamo... — Un momento, un momento. Quale tunnel? — Erano nell'ascensore di- retto all'ultimo piano. — Quello dietro la parete dell'ufficio dell'astronomo. Si ricorda? Ha det- to a Briggs e a Dillon di controllarlo. — Già, ma non gli ho detto di farsi portare via né di finire divorati. — Uscirono dall'ascensore e percorsero rapidamente il corridoio verso la Suite Presidenziale. — Così Dillon è fuori gioco, Briggs è scomparso in quel cazzo di tunnel e noi accumuliamo nell'infermeria come legna da ar- dere testimoni sotto sedativo di tutta questa merda. — Proprio così — disse Will Bryant. — Il dottor Hastings ha chiamato di nuovo, ma gli ho detto che lei non era disponibile. — Amen — disse Trumbo. Salutò con un cenno Bobby Tanaka e gli al- tri nel soggiorno della suite e andò in camera da letto a cambiarsi, calzoni larghi e maglietta polo. — Ma Hastings ha detto che la colata di lava si sposta lateralmente. È preoccupato in particolare per i gas... — Gli unici gas di cui mi preoccupo — disse Trumbo — sono quelli che fa uscire Hastings quando apre bocca. È pronto il contratto modificato? — Bobby e io lo stavamo rileggendo. — Bene. Alle sette ci incontriamo con Hiroshe e con quello stronzetto di Inazo Ono; voglio arrivare ai caratteri in piccolo. — Ono è un duro nelle trattative — disse Will. Byron Trumbo gli mostrò tutti i denti. Alle sei e mezzo Trumbo uscì dalla doccia nel Bungalow Samoano di Maya. Da sotto le lenzuola la modella lo scrutò a occhi socchiusi. — Cosa sono queste bambinate? — Non faccio mai bambinate, bambina — rispose Trumbo. — Oggi è un grande giorno. — Perché, oggi cosa succede? — Be', per prima cosa te ne torni al tuo lavoro di modella a Chicago. — Il mio prossimo impegno è a Toronto. — D'accordo, te ne torni a Toronto. — Non credo. — Credo proprio di sì. Maya si alzò senza la minima traccia di pudore e andò, nuda, alla porta- finestra della veranda rivolta a est. La luce del sole le indorò la pelle per- fetta. — Ti ripeto la domanda, Byron. Cosa succede oggi? Trumbo la baciò sulla nuca. — Tutto — rispose. Le passò davanti e uscì. Non immaginava quanto si sarebbe rivelata esatta quella risposta. 17 giugno 1866, sulla costa Kona Quando la mano mi afferrò la caviglia, non urlai. Il signor Clemens ave- va estratto il revolver; lo udivo imprecare sottovoce e muoversi dalla mia parte nel buio, ma dissi: "No! Resti dov'è!". Mi chinai nell'erba bagnata, aprii con gentilezza le dita strette intorno alla mia caviglia e seguii la liscia curva del braccio fino alla spalla. "Reverendo Haymark" dissi piano "ha una luce?" Non avevamo portato candele, ma udii uno strofinio e poi vidi il guizzo di una fiammella, mentre il reverendo accendeva un fiammifero antivento e si dirigeva in fretta verso di me. L'indigeno disteso ai miei piedi perdeva sangue da un taglio nel cuoio capelluto e batteva le palpebre per il dolore. Era poco più d'un ragazzo... anzi, era proprio un ragazzo. Completamente nudo. "Dobbiamo portarlo nella capanna" dissi a bassa voce. Le torce dello spettrale corteo erano a qualche centinaio di iarde, ma non avevamo modo di sapere se qualcuno era rimasto indietro. "E gli altri?" "Morti, purtroppo" annunciò il signor Clemens. Nel fioco bagliore del secondo fiammifero del reverendo Haymark era passato da un corpo all'al- tro e aveva controllato ogni cadavere, con uno spirito pratico che pareva smentire quel che ci aveva raccontato del suo servizio militare. "È stato colpito da una pietra o da un'arma smussata" disse il signor Clemens, pas- sando la mano sul cranio del ragazzo che gemeva. Si rivolse a me: "Ha ra- gione. Dovremmo portarlo nella capanna, così potremo esaminare la ferita a lume di candela". Poi si rivolse al reverendo Haymark: "Riesce a traspor- tarlo da solo?". Il corpulento ecclesiastico mi passò gli ultimi fiammiferi e io ne accesi uno, in tempo per vedere che sollevava con facilità il ragazzo. Guardai il signor Clemens. "Lei non viene con noi?" Con occhi che brillavano, il corrispondente accennò allo spettrale ba- gliore. "Darò un'occhiata e tornerò presto." "Forse dovrei..." "No" m'interruppe il signor Clemens. Si girò e scomparve nel buio e nel- la pioggia. Quanto tornammo nella cadente capanna, vedemmo che i cavalli erano ancora nervosi, ma sempre impastoiati al loro posto. Nella capanna non c'era letto, né tavolo, nemmeno un giaciglio di paglia, ma il reverendo Ha- ymark posò con gentilezza il ragazzo nell'angolo più asciutto, mentre io accendevo due candele e cercavo nelle bisacce un panno pulito da utilizza- re come benda. Presi il posto del reverendo accanto al ragazzo, pulii con acqua piovana la ferita come meglio potevo, tamponai il sangue e legai in- torno alla testa del ragazzo una striscia strappata da una mia sottoveste di cotone. Alzai gli occhi e vidi che il reverendo Haymark si toglieva la giub- ba. "Cosa c'è, signore?" domandai. "Se la sua nudità la offende..." disse l'ecclesiastico, arrossendo e porgen- domi la giubba come un'offerta. L'allontanai con un gesto. "Sciocchezze. È un figlio di Dio. L'innocenza non offende mai." Il reverendo Haymark si rimise la giubba e guardò fuori nella notte: la pioggia era cessata, ma il vento sferzava ancora le palme. "Non sono sicu- ro che ci sia molta innocenza, in questi eventi." A quel punto il ragazzo riprese conoscenza. Sulle prime gemette e bor- bottò qualcosa nella sua lingua, ma quando mise a fuoco gli occhi su di noi, passò a un inglese passabile. Si chiamava Halemanu ed era stato bat- tezzato nella Ora loa ia Jesu, ossia "La vita eterna in Cristo", alla missione di Kona del reverendo Titus Coan, quando aveva sei anni... ossia sette anni prima, secondo il calcolo piuttosto confuso che riuscii a strappargli. Vive- va nel villaggio di Ainepo, più a settentrione verso la baia Kealakekua, quella dove fu massacrato il capitano Cook. Nel frattempo avevamo portato al ragazzo un po' d'acqua e qualche mango; Halemanu si alzò a sedere, schiena contro la parete di paglia della capanna, e ci borbottò nel suo inglese "pidgin". Aveva occhi lucidi, forse a causa della commozione cerebrale riportata o forse per la grande paura a cui era sopravvissuto. Halemanu era andato a meridione, con lo zio e alcuni guerrieri del vil- laggio, perché il loro kahuna, o stregone, li aveva avvertiti che un grande male si agitava lungo la costa Kona vicino a Honaunau, la Città del Rifu- gio. Per Halemanu era stata la prima avventura da adulto. Il giorno precedente, cioè ieri, il gruppo aveva raggiunto il villaggio sen- za nome dove il reverendo Whister aveva costruito la sua chiesa. La chiesa era deserta. Il villaggio era deserto. Lo zio di Halemanu aveva riconosciuto i segni di esseri malvagi in libertà sulla terra. Il gruppo aveva proseguito verso meridione, con l'idea di andare in un villaggio del Kau dove lo zio di Halemanu sapeva che abitavano le Pele kahuna, donne che placavano la dea e che avrebbero capito cose come demoni in libertà sulla terra. Era scesa la notte e la pioggia aveva sorpreso il gruppo, composto di cinque uomini e del ragazzo, lontano da possibili ripari; ma pur di non rimanere in quella zona malefica, lo zio di Halemanu e gli altri avevano deciso di pro- seguire verso il Kau anche nel buio. I Marciatori della Notte li avevano trovati lì, a un miglio dal villaggio delle Pele kahuna, nelle vicinanze dell'antico heiau che si trovava proprio fuori della capanna. "Sciocchezze, ragazzo" disse il reverendo Haymark. "Sei un cristiano. Di sicuro non credi più a queste infantili superstizioni." Halemanu guardò l'ecclesiastico come se quello avesse pronunciato pa- role prive di senso. "C'erano due Ka huaka'i o ka Po" continuò. "Due gruppi, due Marciatori della Notte. Tentiamo di nasconderci, ma quelli ci sono addosso prima che possiamo andare nella a'a. Per primi vengono gli aumakua, i vecchi ali'i, capi e guerrieri tutti morti da molto tempo. I capi morti, guidati da un alo kapu, un capo morto il cui viso è stato consacrato in modo che nessuno, né uomo, né animale, né uccello, può passare davan- ti a lui senza essere ucciso. Sentiamo gli aumakua gridare 'Kapu o moe!' per avvertire i parenti in vita, ma non possiamo scappare. Mio zio, lui dice di toglierci i vestiti e di stenderci sulla schiena a occhi chiusi. Noi faccia- mo così. Gli aumakua passano, sento il flauto, sento il tamburo, sento le manele, le portantine con capi non alo kapu o akua kapu... questi futuri capi non ci uccidono per camminare davanti o camminare dietro. Sento fantasmi gridare 'Vergogna!' perché siamo nudi. Abbiamo tutti gli occhi chiusi, ma sento i capi morti dire: 'Ci umiliano perché giacciono nudi. Non toccateli!'. Poi passano i Marciatori della Notte, loro continuano a marcia- re. Ma poi sopraggiunge un altro Ka huakia'i o ka Po. Questa volta non c'è musica e nessun aumakua grida: 'Kapu o moe!'. Apro gli occhi quanto ba- sta e vedo torce... queste molto più brillanti delle altre, queste torce rosse e portate per cinque in avanti, per cinque in mezzo e per cinque in fondo, perché cinque è numero perfetto, completo... il ku a lima. Ancora prima che mio zio ci bisbiglia di stare nell'erba, so che questo Ka huakia'i o ka Po è una Marcia degli Dèi. Gli dèi giungono per sei, tre maschi, tre fem- mine... e mio zio bisbiglia che secondo lui la sorella minore di Pele, Hi'ia- ka-i-ka-poli-oPele, è in prima fila. Poi mio zio ci ammonisce di chiudere gli occhi e di stare distesi come morti." Qui Halemanu s'interruppe per bere un po' d'acqua. Nella fioca luce di candela guardai il reverendo Haymark. L'ecclesiastico aveva corrugato la fronte e scosse la testa verso di me, come per dire che dovevamo dare poco o nessun credito alla storia del ragazzo ferito. Lanciai un'occhiata al vano d'ingresso. L'acqua gocciolava dalla pencolante veranda, ma la pioggia era cessata. "Quando gli dèi passarono, non c'era musica" ripeté Halemanu. "Solo i lampi che erano le loro torce e i tuoni che erano il canto celebrativo dei lo- ro nomi e delle loro imprese. Passano davanti a noi per la stessa via seguita dai capi morti, ma gli dèi non gridano 'Vergogna!', gridano 'Uccideteli!' E i guerrieri fantasmi che camminano con gli dèi come difensori escono dalla fila e si avvicinano a ogni uomo del nostro gruppo e un dio grida 'Colpi- sci!'. E l'uomo salta su dall'erba, ma il guerriero fantasma lo colpisce col suo randello fantasma. Alla fine gli unici in vita siamo io e mio zio. Mio zio mi bisbiglia: 'Halemanu, non fuggire quando gridano: «Colpisci»'. Al- lora il dio grida: 'Colpisci!'. Quando il difensore viene da mio zio, mio zio non scappa, ma il guerriero fantasma prende il randello e lo colpisce u- gualmente in testa. Poi il guerriero fantasma viene da me e il dio grida: 'Colpisci!' e..." "Come sapevi che erano fantasmi e dèi?" lo interruppe il reverendo Ha- ymark. Halemanu batté le palpebre. "Gli dèi sono altissimi" disse. "Con la testa quasi toccano la cima delle palme da cocco. I fantasmi sono molto più bas- si, ma alti anche loro... forse sette piedi. E con i piedi non toccano il suo- lo." Il reverendo Haymark borbottò qualcosa. "Continua, Halemanu" dissi io, senza smettere di ripulirgli con un panno bagnato la fronte insanguinata. "Racconta cos'è accaduto quando il dio ha gridato: 'Colpisci!'." "Il guerriero fantasma alza il bastone per colpire. Anche se mio zio è morto perché non è scappato, io faccio come ha detto lui e non scappo. Poi uno degli dèi, una femmina, grida: 'No! Lui è mio!'. Il guerriero fantasma non trattiene il bastone, ma lo sposta in modo da colpirmi solo di striscio. La dea grida di nuovo: 'No! Lui è mio!'. E il difensore va via con gli dèi. Cerco di svegliare mio zio, ma vedo che la pioggia cade nei suoi occhi e lui non muove le palpebre. Pure tutti gli altri sono morti. Poi non ricordo, finché non vedo il lampo e la dea nani wahine sta sopra di me, nella sua nui muumuu. Io tocco la tua gamba per ringraziare. Ma tu non sei la dea che mi ha risparmiato, no?" "No, Halemanu, non sono una dea" risposi. "E tu devi riposare." Il ragazzo mi tirò per la manica. "No, non dobbiamo restare qui! Gli dèi e i capi morti sono qui perché Pana-ewa e i moka salgono da Milu. La so- rella di Pele, Hi'iaka, e altri dèi e gli hakuna sono qui per erigere un nuovo heiau e combattere Pana-ewa. Combatteranno una terribile battaglia. Pana- ewa ha molti corpi. Lui divora l'anima dei wahine. Se state qui, morite tutti prima che sorge il sole." In quel momento alle nostre spalle ci fu uno schianto; il reverendo Ha- ymark e io ci girammo di scatto e vedemmo una figura varcare in un lam- po il vano della porta e crollare al suolo, abbattendo e spegnendo una delle due candele. Si trattava del signor Clemens, più scarmigliato del solito, con gli occhi sbarrati e gli abiti inzaccherati. "Signorina Stewart!" cominciò, con voce davvero scossa. "Signorina Stewart!" ripeté. "È ferito, signore?" domandai, inginocchiandomi accanto a lui come po- chi minuti prima mi ero inginocchiata accanto al ragazzo. "No, non sono ferito, signorina Stewart. Ma ho visto..." Non terminò la frase e proruppe in una curiosa risata. "Cos'ha visto, signor Clemens?" Allora mi prese per le spalle e mi trasse più vicino. Confesso d'avere provato un moto d'allarme, oltre a un bizzarro senso d'esaltazione per l'i- natteso contatto. "Ho visto cose mirabili, signorina Stewart. Cose mirabili!" Malgrado avesse fatto le ore piccole e contribuito a scolare la bottiglia di Sheep Dip, Eleanor si svegliò alle sette e mezzo, con solo una traccia di mal di testa. Una sbronza di scotch aveva il vantaggio di lasciare scarsi po- stumi. Invece di andare nella lanai della prima colazione o al caffè sulla spiag- gia, Eleanor usò la piccola caffettiera in dotazione alla hale e si preparò il caffè, mentre indossava abiti adatti al jogging. Il fatto che il complesso tu- ristico dotasse ogni hale di macinino e di confezioni di caffè Kona in gra- ni, pensò, era un tocco simpatico. Bevve una tazza di caffè sulla piccola veranda. Uccelli cinguettavano e svolazzavano tra le palme; pavoni pas- seggiavano impettiti nel sentiero in basso; da ovest i frangenti si facevano sentire attraverso il sottile schermo di verzura; a est, sopra i densi campi di a'a che iniziavano a pochi metri dalla hale, il cielo era azzurro. Eleanor scorgeva a sud una striscia di foschia, ma il cielo sopra la dorsale del Mauna Loa era sereno. Lasciato nel contenitore termico il resto del caffè, come incentivo, Elea- nor si allontanò dalla hale e cominciò a fare jogging, lentamente, verso sud lungo il sentiero, passando davanti ai laghetti artificiali e alla piscina più piccola e alla quattordicesima buca, diretta al campo di petroglifi. In quat- trocento metri oltrepassò l'oasi artificiale d'alberi e arbusti, seguì il tortuo- so sentiero fra massi di a'a alti come persone, di tanto in tanto colse rapide visioni di figure dipinte e di fori piko. A un certo punto il sentiero si spostò più vicino alle scogliere e Eleanor sentì il rinfrescante tocco degli alti spruzzi che salivano a dieci metri dagli scogli in basso. Tutt'intorno danza- vano arcobaleni. Dopo altri quattrocento metri il sentiero terminava: un cartello avvertiva gli ospiti che quello era il limite di proprietà del Mauna Pele e che sarebbe stato pericoloso inoltrarsi ancora nei campi di lava. Ele- anor si fermò per qualche istante nella piazzola asfaltata, notò un rozzo sentiero di cenere che serpeggiava fra i massi verso le scogliere e continuò a trotterellare piano fra le scabre rocce. Dopo dieci minuti sbucò in una penisola che dava a nord verso il Mauna Pele. Lì le scogliere erano più alte, almeno dodici metri sopra l'acqua, e non c'era baia né laguna a frenare la forza del vento e della marea: il Paci- fico si schiantava con furia tangibile contro gli scogli. Eleanor si fermò, corricchiando sul posto, ad ammirare il panorama. Verso nord il Mauna Pele era un verdeggiante grappolo di palme e di vi- vido fogliame che si allargava all'interno della baia perfetta come un qua- dro: la Grande Hale posta contro le propaggini del Mauna Loa, il Mauna Kea che si alzava più avanti verso nord, con la cima luccicante di bianco. Le lontane colline pedemontane e i crinali sempre più alti mostravano una combinazione di roccia scabra e di coriacei arbusti marrone... assai diversi dall'immagine che i turisti hanno di Hawaii. Eleanor lo ritenne un panora- ma da mozzare il fiato. A sud, scogliere sempre più accidentate facevano una curva verso est. La grande dorsale del Mauna Loa bloccava il cielo e adesso Eleanor vedeva chiaramente i pennacchi di fumo e di cenere che veleggiavano in direzione sud dalle colate di lava. Notò un'altra colonna di fumo grigio, più consi- stente dei pennacchi di ceneri simili a stratocumuli che dalla costa giunge- vano a un'altitudine di quindicimila metri. Si rese conto di fissare la nube di vapore che sgorgava nel punto dove la lava incontrava l'oceano, proprio appena al di là della curva della costa, forse a una quindicina di chilometri da lì. A quella vista si sentì venire la pelle d'oca, pensando alle violente energie naturali che si scatenavano in quel punto. Continuò a sud lungo la pista costiera, movendosi ora con prudenza, im- mersa nei pensieri. Alla luce del giorno era rimasta profondamente sorpresa di avere presta- to a Cordie Stumpf il diario di zia Kidder. Da un lato riconosceva di avere stretto un'improbabile amicizia con quella bizzarra donna dell'Illinois, pro- vava davvero simpatia per Cordie, ma dall'altro considerava completamen- te atipico, per lei, il fatto di lasciar leggere ad altri quel diario. Da quando zia Beanie glielo aveva affidato, più di trent'anni prima, non l'aveva condi- viso con nessuno. Ora si domandava quali fossero state le motivazioni del suo gesto. "Forse ho bisogno di un'alleata" pensò. Reagì con un brontolio e si a- sciugò il sudore che le colava negli occhi. L'ovvio alleato, in previsione degli eventi, sarebbe dovuto essere Paul Kukali: hawaiano, buon conoscitore dei miti e della storia di quelle isole, in confidenza con la gente e con gruppi con cui prima o poi lei avrebbe dovuto prendere contatto... e inoltre un bell'uomo, affascinante e sexy nel suo modo calmo e tranquillo. Eleanor brontolò di nuovo e agitò le mani, tenute mollemente penzoloni, per facilitare la circolazione del sangue. Aveva conosciuto diversi uomini come Paul Kukali: se da un lato ciascuno di loro era sempre interessante e affascinante, dall'altro nessuno di loro capiva perché il proprio fascino non avesse funzionato sulla solitaria professoressa, ora di mezz'età, di nome Eleanor Perry. Però nel frattempo lei aveva bisogno dei contatti di Paul, e questo pensiero si avvicinava pericolosamente alla sensazione di sfruttare per i propri fini il soprintendente d'arte. Sciocchezze, si disse Eleanor: la soluzione di quel vecchio mistero era vantaggiosa anche per Paul, non solo per lei. L'irregolare sentiero si restringeva fino a diventare non tanto un sentiero, quanto una serie di false piste fra le rocce. Eleanor decise che era il mo- mento di fare ritorno. Si era fermata a riprendere fiato, china in avanti, mani sulle ginocchia, quando udì il rumore. Era un rumore curioso, esplosivo come quello dei frangenti, ma non sin- cronizzato con lo schianto delle onde sugli scogli alla sua destra. Prima veniva il frastuono dei frangenti e poi quella seconda esplosione di rumore, simile al respiro di un gigante. Eleanor si girò a destra e s'inoltrò con gran- de cautela nel campo di a'a, verso l'origine di quel rumore. La scoprì a soli tre metri dal bordo della scogliera. Vide per prima cosa la nebbiolina dello schizzo, simile allo zampillo di una balena. Si spostò sull'ampia lastra di pietra bagnata e si accoccolò accanto allo sfiatatoio. La sequenza era sempre identica: prima il frastuono dei frangenti alla sua de- stra, poi un gemito come d'anime dannate o un centinaio di flauti e oboi suonati da incapaci, quindi il getto di goccioline così piccole da parere quasi vaporizzate. L'acqua sgorgava dallo sfiatatoio con la violenza di una manichetta a pressione: Eleanor si ritrasse rapidamente le prime volte, ren- dendosi conto all'improvviso che, se fosse stata investita dal getto, sarebbe stata sollevata e scagliata in aria per qualche metro, se non per decine. Ma quando ebbe calcolato la frequenza, sapendo che ci sarebbe stato più di un minuto tra un getto e l'altro, si chinò accanto al foro per scrutare all'inter- no. Si trattava ovviamente di un condotto di lava collegato al mare. Eleanor riusciva a udire lo sciacquio delle onde che irrompevano nello stretto pas- saggio dieci metri più in basso. La dinamica del condotto incanalava i frangenti su per la fenditura nella roccia, fino alla piccola apertura accanto alla quale lei era accoccolata. Soddisfatta da questa spiegazione e poco de- siderosa di bagnarsi più di quanto già non fosse a causa degli spruzzi, Ele- anor fu sul punto di andarsene, quando udì un rumore che superava il ge- mito del vento e dell'acqua. Voci. Dal condotto di lava provenivano voci. Eleanor si scostò, mentre il geyser scaturiva. Cessato lo zampillo, tornò alla fenditura e si sporse su di essa. Le voci si alzavano in una discussione ritmica o in una vera e propria salmodia. Confidando che il getto non scaturisse fuori tempo, Eleanor infi- lò nell'apertura testa e spalle; si rese conto che la fenditura scendeva per circa cinque metri e poi si allargava a formare il soffitto di una caverna. Il condotto lavico era più profondo e molto più stretto verso il mare; la ca- verna, segnata di striature, si alzava come una rampa verso lo sfiatatoio. Gli ultimi tre metri del condotto avevano un diametro che non arrivava a novanta centimetri. Il condotto si allargava e si livellava proseguendo ver- so l'entroterra, sotto il campo di lava. Dal momento che con il corpo bloccava lo sfiatatoio, Eleanor non a- vrebbe dovuto vedere niente, ma là sotto l'oscurità non era completa. Il ba- gliore di torce, o di una luce più verdastra, illuminava il condotto in dire- zione mauka, ossia verso terra. Eleanor udì l'esplosione dei frangenti nella direzione opposta e all'improvviso si raffigurò l'acqua ad alta pressione che veniva dalla sua parte. Aveva indugiato troppo. Con le dita che scivolava- no sulla pietra bagnata, si dimenò per togliere testa e spalle dalla fenditura, prima che il geyser la schiacciasse come un enorme maglio. Aveva appena liberato le spalle, quando una mano le toccò la schiena. — Mi prendi per il culo? — disse Byron Trumbo. Si preparava a manda- re in buca la pallina, quando Will Bryant gli portò la notizia dell'evasione dell'omicida. — Non lo faccio mai — replicò il suo direttore generale. Trumbo corrugò la fronte, eseguì il tiro, sbagliò la buca, tirò di nuovo e fece centro, restando indietro di due colpi. Hiroshe Sato non riuscì a na- scondere un sorriso. Trumbo uscì dal green, tirando per il braccio Will. L'incontro di quella mattina era andato bene. Il gruppo Sato aveva aperto le trattative, tre settimane prima, con un'offerta di 183 milioni di dollari per il Mauna Pele. Trumbo aveva controbattuto con una richiesta di 500 milio- ni per l'albergo e le proprietà adiacenti. La discussione adesso girava intor- no a 285 milioni. Appena l'offerta fosse arrivata a 300 milioni, Trumbo a- vrebbe accettato. Avrebbe usato quei soldi per puntellare le spaventose perdite accumulate ad Atlantic City e a Las Vegas, togliersi dal ramo casi- nò e alberghi, tornare alle semplici speculazioni in borsa e nel campo im- mobiliare. Poi, mentre metteva in posizione la mazza per la quarta buca del campo da golf superiore, Will Bryant gli aveva mormorato all'orecchio che c'era lo sceriffo Ventura. — Merda — brontolò Trumbo, dopo aver invitato Hiroshe e il suo grup- po a proseguire fino al tee seguente. Tornò sotto le palme, dove Ventura aspettava. Lo sceriffo di Kona era tanto abbronzato da passare per un ha- waiano, ma Trumbo sapeva che era nato e cresciuto nello Iowa. — Charlie, ha un aspetto magnifico — disse Trumbo, stringendogli la mano. Durante la costruzione del Mauna Pele, Trumbo si era fatto un pun- to d'onore di conoscere tutti i politici e i pubblici ufficiali della costa Kona. — Signor Trumbo — disse lo sceriffo, ritirando la grossa mano. Era un marcantonio di quasi due metri e aveva sempre fatto finta di non accorger- si dell'esagerata sfacciataggine del miliardario. — Will mi dice che ha delle novità su quel Jimmy comesichiama... il killer. — Kahekili — disse Ventura, in tono piatto. — E lei sa bene quanto me che le accuse erano campate in aria. Jimmy Kahekili potrebbe fare a pezzi qualcuno in una rissa al bar, se fosse abbastanza ubriaco, ma non è un serial killer. Trumbo inarcò il sopracciglio. — Ah, davvero? Ma Will mi dice che lei è venuto lo stesso a mettermi in guardia da lui. Charlie Ventura annuì. — Ho ricevuto una telefonata dal procuratore di- strettuale di Hilo. Ieri sera hanno mandato fuori Jimmy. Il giudice ha ridot- to la cauzione da cinquantamila dollari a mille, vista la mancanza di prove, e la famiglia di Jimmy l'ha versata. Trumbo attese. — Stamattina il suo compagno di cella ha detto che Jimmy ha preso co- me affronto personale tutta la storia — continuò Ventura. — Evidentemen- te nelle ultime settimane Jimmy si è convinto che lei era responsabile dei suoi guai e ha detto che sarebbe venuto a cercarla, appena fuori di galera. Trumbo sospirò. — Lei non può fare niente? Ventura allargò le mani. — La polizia di Stato ha diramato l'ordine d'in- terrogare Jimmy a proposito delle minacce, ma per il momento nessuno riesce a trovarlo. — Stava da queste parti, no? — disse Trumbo. — Già. Proprio in fondo alla strada, a Hoopuloa. Stamattina ho parlato con la madre e con i due fratelli di Jimmy. Dicono di non averlo visto. Li ho avvisati che se Jimmy si fa vedere al Mauna Pele o se fa altre minacce, lo porto dentro io stesso. Trumbo non replicò. Ricordava che Kahekili era un tipo massiccio, più grosso dello sceriffo, un vero gigante. Una volta aveva raso al suolo un bar con due asce, una per mano. — Comunque — disse lo sceriffo — so che qui intorno ha tonnellate di gente della sicurezza, signor Trumbo. Perciò potrebbe avvertire loro di sta- re in guardia. Jimmy è una testa calda e conosce bene il territorio. — Già — disse Trumbo, pensando alla sua guardia del corpo scomparsa, al capo della sicurezza ancora in coma e alla testa di cazzo che ora aveva la responsabilità di tutto. — Grazie, sceriffo. — Ancora una cosa — disse Ventura. — La polizia di Stato è già venuta qui per la storia del cane e della mano? Trumbo batté le palpebre, sorpreso. Come cazzo faceva a saperlo, Ven- tura? Lo sceriffo ritenne il silenzio di Trumbo una risposta negativa. — Do- vrebbero presentarsi in giornata per interrogare i testimoni e stendere le di- chiarazioni — disse. — Bene — replicò Trumbo. E pensò: "Quello stronzo di soprintendente. È fottuto". — Mi terrò in contatto per sapere se ci sono notizie su Jimmy — disse Ventura. — D'accordo — si congedò Trumbo. Tornò al tee. Vide che Will Bryant veniva rapidamente verso di lui. Lo fermò a due metri di distanza, puntan- dogli contro il dito come se fosse la canna di una pistola. — Se è un'altra brutta notizia, forse dovrò ucciderti. Il direttore generale annuì, deglutì e disse: — Tre cose, capo. Primo, il signor Carter ha parlato di nuovo con Hastings e si è preso il compito di avvertire gli ospiti che le colate di lava stanno creando potenziali difficol- tà. "Possibili eventi tossici aerei", li definisce Carter. — Quello stronzetto — mormorò Trumbo. Avrebbe licenziato direttore e soprintendente insieme. — Qualcuno gli dà retta? Will si strofinò il labbro superiore. — Stamattina avevamo settantatré ospiti paganti. Quarantadue hanno dato disdetta. Trumbo sogghignò. Il terreno gli pareva scivoloso, sotto le scarpe da golf, come se lui fosse in piedi sopra un'asse posta sopra delle biglie. Pen- sò seriamente che forse sarebbe impazzito. — Dimmi che questa è la peg- giore delle tre, Will! Bryant rimase in silenzio. Trumbo continuò a sogghignare. — Vai avanti. — Secondo, Dillon è scomparso. — Scomparso? Che cazzo significa? Stamattina era in infermeria, sotto sedativi. Will annuì. — Poco dopo le otto ha stordito con la padella il dottor Scamahorn e se l'è svignata. L'infermiera dice che indossa ancora il cami- cione d'ospedale. Trumbo guardò il campo di a'a come se vedesse il piccolo e barbuto di- rettore della sicurezza correre da masso a masso mostrando le chiappe. — Va bene — disse. — Niente di grave. Di' a Fredrickson di tenere gli occhi aperti anche per il suo vecchio capo, mentre tiene gli occhi aperti per Jimmy Comesichiama e la sua ascia. Qual è la terza? Will Bryant esitò. — Forza — lo incitò Trumbo, brusco. — Hiroshe Sato aspetta. Cosa c'è? — Tsuneo Takahashi — disse Will. — Già — disse Trumbo, sfregandosi gli occhi. — Hiroshe ha detto che Sunny ha tirato tardi con alcune delle ragazze. Dormiva ancora, durante la colazione, e non si è presentato alla piazzola di partenza. Hiroshe è incaz- zato con lui. Allora? — Scomparso — disse Will Bryant. Trasse un respiro profondo. — Sunny aveva una stanza privata al terzo piano della Grande Hale... si vede che gli altri del gruppo Sato sono abituati alle sue festicciole e preferiscono tenerlo lontano dagli affari... ma Fredrickson è andato a controllare e dice che nella notte qualcosa ha fracassato la porta della lanai. La suite è a pez- zi. Pare che ci siano tutti gli abiti di Sunny... ma non Sunny. Trumbo alzò a due mani la mazza di fibra al carbonio e la piegò senza accorgersene. — Calma — mormorò. — Prego, signore? — Will si sporse per udire meglio. — Calma — bisbigliò Trumbo, stavolta anche più piano. Continuò a piegare la mazza da cinquecento dollari, mentre tornava al tee per la quinta buca. — Calma. Calma. 16 E Pele, eia ka 'ohelo 'au; e taumaha aku wau 'ia 'oe, e 'ai ho' i au tetahi. Oh, Pele, ecco le tue bacche 'ohelo; te ne offro alcune, alcune le mangio anch'io. Canto tradizionale per Pele La signora Cordie Stumpf, da ragazza Cordie Cooke di Elm Haven, nel- l'Illinois, si svegliò prima dell'alba senza sentire postumi di sbronza, solo il continuo dolore al quale ormai da due mesi non badava più. Alle prime lu- ci, mentre iniziava il cinguettio degli uccelli, uscì a fare due passi. Non le piaceva fare jogging. Considerava ridicola l'idea di corricchiare senza che ce ne fosse bisogno. Attese che la lanai della colazione aprisse e poi divorò un bel piatto di frittelle con sciroppo di cocco, salsiccia portoghese, uova strapazzate, tra- mezzini di grano integrale, tre bicchieri d'ottimo succo d'arancia e alcune tazze di caffè. Aveva con sé il diario rilegato in pelle che Nell le aveva da- to la notte prima, ma non lo tolse dalla borsa durante la colazione. Neppure prima di andare a letto l'aveva guardato. Non leggeva molti libri, ma quello voleva leggerlo da cima a fondo. Dopo colazione, passò davanti ai negozi del piano-giardino della Grande Hale. Le piccole e costose boutique erano in gran parte chiuse, come pure il salone di bellezza e il centro di massaggi terapeutici. Cordie cominciò a domandarsi se il personale del posto avesse deciso di non venire al lavoro. Stephen Ridell Carter la raggiunse mentre si dirigeva alla spiaggia. — Signora Stumpf — cominciò, con un'occhiata nervosa all'elenco di nomi sul portablocco a molla — sono contento di averla colta al volo. — Anch'io — disse Cordie. — Mi piace sempre che mi colgano. Il direttore parve un po' perplesso per la risposta, che forse era una battu- ta, ma proseguì con quello che aveva tutta l'aria di un discorsetto ripetuto parecchie volte quel mattino. A quanto pareva, le eruzioni contemporanee dei due vulcani avevano fatto giungere la lava a una ventina di chilometri dal Mauna Pele. Il signor Carter era sicuro che non ci fossero rischi imme- diati, ma, su consiglio dei massimi vulcanologi del mondo, il Mauna Pele suggeriva ai propri ospiti la possibilità di tornare a casa o di trasferirsi in un altro elegante albergo, garantendo il totale rimborso delle spese. — Io qui non pago un soldo — gli ricordò Cordie. — Faccio la Vacanza con i Miliardari. — Certo — sorrise il signor Carter. — Ma le assicuro che onoreremo il restante periodo di vacanza, appena questo... piccolo rischio... sarà passato. — Compreso il viaggio in aereo? Mi riporteranno qui gratis? Il direttore esitò solo un secondo. — Naturalmente. Cordie gli mostrò i denti in un sogghigno. — Be', grazie, ma no, grazie, signor C. Sono qui e ci resto, penso. — Ma se ci fosse un modo... — No, grazie lo stesso — disse Cordie, dandogli un colpetto sulla mani- ca del completo di lino. — Devo andare in spiaggia. Ho un mucchio di ro- ba da leggere. A dire il vero Cordie non si mise a leggere proprio sulla spiaggia. Aveva la pelle ancora arrossata dal sole del giorno precedente e non voleva espor- re il diario alla luce diretta e all'aria salmastra. Trovò invece una sdraio nella zona erbosa, simile a un parco, a venti metri dalla spiaggia, a sud del Bar del Relitto, riparata e ombreggiata da palme ma a quattro passi dai rin- freschi. Si sistemò sui cuscini, si assicurò che il tendone le riparasse dal sole le cosce arrossate, aprì il libro e cominciò a leggere. Non era una let- trice veloce, ma nella tarda mattinata era arrivata al resoconto degli eventi accaduti lungo la costa Kona, scritto 130 anni prima. 18 giugno 1866, in un villaggio senza nome lungo la costa Kona Il giorno e la notte trascorsi da quando ho preso gli ultimi appunti paio- no le scene quasi dimenticate di un mondo con il quale da tempo ho smes- so d'avere a che fare. A dire il vero, ritengo d'avere scambiato con un posto all'inferno la mia permanenza in un mondo di bellezza e di sublimità. Ma persino una simile escursione come una discesa all'inferno richiede che l'onesto viaggiatore faccia il suo racconto e quindi farò il mio. La notte scorsa, il tempio pagano, la pioggia, il salvataggio di Halema- nu, il ritorno dello sconvolto signor Clemens... sembrano tutti eventi acca- duti molto tempo fa. Ma solo adesso posso porre mano alla penna e adesso devo riassumerli. "Cose stupefacenti!" esclamò il signor Clemens. Senza badare alle sup- pliche del ragazzo indigeno perché abbandonassimo subito quel posto, il reverendo Haymark e io incitammo il corrispondente a metterci a parte delle sue esperienze dell'ultima mezz'ora. "L'ultima mezz'ora!" esclamò il signor Clemens, togliendo dalla tasca del panciotto l'orologio e controllando l'ora. Nel vedere che era rimasto lontano da noi proprio una mezz'ora, si mise a ridere come un pazzo. Il re- verendo Haymark gli si avvicinò, gli strinse il braccio in quella che rico- nobbi per una presa ferrea e gli passò una fiaschetta d'argento. "Whisky?" domandò il signor Clemens, interrompendo la risata quanto bastava ad annusare la fiaschetta. "A scopo medicinale" rispose l'ecclesiastico. Nelle ultime notti il reve- rendo Haymark ci aveva riservato parecchie sorprese. Il signor Clemens bevve a lungo e con mano malferma si asciugò i baf- foni. "Dovete scusarmi" disse, senza guardare direttamente nessuno di noi tre. "Ma capirete, appena... appena vi avrò raccontato quali cose stupefa- centi ho visto." Noi tre restammo in silenzio e il giovane corrispondente dai capelli rossi proseguì con la sua bizzarra, lirica cadenza del Missouri. "Anche se vedevo chiaramente le torce sulla spiaggia, ho impiegato un certo tempo a scendere la scogliera senza farmi scorgere. Proprio in questa occasione mi sono venuti utili gli anni di gioventù. Segretezza e sotterfu- gio sono le caratteristiche di tutti i ragazzi. A poco a poco arrivai alla base dell'altura e cercai un punto favorevole da cui spiare senza essere spiato a mia volta. Una roccia a forma di S, una sorta di masso spaccato nelle vici- nanze del punto dove terminavano gli alberi e iniziava la sabbia, servì mi- rabilmente allo scopo. Mi sistemai lì, a meno di duecento piedi da dove ar- devano le torce e saltellavano le spettrali figure. Ora che ci penso, ammetto d'essere stato... be', forse impaurito è una parola un po' troppo forte, per l'emozione che avevo in petto... ma riconosco d'avere avuto una certa pe- nuria nel reparto saliva e un eccesso d'urgenza altrove. "Ciò che vidi allora era sufficiente a farmi diventare metodista. Per pri- ma cosa c'erano i marciatori... i Marciatori che salmodiavano e suonavano, gli stessi da noi visti da questa capanna... e un altro gruppo di Marciatori composto, pareva, di giganti alti sette piedi la cui pelle riluceva della stessa luce perlacea delle loro arcane torce... e altri gruppi di Marciatori che giun- sero proprio mentre mi acquattavo dietro il masso. In quel momento avrei venduto l'anima, pur di avere il più scalcinato cannocchiale che abbia mai usato dalla mia timoniera... avrei venduto l'anima e sarei stato contento. "Saranno stati più di cento Marciatori, là sulla spiaggia. Sia quelli di di- mensioni umane, sia la varietà gigantesca, erano presenti in forma maschi- le e femminile... in pratica non indossavano nulla e la luce delle torce e la mia mente stordita erano abbastanza chiare per questa semplice identifica- zione. Alcuni erano evidentemente di stirpe regale, perché sedevano o sta- vano sdraiati sulle portantine (quei palanchini scoperti in cui a Ohau ho vi- sto viaggiare gli indigeni di famiglia reale) sorrette da schiavi e davano or- dini, mentre gli altri lavoravano con febbrile impegno. L'appartenenza a famiglie reali è identica in tutto il mondo e chi ne beneficia di solito si tro- va in posizione orizzontale. "Ma i lavoratori... devo dire che lavoravano con grande volontà. Mentre guardavo, quegli schiavi... in quanto era ovvio a questo vostro figlio del Sud che quelli erano schiavi, anche se condividevano con i padroni il colo- re della pelle... quegli schiavi scomparvero nella giungla e ricomparvero nello stesso frenetico atteggiamento che ho visto nelle formiche che vanno dentro e fuori un formicaio particolarmente operoso. Ogni volta che le squadre di schiavi emergevano dalla giungla, faticavano sotto il peso di un cubo di pietra di quattro piedi per lato, simile, se non identico, ai blocchi da noi visti nel tempio abbandonato che si trova proprio fuori della capan- na dove al momento ci ripariamo. Guardai gli dèi... tali infatti ritenni le fi- gure alte sette piedi, tanto nobili erano il loro atteggiamento e il loro por- tamento... indicare il punto sulla spiaggia dove andavano sistemati i primi blocchi di pietra. Gli schiavi si affrettarono a ubbidire, poi tornarono rapi- damente nella giungla a prendere altri carichi di blocchi. "E così assistetti alla costruzione di uno heiau interamente nuovo... per- ché di questo si trattava. Riconobbi presto la forma: i larghi gradini per i sacrifici, le mura per difesa. Ah, vedo nei vostri occhi che non riuscite a crederci. Come si potrebbe costruire un intero tempio, nello spazio di mez- z'ora? Potete quindi capire il mio stupore, signorina Stewart, reverendo Haymark: infatti rimasi nascosto dietro il masso e osservai per ore e ore quella frenetica costruzione. A un certo punto mi meravigliai che l'alba non fosse spuntata a interrompere quelle titaniche fatiche, ma quando tolsi dal taschino l'orologio per controllare l'ora... proprio come ho fatto davanti a voi qualche istante fa... erano trascorsi solo dieci minuti da quando avevo disceso la scogliera. Fui sicuro che il meccanismo dell'orologio si fosse guastato. In realtà, quando controllai la lancetta dei secondi, vidi che era ferma. "Trascorsero altre ore. Gli alberi e i cespugli alla base della scogliera formicolavano di schiavi sotto il peso dei carichi. La spiaggia pullulava di dèi e di regali isolani che ispezionavano la costruzione. Le torce tremola- vano. I tamburi rullavano. La salmodia superava il fragore dei frangenti. Trascorsero ore. Lo heiau era prossimo al completamento. Pareva che u- n'eclisse avesse nascosto il sole, in modo che il giorno intero potesse tra- scorrere sotto la copertura delle tenebre. Controllai l'orologio. Erano tra- scorsi venticinque minuti. Fissai a lungo il quadrante, finché non vidi la lancetta dei secondi vibrare, scattare, muoversi di un singolo secondo. "Alla fine, incredibilmente, il tempio fu completato. Gli dèi e i capi e i guerrieri e i loro schiavi si radunarono intorno a esso. Come per un'imbec- cata celeste, il vento ruggì dal mare al doppio della forza di prima. Le torce guizzarono e si spensero. La scena fu ora illuminata dal bagliore prove- niente dai corpi spettrali dei presenti. Quando ero bambino, nella mia pic- cola città nel Missouri, eravamo soliti raccogliere nelle sere d'estate gli in- setti luminosi e portarli nella nostra stanza in un vasetto. Questa luce non era dissimile da quel lucore: sbiadita, verdastra, riportava alla mente la morte. "L'evento successivo è la parte mirabile. Dal mio nascondiglio era diffi- cile vedere, ma la musica era cessata, la salmodia si era interrotta e le livi- de figure sulla spiaggia si disposero secondo una certa scala gerarchica... come in attesa. Non aspettarono a lungo. Alcune figure emersero dal mare. I capi e gli dèi sulla spiaggia fecero largo, mentre le figure si facevano strada dai frangenti alla spiaggia, dalla spiaggia allo heiau, dalla base dello heiau alle terrazze superiori. Dico figure perché le forme che emersero dal mare erano... fantastiche... per dire il meno. La figura centrale aveva forma umana, ma perfino dal mio lontano punto d'osservazione vidi che era trop- po grande per essere un uomo e fin troppo inconsistente. Quell'uomo... quella creatura... pareva di... be', di nebbia. Di spruzzaglia marina. Di nubi. Di chissà quale vapore inconsistente." A questo punto il ragazzo, Halemanu, esclamò: "Pana-ewa!". "Sciocchezze" disse il reverendo Haymark. "Pana-ewa è un mito." Il ragazzo non guardò neppure l'ecclesiastico, ma si rivolse sottovoce al signor Clemens. "Pana-ewa ha molti corpi. Kino-ohu è il suo corpo di neb- bia. Nel suo corpo di nebbia Pana-ewa assalì Hi'iaka sorella di Pele." "Be'" fece il signor Clemens, interrompendo il racconto quanto bastava a sfregare un fiammifero antivento per accendersi un sigaro "la figura da me vista stanotte aveva un corpo di nebbia. Nebbia turbinante. Riuscivo a ve- dere il bagliore dei corpi più alti attraverso il turbinare della nebbia. E non c'era solo quella. Il seguito che l'accompagnava dal mare comprendeva un uomo dall'aspetto abbastanza normale, un indigeno, che portava sulle spal- le una sorta di cappa. Di lì a poco, mentre gli eventi procedevano, quelli sulla sabbia in basso portarono a quest'uomo una capra belante e lui la sol- levò verso la sagoma di nebbia più in alto..." "Pana-ewa" mormorò Halemanu. "Certo" disse il signor Clemens, traendo boccate dal sigaro "chia- miamolo pure Pana-ewa. Il tipo con la cappa sollevò la capra viva come per offrirla a Pana-ewa, poi lasciò cadere la cappa e si mise sulla schiena la capra, come ho visto fare ai pastori con le pecore del gregge. Solo, ciò che accadde dopo..." Il signor Clemens si interruppe e si schiarì la gola, come sopraffatto dall'emozione. "Cosa accadde?" domandai, con un'occhiata verso la finestra buia. Un uccellino si era posato sull'intelaiatura e il suo frullo d'ali m'aveva fatto trasalire. "La capra cominciò a belare più pietosamente, orribilmente... e con quel rumore frenetico giunse un altro suono... un rumore di rotture e di lacera- zioni, come d'ossa e di muscoli. E allora, anche dal mio lontano punto d'osservazione, vidi che la capra... scompariva." "Scompariva?" ripeté il reverendo Haymark. Teneva ancora in mano la fiaschetta che il signor Clemens gli aveva restituito. "Scompariva" confermò il signor Clemens, con voce più decisa. "Era in- ghiottita da una sorta di... apertura... sulla schiena dell'uomo. Ora vedevo che la cappa aveva celato una massiccia gobba dove si sarebbe dovuta tro- vare la spina dorsale e, in quella gobba... un'apertura." "Una bocca" disse piano Halemanu. "Lui è Nanaue. Lui è uomo-squalo. Lui a volte serve Pana-ewa." Tutt'e tre fissammo il ragazzo. Alla fine il signor Clemens proseguì: "Il suo seguito comprendeva altre creature... uomini piccoli, deformi, contorti nei lineamenti e nel fisico...". "Eepa e kapua" disse Halemanu. "Loro molto traditori. Molto traditori. Anche loro servono Pana-ewa." Il signor Clemens si tolse di bocca il sigaro e si accostò al ragazzo, fis- sandolo con aria pensierosa. "Un'altra figura era emersa dal mare" disse a bassa voce. "Un cane. Un grosso cane nero che stava accanto alla mano destra dell'uomo di nebbia." "Ku" spiegò semplicemente Halemanu. "Ku" ripeté il signor Clemens; si sedette pesantemente sul pavimento di terra battuta. Mi guardò. "Poi" riprese "quando la capra era stata divorata, la salmodia cessò. L'uomo di nebbia sollevò braccia lunghe in modo inve- rosimile e... non so come descrivere la scena... e divenne... qualcosa d'al- tro. Vidi una coda. Intuii scaglie. Ricordo occhi gialli. La creatura-rettile aveva ancora le braccia e queste rimasero sollevate. Poi cadde un fulmine che mi rese cieco per un momento..." Il signor Clemens diede l'impressio- ne d'accorgersi del sigaro stretto fra le dita. Lo mise in bocca, corrugò la fronte, lo riaccese con un altro fiammifero e disse: "Quando fui di nuovo in grado di vedere, gli dèi erano spariti, i capi erano spariti, le torce erano sparite, il cane era sparito, i bizzarri gnomi erano spariti, l'uomo-rettile era sparito". Mi schiarii la voce. "E lo heiau era sparito?" domandai. "No, il tempio di pietra era sempre lì. Guardai l'orologio. Secondo i miei stessi sensi, erano trascorse parecchie ore... forse addirittura un giorno. Se- condo l'orologio erano trascorsi meno di trenta minuti. Tornai qui." Per un momento noi tre bianchi sembrammo solo un assortimento di oc- chi sgranati che si fissavano l'un l'altro. Alla fine dissi: "E ora cosa faccia- mo?". Halemanu mi tirò per la manica. "Un momento, ragazzo" dissi, guardando ancora gli uomini per avere un suggerimento. Mi sentii tirare di nuovo. Irritata, staccai il braccio dalla presa del ragazzo. "Cosa c'è?" "Andiamo via subito!" "Ne parleremo..." cominciai. Il ragazzo gridò: "Andiamo via subito!". Fu il signor Clemens a calmare con un tocco il ragazzo. "Perché dob- biamo andar via subito?" Halemanu indicò la finestra. "Uccelli. Piccoli uccelli." Guardai il riquadro buio. Gli uccellini erano spariti. Sorrisi alla paura del ragazzo per alcune delle più gentili creature di Dio. "Loro fratelli di Pana-ewa!" disse Halemanu, alzando di nuovo la voce. "Uccelli spariti. Pana-ewa viene!" Eleanor ritrasse di scatto dalla fenditura le spalle e la testa, malgrado la pressione di mani sulla sua schiena, e subito si scostò, proprio un attimo prima che il geyser zampillasse. Inzuppata, ma non colpita in pieno dalla forza del getto, si rigirò contro l'uomo fermo accanto a lei. Vide che era Paul Kukali, con gli occhiali schizzati di goccioline. — Maledizione! — ruggì, serrando i pugni. — Cosa diavolo pensava di fare? — Dietro di lei il geyser ruggì, raggiunse l'apice, ricadde in niente. Paul si tolse gli occhiali e scoccò a Eleanor un'occhiata d'imbarazzo. — Mi scusi, dottoressa Perry... L'ho vista, ho pensato che fosse nei guai, ho cercato di aiutarla a uscire... — Spingendomi? — replicò bruscamente Eleanor. Si rese conto di avere ancora le braccia alzate, le mani strette a pugno. Il cuore le batteva all'im- pazzata e l'adrenalina le invadeva tutto il corpo. Se fosse arrivata al punto di colpire Paul Kukali, non l'avrebbe picchiato futilmente al petto come le stupide protagoniste dei film. Anni prima, a Port-au-Prince, aveva subito un'aggressione. Si era trattato di un semplice scippo (non era stata picchia- ta o violentata) ma l'esperienza era bastata a farle seguire, quell'estate, un corso di autodifesa e almeno una volta all'anno un corso di aggiornamento. Se avesse usato i pugni su Paul, avrebbe mirato alla carotide, al naso e ad altre delicate parti del corpo. — Non l'ho spinta, dottoressa Perry — disse piano Paul, pulendosi gli occhiali. L'acqua gli imperlava i capelli ricci. — Ho cercato di attirare la sua attenzione. Non ha sentito che la chiamavo? Eleanor se lo domandò: era stata tutta presa dal bagliore e dal movimen- to nella caverna. E dal rumore d'acqua che si precipitava verso di lei. Ri- mase in silenzio. — Se l'ho spaventata, le chiedo scusa — disse Paul, rimettendosi gli oc- chiali. — Gli sfiatatoi dei condotti lavici sono pericolosi. Temevo non sa- pesse che vi entrano i frangenti. — Lo sapevo — replicò concisamente Eleanor. Abbassò le mani. "Ho bisogno del suo aiuto" pensò. — Mi dispiace di avere perso il controllo. Mi ha fatto trasalire. — Capisco — annuì Paul. — Le chiedo di nuovo scusa. Udirono uno scroscio d'acqua e tutt'e due si allontanarono dallo sfiata- toio prima che il geyser zampillasse di nuovo. — Come mai era in giro da queste parti? — domandò Eleanor, strizzan- do il lembo della T-shirt zuppa d'acqua, mentre si allontanavano. — A dire il vero — sorrise Paul — cercavo proprio lei. Il mio amico, lo sceriffo Ventura, era qui per farci qualche domanda a proposito del... ah... del cane. Ho trovato la signora Stumpf, ma non siamo riusciti a rintracciare lei. Un giardiniere mi ha detto di avere visto una signora che faceva jog- ging sul sentiero e sono uscito a vedere se era lei. Ho notato le impronte di scarpe di tela al di là della fine del sentiero e l'ho scorta dalle scogliere del- la penisola. Eleanor lo guardò per un momento. — Mi spiace non essere stata pre- sente. Paul scrollò le spalle. — Poco male. Probabilmente a quest'ora Charlie se n'è già andato. Da quanto ho capito, si trattava comunque di una indagi- ne non ufficiale. Gli telefoneremo più tardi. In realtà avevo un'altra ragione per cercarla. Eleanor rimase in silenzio. In quel momento stavano tornando lungo il bordo della scogliera. Eleanor ripensò a ciò che aveva visto nella caverna e si domandò se Paul ne fosse al corrente. — Finalmente mi sono messo in contatto con il mio amico... il pilota d'e- licottero — disse Paul. — Come immaginavo, è impegnato a Maui per tut- to il giorno, ma potrebbe venire qui al crepuscolo e portarci al vulcano. — Oh — disse Eleanor. — Magnifico. — Aveva dimenticato l'escursio- ne fino al vulcano. Esitò un secondo. — Paul... — Sì? — Vorrei chiederle un favore... — S'interruppe, come imbarazzata. Il soprintendente d'arte e archeologia alzò le mani, palme in fuori. — Dopo averla spaventata in quel modo, le farei qualsiasi favore. Mi dica. — Vorrei fare visita ai kahuna locali. Preferibilmente a quelli di Pele. Paul Kukali si fermò. Aveva perso il sorriso. — Kahuna? Sacerdoti? Perché, Eleanor? Anche lei si fermò e lo fronteggiò. — Ho un serio motivo personale. Devo parlare con loro. Il soprintendente sorrise di nuovo. — Vuole lasciare il razionalismo e convertirsi? Eleanor alzò la mano, la bloccò a qualche centimetro dal suo braccio. — Paul, so che si tratta di un grosso favore in aggiunta all'aiuto che lei mi ha già dato... a me e anche a Cordie... ma per me ha grande importanza. — Nel silenzio, guardò il proprio riflesso negli occhiali di Paul. — Come mai pensa che io conosca i kahuna? — domandò infine Paul. Eleanor ridacchiò. — Immagino che lei conosca tutti. Se non può, pace. Capisco. Ma dovevo chiederglielo. Paul sospirò. — Ci sono alcuni... vivono a qualche chilometro da qui... verso sud, dove c'è la colata di lava. Forse hanno evacuato la zona. Quando vorrebbe andarci? Eleanor mise i pugni sui fianchi e sorrise. — Appena mi sono cambiata? Cordie avrebbe continuato a leggere fino in fondo il diario di zia Kidder, se non fosse stata interrotta dagli strilli del bambino. Il chiasso proveniva dalla spiaggia. La vista era in parte bloccata dalle palme e da una monta- gnola erbosa, ma Cordie riuscì a scorgere un bambino, forse sui sette anni, che correva avanti e indietro sulla spiaggia e strillava. Pareva che nelle vi- cinanze non ci fossero adulti. Cordie ricordava vagamente due bambini giunti sulla spiaggia una mezz'ora prima; uno dei due portava un materas- sino gonfiabile, del tipo su cui ci si distende in piscina. Cordie prese la borsa di tela, vi lasciò cadere il diario, se la mise in spal- la e si alzò dalla sdraio. Gli strilli del bambino non erano diminuiti, anzi, forse si erano fatti più frenetici. Cordie si diresse rapidamente alla spiag- gia. Il bambino le corse incontro, a mani serrate per il terrore. Aveva il viso rosso per gli strilli, rigato di lacrime. Cordie diede ancora un'occhiata in- torno, alla ricerca dei genitori o di un bagnino, ma non vide nessuno; prese il bambino per le braccia. — Ehi, ehi — gli disse. — Calma, giovanotto! Il bambino continuò a piangere. Indicò la distesa scintillante della lagu- na. — Mio fra... fra... fratello — balbettò tra i singhiozzi. — Gli ho... gli ho detto... di non andare... così lontano. Cordie si schermò gli occhi e scrutò nel bagliore del mezzogiorno. C'era un bambino, là fuori, sul materassino gonfiabile. Aveva le gambe piegate e tirate all'asciutto, tanto che il materassino, quasi piegato in due, lasciava sporgere dall'acqua il cuscino e l'estremità opposta. Il bambino pareva di un anno più anziano del fratello ed era chiaramente atterrito. Forse ne ave- va tutte le ragioni... il materassino si era allontanato di più di cento metri dalla riva e pareva acquistare velocità verso il mare aperto. Cordie guardò la spiaggia in tutte le direzioni. Incredibilmente non c'era- no altri ospiti e il seggiolone del bagnino era vuoto. "Qualcuno ci perderà anche le mutande se il bambino annega" pensò Cordie. Scorse una persona dietro il banco del Bar del Relitto, ma la baracca era troppo lontano per chiamare aiuto e il barista volgeva la schiena alla spiaggia. Cordie vide il kayak tirato a riva accanto alla postazione del bagnino. — Corri a chiamare i tuoi genitori — disse al bimbo in lacrime. — Io vado a prendere tuo fratello. — "Merda" soggiunse tra sé: non aveva mai imparato a nuotare. Il kayak era di fibra di vetro e aveva un unico buco rotondo per l'occu- pante. Cordie ci entrava a malapena. Fu un'impresa spingere in acqua la piccola imbarcazione e prendervi posto, ma Cordie ci riuscì. Perse la pa- gaia a doppia pala, che però rimase a galla; Cordie pagaiò con le mani e la recuperò. Per fortuna quel giorno non c'erano in pratica frangenti. Il bambino non era andato a cercare i genitori. Fermo nell'acqua fino alle caviglie, le gridava qualcosa. Cordie si girò per ascoltarlo. — Gregory è andato lontano a causa... a causa... a causa dello squalo! — Squalo? — disse Cordie e si rese conto d'alzare istintivamente i piedi dentro il kayak. Scrutò dalla parte del materassino, che si era allontanato di altri cinquanta metri verso l'apertura della baia; laggiù i frangenti c'erano davvero, e alti. — Non vedo squali — gridò al bambino in lacrime. Era difficile vedere chiaramente nel bagliore del sole, ma non scorgeva pinne. La zona dove i due bambini erano entrati in acqua era la laguna delle man- te, dove quelle creature alate venivano attirate di notte dalle luci e si erano abituate a cercare cibo di giorno. — Forse era una manta — disse Cordie. — Le mante non fanno niente. — Almeno, lei pensava che non fossero pe- ricolose per le persone! Il bambino scosse la testa. — Era davvero uno squalo! Solo, non aveva la pinna. Aveva i piedi. Cordie si sentì gelare malgrado i trenta gradi. — Va bene — disse — ma tu corri a chiamare tuo padre. Vado a prendere tuo fratello. — Esitò un se- condo. — Ehi! — gridò per richiamare il bambino. — Tirami quella borsa. — Per qualche motivo era infastidita all'idea di abbandonare il diario di zia Kidder. Il bambino tornò indietro, raccolse la borsa e gliela tirò. Cordie fu co- stretta a protendersi ma l'afferrò con due dita e la tirò a bordo senza rove- sciarne il contenuto. Spostò le cosce e infilò la pesante borsa nel pozzetto. Poi si sporse, alternò colpi di pagaia e si diresse verso l'altro bambino ur- lante. — Mi sta smerdando — borbottò Byron Trumbo. Erano alla diciassette- sima buca del percorso nord, quasi di ritorno alla palazzina del circolo; Hi- roshe Sato era in vantaggio di cinque colpi e si mostrava chiaramente compiaciuto, quando Trumbo alzò gli occhi e vide il gigantesco hawaiano fermo al limitare del green. L'uomo non aveva la camicia e pesava di sicu- ro più di due quintali. Reggeva un'ascia. — Ahhh — disse Hiroshe Sato; segnò la posizione della pallina, alzò gli occhi e vide anche lui quell'apparizione. — Oh. Trumbo guardò dietro Sato. Bobby Tanaka e Will Bryant erano con il secondo gruppo, indietro di mezzo fairway. Con lui sul green c'erano solo Hiroshe, Inazo Ono e il vecchio Matsukawa. Il gigantesco hawaiano pas- sava l'ascia da una mano all'altra, come farebbe un bambino con una corta bacchetta. Trumbo si tastò la cintura, sotto la camicia hawaiana: da una parte aveva agganciato la radio, dall'altra aveva infilato la Browning. Tutt'e due l'avevano impacciato non poco durante la partita. — Tranquillo, Hiroshe — disse Trumbo, sorridendogli. — È il tipo di cui ci serviamo per tagliare gli arbusti. Avevo un lavoretto per lui. Vada avanti e faccia la buca. Ci metto solo un momento. — Posò a terra un se- gnaposto, mise la pallina nel taschino della camicia e si diresse con sicu- rezza verso il gigante. Nel frattempo sganciò la radio, passò sulla frequen- za della sicurezza e chiamò: — Fredrickson? Fredrickson? — Udì solo scariche. — Michaels? Smith? Dunning? — Niente. A sei metri dal gigante cambiò frequenza. — Will? — Sì, capo. — Vieni qui. Porta rinforzi. — Rimise a posto la radio e si avvicinò. Il gigante lo guardò avanzare. Trumbo vide che portava una sorta di collana o un amuleto d'osso... grossi denti luccicavano nel vivido sole. Si fermò a un metro e mezzo dal gigantesco hawaiano e disse: — Devi essere Jimmy Kahekili. Il gigante emise un brontolio e spostò nella destra l'ascia. Trumbo pensò che il ventre di quell'uomo era più grosso di alcune auto che aveva avuto in tempi meno favorevoli. Rotoli e pieghe di grasso penzolavano dal collo, dal petto e dalla parte interna delle braccia del gigante. — Allora, Jimmy Kahekili — disse Trumbo, con un'occhiata all'orologio — cosa vuoi? Devo tornare dai miei amici laggiù. Il gigantesco hawaiano emise di nuovo un brontolio e Trumbo si rese conto che i grugniti erano sillabe e che le sillabe formavano parole. — Hai rubato la nostra terra — disse il gigante. — Ho pagato questa terra del cazzo. E pago lo stipendio ai tuoi amici e ai tuoi vicini che lavorano qui. Il gigante portò l'ascia all'altezza della cintura. — Hai rubato tutta la no- stra terra. Tutte le isole. Hai rubato il nostro paese. — Ah — disse Trumbo con un sospiro, portando al fianco la destra, a qualche centimetro dal calcio della Browning. — Parli di tutte quelle stronzate sull'imperialismo Usa. D'accordo, abbiamo rubato il tuo paese. E allora? Lo fanno tutte le nazioni, testa di cazzo. Rubano il paese di altri popoli. Inoltre, a quel tempo non ero ancora nato. — Cercò di leggere ne- gli occhi dell'hawaiano, per capire se e quando avrebbe agito, ma gli occhi del gigante erano nascosti da pieghe di grasso. — Hai distrutto le nostre peschiere, haole. — Ora i grugniti erano più rapidi. — Peschiere? Ah, sì... Ma ho salvato i petroglifi. — In te non c'è malama per la 'aina... amore per la terra. Rubi e distrug- gi per guadagno. Trumbo lo fissò un momento, poi scrollò le spalle. — D'accordo. Non ho voglia di discutere con te. Sono un capitalista... un imprenditore. Ruba- re e distruggere per guadagno è la mia occupazione. Cento anni fa i Mari- nes hanno bastonato la tua regina e adesso io spiano con i bulldozer qual- che vecchia peschiera ormai esaurita. Cosa vuoi fare... massacrare con l'a- scia me e i miei amici? Jimmy Kahekili emise un versaccio che forse era un assenso e sollevò a due mani l'ascia. Intanto Trumbo pensava: "Il caricatore ha nove proiettili. Non credo che basteranno". Si domandò con quale velocità potesse correre un mostro di due quintali. Disse: — Ho un'idea più conveniente per te. Stavolta il grugnito del gigante era forse interrogativo. Trumbo lo inter- pretò in questo senso. — Senti, Jimmy — disse, girandosi in parte e indi- cando i giapponesi fermi in attesa a una decina di metri — sto per tirarmi fuori dal campo alberghiero. Quei tipi laggiù sono le persone con cui trat- terai in futuro. Non credo che mozzare la testa al capo del loro gruppo sarà d'aiuto al tuo piccolo piano nazionalista. Potrebbero non essere ben dispo- sti verso la tua sensibilità etnica e culturale, se rimandi a casa il loro gran- de capo in una decina di sacchetti per la spesa. Un grugnito meno forte. — Ma io ho simpatia per i tuoi scopi — disse Trumbo. — Anzi, ti dico fin dove arriva... diecimila dollari di simpatia. Le pieghe di grasso scrutarono Trumbo. Il miliardario protese la mano. — Non ti prendo per il culo. Non devi fa- re altro che tenere lontano i tuoi colleghi patrioti hawaiani ancora per qual- che giorno... una settimana al massimo... e l'assegno è tuo. Cazzo, il denaro è tuo oggi stesso, in contanti. Mi fido di te. Un grugnito. L'ascia si spostò. — Va bene? — disse Trumbo. — Qua la mano. — Tese la destra. Dopo un momento il gigante tese l'enorme rotolo di grasso che era il suo braccio. La mano di Trumbo scomparve e per un istante il miliardario si vide con il braccio staccato dal corpo ("Chissà come piacerebbe a Caitlin!") ma poi vide ricomparire la mano. Arrivò Will Bryant con Michaels e Smith. I due della sicurezza tenevano la mano sotto la giacca. — Will — disse Trumbo — ti dispiace accompa- gnare alla Grande Hale il signor Kahekili e dire al signor Carter di dargli diecimila dollari prelevandoli dal fondo spese accessorie? Li metta sotto la voce manutenzione del terreno. — Capo? — disse Will Bryant. — Mi hai sentito! — sbottò Trumbo. Sorrise al gigante. — Grazie per essere venuto, Jimmy. Ci sentiamo presto. Girò la schiena all'hawaiano e tornò sul green. Eleanor tornò nella sua hale, fece una rapida doccia, indossò una T-shirt su larghi calzoni di cotone e uscì di corsa per incontrarsi con Paul alla Grande Hale. Lungo la strada guardò se c'era in giro Cordie, ma non la vi- de sulla spiaggia, né al Bar del Relitto, né sulla lanai. Nell'atrio disse a Paul: — Mi piacerebbe che Cordie Stumpf venisse con noi. — Sì, certo — rispose il soprintendente. Parve rassegnato all'idea che ci fosse sempre un terzo incomodo. Eleanor chiamò la stanza di Cordie, ma non ebbe risposta. Sbirciò nel Belvedere delle Balene, ma il ristorante era deserto. L'intero villaggio turi- stico pareva deserto più del solito. Eleanor lasciò all'addetto alla reception un messaggio per dire a Cordie che l'avrebbe cercata nel pomeriggio e rag- giunse Paul fra i bronzei discepoli in preghiera di guardia all'ingresso. — Purtroppo dovremo noleggiare una jeep — disse Paul. — Ho qui la mia Taurus, ma andiamo in una zona di strade piuttosto accidentate. — Io ho una jeep — disse Eleanor. Fece dondolare le chiavi che aveva appena ritirato alla reception. — E la signora Stumpf? — domandò Paul, mentre passavano sotto la porte cochere e uscivano nel profumo e nei colori delle siepi di bougain- villea che lì fiancheggiavano la strada e i passaggi pedonali. — Non la trovo — disse Eleanor. — Immagino che saremo solo io e lei, signore. Paul Kukali sorrise. Entrando nel parcheggio, Eleanor si fermò, sorpresa. Nello spiazzo a tarmac vide solo altri cinque veicoli, oltre la sua jeep. — Pare che il posto si sia svuotato nel giro di una notte — commentò. Accomodandosi nel sedile accanto al posto di guida, Paul disse: — U- n'altra delle ragioni per cui stamattina la cercavo. Il signor Carter mette in guardia gli ospiti dai possibili pericoli delle colate di lava. Eleanor si lasciò cadere sul sedile arroventato, ma aspettò un istante a gi- rare la chiavetta dell'accensione. — Colate di lava? — ripeté, sorpresa. — Ma non sono ancora a vari chilometri a sud di qui? — Sì, però c'è sempre il rischio dei gas tossici. Inoltre il dottor Hastings, l'uomo del signor Trumbo all'Osservatorio Vulcano, ritiene che altri flussi di lava si muovano lungo questa faglia tettonica, anche se per ora non sono ancora saliti in superficie. — Nei condotti di lava — disse Eleanor. — Precisamente. Eleanor si mordicchiò il labbro, accese il motore e spinse la jeep sul lun- go viale, al di là del percorso di golf, dei giardini, dei campi da tennis e delle siepi di bougainvillea. Scorse un solo gruppo di giocatori sul campo da golf e un unico giardiniere al lavoro, col viso nascosto dal cappello; ma per il resto i terreni e i campi da tennis parevano deserti. Al di là del campo da golf, la strada diventava accidentata e serpeggiava nel deserto di a'a. Sotto il cielo azzurro e con il massiccio del Mauna Loa davanti agli occhi, pensò Eleanor, la strada maltenuta e gli accidentati campi di lava non pa- revano minacciosi come la notte in cui lei e Cordie erano arrivate al villag- gio turistico. Un uomo della sicurezza uscì dalla guardiola e li salutò con un cenno mentre uscivano. — Qualcuno lavora ancora — disse Paul, mentre svoltavano nella Stata- le 11. — La gente non viene a lavorare? Paul girò il viso verso di lei. — Qualcuno viene ancora. Molti no. — Gli occhiali da sole rendevano imperscrutabile la sua espressione. — A causa del vulcano o dei bizzarri avvenimenti nel Mauna Pele? — domandò Eleanor. Sulla statale mancava del tutto il traffico diretto a nord. Eleanor scorgeva le scogliere della penisola dove quella mattina aveva fat- to jogging. — La gente qui intorno è abituata al vulcano — disse Paul. — Sono i bizzarri avvenimenti quelli che non piacciono a nessuno. Proseguirono verso sud, oltrepassando Puuhonua O Honaunau, la cosid- detta Città del Rifugio. Dopo Kealia, una cittadina a cavallo della statale, gli unici segni d'insediamento erano un paio di baracche lungo la strada e le stradicciole che portavano ai villaggi di Hoopuloa e di Milolii, verso est. Paul disse che tutt'e due erano stati evacuati a causa delle colate di lava. Parecchi chilometri prima di scorgere la lava, Eleanor notò con stupore la quantità di fumo e di vapore che si alzava davanti a loro. Una muraglia di fumo tra il blu e il nero e una torre di vapore biancastro (pareva proprio davanti a loro) alta almeno 15 mila metri. Faceva un certo effetto correre verso un cielo così movimentato. Senza preavviso incapparono nel posto di blocco. L'attimo prima la jeep ronzava placidamente sui 70 all'ora e il vento arruffava i capelli a Eleanor; l'attimo dopo, superata un'altra curva, videro che duecento metri più avanti la strada era bloccata: c'erano cavalietti, segnali luminosi, due auto della polizia stradale. Eleanor rallentò e si fermò accanto all'agente fermo presso il primo segnale luminoso. — La strada è chiusa, signora — disse l'agente. Era hawaiano, ma aveva occhi azzurri. — La colata di lava l'ha interrotta, qui e anche più a est. Le conviene tornare indietro. Oh... ciao, Paul. — Ciao, Eugene — disse Paul Kukali. — Sono sorpreso che non ci sia un mucchio di gente a curiosare. — Abbiamo avuto anche noi la nostra parte — sogghignò l'agente. — Gli alberghi dei grossi villaggi turistici hanno mandato pullman di curiosi fino a stamattina. Ma c'è un allarme per gas tossici e altre colate dalla parte da dove vieni tu, così hanno smesso. La maggior parte dei turisti si trova sul lato verso Hilo. Anche in elicottero. — Quasi a sottolineare le parole dell'agente, un elicottero rombò a bassa quota sui campi di lava alla loro destra, risalì e girò attorno alla colonna di vapore. — Posso mostrare alla signora Perry com'è la pahoehoe ancora fresca? — Certo — disse l'agente. — Parcheggiate là sulla spalletta. Ma non av- vicinatevi troppo. Stamattina una signora del pullman del Mauna Lani è crollata a terra priva di sensi. Il calore è ancora molto intenso e i gas sono traditori. Paul annuì. Eleanor parcheggiò la jeep. Proseguirono a piedi lungo la strada, al di là dei cavalietti e delle auto della polizia stradale. — È incredibile — disse Eleanor. Aveva ragione. Una muraglia di lava grigia copriva la statale fino a un'altezza di tre metri nel suo percorso dal Mauna Loa alla costa, un paio di chilometri a est. Dalla superficie grigia e accartocciata si alzava ancora fumo. Quando le spesse pieghe di pahoehoe raggiungevano l'asfalto della statale, si vedeva facilmente il bagliore aran- cione della lava attiva, come striscia di luce da sotto una porta. Minuscole schegge si staccavano dalle crepe della mobile lava ritorta e svolazzavano sulle correnti d'aria calda. L'intera superficie si crepava e si moveva raf- freddandosi. L'erba nei pressi della colata era carbonizzata o mandava fu- mo, gli arbusti ai lati della strada ardevano o erano ridotti a mozziconi car- bonizzati. Per fortuna il fumo era spinto a sud, lontano da loro, ma per l'in- tenso calore Eleanor e Paul furono costretti a fermarsi a sei metri dalla mu- raglia di lava. Mentre Eleanor guardava, pieghe e falde di lava all'apparen- za già fredda si schiudevano come uova e il tuorlo di fuoco liquido fluiva sulla strada o sull'erba fumante. Dovunque la lava toccasse, scaturivano fiamme. — Incredibile — ripeté Eleanor, riparandosi il viso dal calore. — Questa colata ha attraversato la statale ieri mattina — disse Paul. — Già almeno cinque colate, a sud e a est di qui, tagliavano la strada. Eleanor scrutò le pendici del vulcano. Per la maggior parte erano oscura- te dal fumo. — Le vedono arrivare? — Di solito. Ma questa particolare colata è scaturita da un condotto po- sto solo tre o quattro chilometri più in alto. Ha colto di sorpresa le autorità. Per questo hanno fatto evacuare Milolii e Hoopuloa. Non sono sicure di ciò che il vulcano ha in serbo. Eleanor guardò verso sudovest, dove si levava la nube di vapore. — Mi sarebbe piaciuto vedere il punto dove la colata incontra l'acqua. — Diede un'occhiata nella direzione delle auto della polizia. — L'interruzione ci im- pedisce di andare dai suoi amici kahuna? Paul Kukali esitò. — Forse un modo ci sarebbe. Visto che abbiamo una jeep. Conosco quei vecchi e non credo che abbiamo permesso alle autorità haole di cacciarli dalle loro terre. Ma dovremo attraversare quella roba. — Con la destra indicò la muraglia di fumo e di fuoco fra la statale e la costa. — Attraversarla? — ripeté Eleanor, con voce tesa. — Si riferisce alla vecchia a'a? — Mi riferisco alla nuova colata. Alla prima, almeno. — Come possiamo attraversarla? — Eleanor arretrò di un passo, mentre un altro uovo grigio si schiudeva in una fornace infocata. Paul si strinse nelle spalle. — Arriviamo con la jeep alla colata e lì deci- diamo. È l'unico modo per andare dai kahuna a cui lei vuole parlare. Sta a lei decidere. Eleanor lo guardò per un momento. Ondate di calore facevano tremolare l'aria fra loro. Se Paul voleva dissuaderla senza discutere, pensò, aveva tro- vato un modo davvero ingegnoso. — Proviamo — disse. Tornarono rapidamente alla jeep. Cordie aveva superato metà della distanza che la separava dal bambino sul materassino galleggiante, quando vide la sagoma nell'acqua: nuotava pigramente a circa cinque metri dalla superficie e si trovava più vicino al bimbo atterrito che a lei. Era bianca. Anche da quella distanza Cordie scor- geva la bocca enorme e le file di denti acuminati. Il bambino sulla spiaggia aveva ragione: si trattava proprio di uno squalo. Cordie pagaiò con furia, schizzandosi il viso e le braccia. Ormai aveva trovato il ritmo giusto e sentiva il kayak scivolare sull'acqua mentre alter- nava i colpi di pagaia, destra e sinistra, destra e sinistra. Sentiva i muscoli della schiena protestare per lo sforzo e un dolore alle braccia. Sentì anche le fitte al bassoventre che continuava a rassodarsi dopo l'intervento chirur- gico. Non badò a quel dolore, come faceva da settimane. Si sporse sullo scafo affusolato, con i seni che premevano sulla fibra di vetro, e aumentò la forza dei colpi di pagaia. — Attenta! — gridò il bambino, mentre lei arrivava a meno di dieci me- tri. — Lo squalo! — Lo indicò col dito e rischiò di cadere dal materassino piegato in due. — Non muoverti! — gli gridò Cordie, rallentando i frenetici colpi di pa- gaia. Era senza fiato. Il kayak scivolò avanti sulle pigre onde e Cordie ri- prese fiato. Sentiva la corrente che aveva portato così lontano il bambino. Se ora avesse lasciato andare alla deriva il kayak, la marea o la corrente o che diavolo era l'avrebbero tirata al largo insieme con il bambino; kayak e materassino avrebbero raggiunto le alte onde che si frangevano sulla bar- riera corallina trenta metri più avanti. Ora udiva il rumore di quei frangen- ti, simile a una serie di esplosioni; la spuma andava alla deriva nelle acque più calme della laguna. Quando si guardò indietro, girando solo la testa, ebbe l'impressione che la spiaggia del Mauna Pele fosse a una distanza im- possibile. — Non muoverti! — gridò di nuovo, stavolta con voce più controllata. — Non cadere in acqua! Il materassino era sgonfio per metà e il bambino faceva uscire altra aria nell'affannoso tentativo di tenere piedi e gambe fuori dell'acqua. Aveva forse un paio d'anni più del fratello, ma era magro e pallido, con il petto in- fossato e qualche lentiggine. I capelli, tagliati corti, erano bagnati e irti. Ora il bambino indicò di nuovo il tratto d'acqua fra il kayak e il materassi- no. — È tornato! Cordie dovette sporgersi per vedere la creatura. Adesso si trovava a pro- fondità maggiore, forse a sette metri dalla superficie, ma l'acqua era molto chiara. Le fauci mostrarono i denti in un sorriso. Ma a parte l'inconfondi- bile bocca, la creatura pareva deforme, distorta. Invece del corpo perfetta- mente affusolato degli squali e della robusta coda a mezzaluna, quella sa- goma livida aveva protuberanze e rigonfiamenti, ma non pinne. "Pare la schiena di una persona con fauci da squalo nel punto dove do- vrebbe iniziare la colonna vertebrale" pensò Cordie. — Reggiti al materassino! — gridò. — Non muoverti. Adesso accosto. — No! — gridò il bambino, chiaramente terrorizzato all'idea di perdere il precario equilibrio. — Non ti tocco finché non sei pronto — disse Cordie. La luce del sole creava barbagli sull'acqua e lei era costretta a strizzare gli occhi. Alzò la mano per farsi schermo. Lì il moto ondoso era più accentuato... un mo- mento il kayak si trovava un metro e mezzo più in alto del bambino, il momento dopo un metro più in basso... ma non era niente a confronto della violenza dei frangenti verso i quali entrambi andavano alla deriva. — Tieni duro! — soggiunse manovrando facilmente la pagaia. Non sapeva bene come avrebbe fatto a prenderlo a bordo... nel pozzetto del kayak c'era po- sto solo per una persona... ma il materassino si sgonfiava rapidamente. — Attenta! — gridò di nuovo il bambino nello stesso istante in cui qual- cosa urtava con forza tremenda la chiglia del kayak. Per Cordie la luce divenne azzurra. I rumori le parvero nello stesso tem- po amplificati e soffocati. Cordie sentì l'urto dell'acqua contro il viso e gli occhi; si rese conto di non avere fatto in tempo a riempirsi d'aria i polmoni prima che il kayak si capovolgesse. Seppe subito che qualcosa l'aveva fatto capovolgere... aveva visto in TV centinaia di documentali dove qualche fusto di vent'anni si capovolgeva col kayak mentre attraversava rapide tu- multuose... solo che in TV il tipo raddrizzava sempre la piccola imbarca- zione nel giro di qualche secondo. Cordie si dimenò, ma continuò a restare capovolta. Intorno a lei si alzarono bollicine. Pareva che il peso stesso del kayak la tenesse sotto, capovolta. Per quanto si dimenasse, non riusciva a ribaltare il kayak né a muovere la testa verso la superficie, un metro più in alto. Sentì che le mancava l'aria, vide davanti agli occhi macchie nere che si mischiavano alla cascata di bolle argentee e cercò di uscire dal pozzetto. Non sapeva nuotare e lì l'acqua era alta; ma se fosse uscita dal pozzetto e si fosse aggrappata alla chiglia, forse avrebbe potuto usare il kayak come gal- leggiante e avvicinarsi al bambino movendo i piedi. "Il diario di zia Kidder" pensò: sarebbe caduto fuori, appena lei si fosse liberata. A quel pensiero sentì crescere il panico. Il cuore le batteva all'im- pazzata. Il petto le doleva per il bisogno d'espellere aria e cercare di respi- rare nell'acqua. Cordie rimase nel kayak e tentò per l'ultima volta di raddrizzarsi, spin- gendo il proprio corpo verso sinistra, verso l'argenteo soffitto della super- ficie. Dondolò indietro e rimase penzoloni. Qualcosa di grosso e di chiaro nuotò al limitare del suo campo visivo. Con l'ultima aria nei polmoni Cordie si chinò in avanti, come aveva fatto quando pagaiava, posò il petto contro il guscio di fibra di vetro del kayak capovolto, afferrò la chiglia come se fosse una recalcitrante gonna a crino- lina e tirò con tutta la forza che aveva nelle braccia. Il kayak si raddrizzò. Cordie soffocò nell'aria, tossendo e vomitando ac- qua marina, sempre china in avanti, tenendo dritta, con la semplice forza di volontà, la piccola imbarcazione dondolante. Alla sua sinistra il bambino gridava ancora. Cordie si asciugò gli occhi e vide il materassino affondare, vide il bambino indicare col dito e gridare. Due mani emersero dall'acqua ai lati del kayak, afferrarono lo scafo, lo scrollarono. Cordie allargò le braccia in un gesto istintivo per tenere in e- quilibrio il kayak. Le mani, robuste e scure, diedero uno strattone e il kayak si capovolse di nuovo, sulla destra; Cordie colpì violentemente l'ac- qua. Stavolta non andò sotto. Con le braccia e le mani ancora protese spinse via l'acqua e raddrizzò il kayak. Adesso il bambino era in acqua fino al petto: solo le due estremità del materassino contenevano ancora un po' d'a- ria e lo comprimevano come ali colanti acqua. — Dietro di te! — urlò il bambino e qualcosa urtò con forza il kayak. Cordie udì lo stridio di fibra di vetro lacerata e il kayak fece quasi un giro completo su se stesso. Una sagoma bianca tagliò l'acqua e tornò a inabis- sarsi. Cordie vide lo scafo squarciato proprio sopra la linea di galleggia- mento, dove denti acuminati avevano strappato con un morso cinquanta centimetri di scafo. Lo squalo girò intorno al bambino urlante, gli sfiorò i piedi e si precipitò contro Cordie. Cordie ebbe difficoltà a infilare il braccio fra le cosce e per un attimo pensò di avere perso la borsa; invece la trovò e la tirò più vicino. Udì l'ac- qua dividersi davanti e dietro la creatura-squalo che veniva all'attacco, ma intanto afferrò il libro, lo ricacciò nella borsa, sentì nella mano il ben noto peso della .38 a canna lunga del suo ex marito. Denti raschiarono contro la fiancata del kayak, asportando lunghe schegge di fibra di vetro; Cordie rischiò di nuovo di capovolgersi, ma al- largò il braccio... quasi lasciò cadere la .38... tenne le dita sul calcio della pistola, evitò che l'arma andasse in acqua nel dondolio di ritorno e si ritro- vò a puntare la rivoltella, reggendola a due mani, mentre la sagoma bianca si tuffava verso il materassino. Il bimbo ora pestava acqua e piangeva in si- lenzio. Cordie sparò quattro volte, smise solo quando la creatura fu troppo vici- no al ragazzo. Lo squalo parve inabissarsi; per un attimo, nauseata, Cordie aspettò di vedere il bambino trascinato sott'acqua. Invece la creatura- squalo scomparve sotto il materassino e il ragazzo piangeva ancora, pesta- va ancora l'acqua. — Nuota! — gridò Cordie. — Vieni qui! Subito! Nuota! Il bambino nuotò. L'acqua schizzava, mossa da mani e piedi, ma pareva che il bambino non andasse avanti. Cordie si guardò intorno alla ricerca della pagaia, non riuscì a scorgerla, capì di non poterla usare, con la rivol- tella in pugno, e allora usò la sinistra per spingere il kayak verso il bambi- no. Eccola! La sagoma biancastra si precipitava verso di loro, passando sotto il materassino. Si udì un sibilo d'aria, quando i denti dello squalo azzanna- rono il materassino; poi la sagoma bianca si lanciò a tutta velocità per gli ultimi sei metri. Dietro i piedi del bambino, Cordie vide le fauci spalanca- te: nero, candidi denti triangolari, pelle bianca, braccia, capelli neri. Alzò la rivoltella, la tenne ferma quanto le consentivano il cuore che le batteva convulsamente e il dondolio del kayak, e sparò gli ultimi due colpi, quasi fra i piedi del bambino. Almeno un proiettile raggiunse il bersaglio... Cordie udì un rumore soffocato, nauseante, come di mazzuolo contro carne morta... e poi la creatura-squalo sprofondò nell'acqua. Il bambino sarebbe finito a tutta velocità contro la fiancata del kayak, probabilmente rimediando un colpo alla testa, se Cordie non avesse allun- gato la sinistra e non l'avesse tolto di peso dall'acqua. Lo depositò di tra- verso davanti a sé, come un daino sul parafango. — Mettiti a cavalcioni! — ordinò. Lasciò cadere nella borsa la rivoltella ormai scarica, guardò ancora se trovava la pagaia, la vide galleggiare sulla corrente quindici metri più al largo verso i frangenti, la mandò al diavolo e iniziò a girare il kayak, usando come remi le mani. — Aiutami a pagaiare — disse al bambino. Il piccolo era a cavalcioni davanti a lei, simile a un ranocchio dalle zampe chiare, ben attento a tenere fuor d'acqua braccia e gambe. — Ma quella cosa in acqua mi... — Aiutami a pagaiare o ti butto giù — disse Cordie, in tono assoluta- mente piatto, credibilissimo. Il ragazzino si mise a pagaiare di lena, con mani e piedi. Con sei arti in movimento, cominciarono a vincere la corrente di risacca o qualsiasi cosa fosse. Il ritorno a riva richiese al massimo una decina di minuti. A Cordie par- ve un'eternità. Pensò a Sam Clemens e al suo orologio bloccato e capì che, se avesse avuto un orologio in grado di misurare il terrore, la lancetta delle ore avrebbe fatto parecchi giri completi. Sia lei sia il ragazzino frignante continuarono a guardarsi indietro, con occhiate a destra e a sinistra, in atte- sa che le mani della creatura o la testa o le fauci da squalo sbucassero al- l'improvviso dall'acqua, vicino a loro. Non videro segno della creatura. Arrivarono alle secche. — Aiutami a ti- rare fuori quest'affare... — cominciò Cordie, ma il ragazzino saltò giù dal kayak e parve correre sull'acqua, negli ultimi tre metri, prima di lanciarsi a tutta velocità sulla spiaggia incontro ai genitori e al fratellino in attesa. I genitori erano biondi e infuriati. Cominciarono a sgridare il bambino anco- ra prima che lui circondasse con le braccia i fianchi della madre. Il fratello più giovane sorrideva, con aria furbesca e compiaciuta. Cordie era sicura che se avesse tentato di uscire dal maledetto kayak mentre quella trappola era ancora in acqua, la creatura-squalo sarebbe schizzata fuori dalle secche, l'avrebbe afferrata e trascinata al largo. — Ehi — gridò alla famiglia — non potreste aiutarmi a... I quattro già si allontanavano, dandole le spalle: padre e madre gridava- no e prendevano a schiaffi il bambino in lacrime. — Non c'è di che — disse Cordie. Trasse un respiro profondo, rovesciò sulla destra il kayak e, dimenandosi, uscì dall'angusto pozzetto. Non subì alcun attacco. Trovò sabbia sotto i piedi, si alzò, raddrizzò l'imbarcazione prima che vi entrasse altra acqua. La trascinò in fretta sulla spiaggia, a sei metri buoni dall'acqua, poi la lasciò cadere per esaminarla. Due squarci frastagliati correvano per un metro e mezzo sul fianco sini- stro dello scafo e liste parallele di fibra di vetro si arricciavano come tru- cioli di legno. A metà, verso prua, una sezione dello scafo esterno era strappata a morsi: a tenere fuori l'oceano era rimasto solo il rivestimento interno di plastica. A Cordie parve un morso dato a un tramezzino... con una bocca larga novanta centimetri. Un'ombra le cadde addosso e Cordie sobbalzò, ma si trattava solo di un bagnino. Era uno di quei fusti belli come un Adone di venticinque anni, con una perfetta abbronzatura totale, capelli sbiancati dal sole e addominali in risalto sopra i calzoncini da bagno arancione. Il bagnino guardò a bocca aperta Cordie e disse: — Cosa diavolo ha fatto al nostro kayak? Cordie si alzò lentamente, si girò puntellandosi su di una gamba e mise nel pugno tutta la forza che aveva. Colpì il bagnino allo stomaco dai per- fetti muscoli in rilievo, proprio sotto il plesso solare. Il fusto emise un ver- so molto simile al rumore che Cordie aveva appena udito, quello dell'aria che sfugge da un materassino bucato, e cadde come un pezzo di legno get- tato via. — Perché non ci siete mai, quando c'è bisogno di voi? — ringhiò Cor- die. Tolse dal kayak la borsa, controllò che vi fosse ancora la rivoltella, a- prì il diario e vide con enorme sollievo che le pagine non si erano bagnate; tenendo stretti borsa e libro andò al Bar del Relitto, sotto le palme ondeg- gianti. Il barista era un hawaiano sovrappeso, della sua età. Si chinò sul banco e le sorrise, mentre lei si accomodava sullo sgabello. — Ehi, Ernie — disse Cordie. — Quattro Fuochi di Pele. Doppi. Non dimenticare che sono offer- ti dalla casa... ordine del signor Trumbo. E versa qualcosa anche per te. Quando arrivarono i bicchieri, Cordie si mise a sorseggiare con la lunga cannuccia e intanto, con cura, quasi con reverenza, aprì il diario di zia Kidder e riprese a leggere dal punto dove era stata interrotta. 17 O Kamapua'a tu sei quello con le setole irte. Tu che raspi radici! Tu che sguazzi negli stagni! O straordinario pesce del mare! O giovane divino! Antico canto a Kamapua'a, il dio-verro che si muta anche nel pesce chiamato Humuhumu-nukunuku-a-pua'a 18 giugno 1866, in un villaggio senza nome sulla costa Kona Anche se la tempesta era cessata, pareva pura follia abbandonare la no- stra asciutta capanna e il nostro cerchio di candele accese per uscire nella notte su consiglio di un ragazzo pagano, ferito, che ripeteva con insistenza che due innocui uccellini erano i fratelli e le spie del dio-demone Pana- ewa. Tuttavia lasciammo la capanna. Discutemmo a lungo questa decisione; sia il reverendo Haymark sia il signor Clemens divennero sempre più agitati, a mano a mano che la di- scussione si protraeva. Il nostro ecclesiastico sostenne che il racconto del ragazzo era pura assurdità. Il nostro corrispondente ribatté che la notte era stata piena di misteri e che i terrori del ragazzo non erano meno assurdi delle cose che avevamo visto dopo il tramonto. Io mi astenni dall'esporre il mio parere. Alla fine tutt'e due gli uomini si rivolsero a me. Il reverendo Haymark disse: "Signorina Stewart, le dispiace riportare al buon senso questa... que- sta... persona di lettere?". Il signor Clemens sbuffò e disse: "Signorina Stewart, se siamo in demo- crazia... e confido che il nostro reverendo Haymark creda ancora nella de- mocrazia... pare che lei abbia il voto decisivo per disporre come le aggra- da". Attesi in silenzio un secondo. Halemanu mi fissò con occhi atterriti. Gli altri due mi guardarono con vari gradi di vessazione clericale e di diverti- mento letterario. Alla fine dissi: "Ce ne andiamo. Ora. Stanotte". "Ma, signorina Stewart, di sicuro..." protestò il reverendo Haymark, il cui florido viso diventava ancora più rosso nella guizzante luce di candela. "Ho votato a favore della partenza" dissi io, interrompendo con tono de- ciso le proteste "non per paura di qualche babau delle isole Sandwich, ma perché abbiamo un ragazzo ferito che necessita di cure e... qualsiasi cosa il signor Clemens abbia visto stanotte, ci troviamo in suolo sacro pagano, o dovrei dire suolo sacrilego, dove si aggirano marciatori che non hanno buone intenzioni nei nostri riguardi." Il reverendo Haymark esitò a metà delle proteste per riflettere sulla mia argomentazione. "Il ragazzo dice di conoscere la strada per raggiungere il villaggio a un solo miglio da qui, fra settentrione e levante" dissi. "Si tratta del villaggio che il gruppo di suo zio cercava di raggiungere. Là il ragazzo ha parenti e la donna detta Pele kahuna forse conosce qualche cura popolare che po- trebbe aiutarlo. Se davvero tocca a me il voto decisivo, voto per avviarci in tutta fretta verso quel villaggio." "Suvvia" disse il signor Clemens. Mentre raccoglievo le mie poche cose, lo guardai corrugando la fronte. "Ripeto di non temere alcun uomo" dissi. "Tanto meno un empio uomo fatto di nebbia." Il signor Clemens arrossì e diede un morso al sigaro spento. Ce ne andammo in fretta, ma senza panico. I cavalli mostravano ancora il terrore messo in mostra in precedenza, quando i Marciatori della Notte erano vicino, e occorsero tutt'e due gli uomini per aiutarmi a sellare il mio solitamente docile lio. Il signor Clemens prese in sella davanti a sé il ra- gazzo e costui parve cavalcare abbastanza comodamente, malgrado la feri- ta alla testa. Confesso d'avere quasi trattenuto il respiro, mentre percorrevamo il viot- tolo fangoso fra quelle malevole mura di pietra. Quasi m'aspettavo che al- cuni degli dèi o demoni o defunti capi guerrieri del racconto del signor Clemens saltassero fuori da un nascondiglio e ci assalissero. Il buio era sufficiente a nascondere intere nazione di cannibali pagani in agguato die- tro quelle pietre antiche e inzuppate di sangue. Nessuno ci saltò addosso. Halemanu indicò una pista quasi invisibile che correva a levante del sentiero da noi seguito verso settentrione e nel buio senza stelle procedemmo di nuovo su per le pendici vulcaniche, con il si- gnor Clemens e il ragazzo all'avanguardia, il mio nervoso Leo alla coda del cavallo del signor Clemens e il reverendo Haymark più indietro. Mi ri- trovai a girare spesso la testa per controllare che l'ecclesiastico fosse sem- pre dietro di noi, che nessuna creatura coperta di scaglie o con fauci da squalo, dopo averlo strappato dal cavallo, si protendesse verso di me. Era buio, ma riuscivo a scorgere la sagoma corpulenta del ministro di Dio e u- divo chiaramente il suo asmatico respiro. Dopo un poco le stelle uscirono in tutto il loro tropicale splendore e alla loro luce, per quanto debole, riuscii a distinguere gli arbusti e i fiori che punteggiavano il panorama vulcanico tutt'intorno: ohia e ohelo (una sorta di mirtilli), felci del genere Sadleria e Polipodio, un'erba dalle spighette argentate e una grande varietà di piante bulbose con grappoli di bacche che parevano luccicare di un azzurro necrotico al chiarore delle stelle. C'erano diverse varietà di palme (ma non palme da cocco) e una profusione di ar- busti, di felci, di alberi dalle cui noci si estrae l'olio di tung e di alberi del pane; ma sempre di più, durante la salita, quella vegetazione floreale la- sciava posto a rivoli e fiumi di quella lava ritorta detta pahoehoe, sulle prime esigui e poi sempre più estesi. Procedemmo lentamente, col giovane Halemanu che pareva destarsi dal torpore per indicarci la via, e i nostri ca- valli avanzavano con grande cautela su costoni e terrazze di basalto co- sparsi di arbusti. In un'occasione, circa a metà strada, ci fermammo e tendemmo tutti l'o- recchio per udire meglio un rumore ritmico che proveniva da una certa di- stanza alle nostre spalle, simile a quello di un numeroso gruppo di persone che salmodiasse sottovoce; ma forse era il ritmo dei frangenti... anche se ormai ci eravamo allontanati parecchio dalla costa. "I Marciatori?" mormorò il signor Clemens, ma il ragazzo non rispose e noi non avremmo potuto rispondere. Allora incitammo i cavalli a tenere un'andatura meno prudente. Era quasi l'alba, quando giungemmo al villaggio, anche se "villaggio" è una parola troppo forte per indicare le sei o sette scalcinate capanne che incontrammo nel buio. Non c'erano luci. Nessun cane abbaiò per contesta- re la nostra intrusione. Per un momento rimanemmo lì in sella, convinti che qualsiasi cosa avesse divorato il gruppo del reverendo Whister avesse anche fatto a brani i parenti di Halemanu in quel villaggio. Ma poi il ra- gazzo gridò un richiamo in quel liquido torrente di sillabe che costituisce la lingua hawaiana e io colsi le parole wahine haole, che significa ovvia- mente "donna bianca", e in tono di domanda, wau lio, traducibile con "ac- qua per cavallo", e tutu che, come appresi più tardi, significa "nonna", e Ka huaka'i o ka Po di cui ricordavo il significato, "Marciatori della Notte". All'improvviso una decina d'ombre fu intorno a noi e varie mani ci strat- tonarono. Per un momento mi sentii completamente priva di volontà e la- sciai che quelle mani, ansiose ma all'apparenza non ostili, mi tirassero giù da Leo, mi depositassero a terra e mi toccassero con ingenua curiosità. Po- tevo udire le proteste del signor Clemens e del reverendo Haymark, ma an- che loro furono tirati giù da cavallo. Halemanu parlò di nuovo e un'ombra accanto a me rispose con voce di uomo anziano; senza altri preamboli, fummo spinti attraverso un tendaggio di fronde nella capanna più vicina e più grande delle altre. Ovviamente il villaggio non era abbandonato. Otto vecchi, tre donne più giovani e una tutu, vecchia come il tempo stesso, si sistemarono a sedere nella lunga capanna; visi e corpi rugosi erano adesso visibili nella fiochis- sima luce proveniente da due minuscoli lumi a olio di noce. Ci avevano spinti giù e adesso sedevamo con loro, in un rozzo cerchio, col signor Clemens quasi davanti a me, il reverendo Haymark accanto alla porta, lo sfinito ragazzo accanto alla vecchia nella'parte più buia della capanna. Il vecchio accanto al reverendo Haymark parlò di nuovo. Le parole che usci- rono da quella bocca sdentata non sarebbero risultate comprensibili neppu- re se il vecchio avesse parlato nella nostra lingua, ma Halemanu le tradusse facilmente. "Nonno domanda perché viaggiate in questa cattiva notte." Il signor Clemens rispose per noi. "Digli che andiamo alla chiesa e al villaggio del reverendo Whister. Il vecchio emise altri suoni in hawaiano." "Nonno dice che chiesa e villaggio sono uccisi. Nessuno rimane vivo là ora. Un cattivo posto. Kopu." Nel suo nuovo ruolo d'interprete, Kalemanu pareva più maturo. Il reverendo Haymark disse: "Domanda al nonno come mai il ministro e la gente del villaggio sono stati uccisi". Halemanu parlò lentamente, a occhi chiusi per il dolore della ferita. Un altro vecchio latrò una risposta. "Mio altro nonno dice che lui e altri kahuna lungo la costa pregato loro a morte" tradusse Halemanu, senza emozione. "Pregato a morte?" ripeté il nostro ecclesiastico, con evidente disgusto. "Sì" disse Halemanu. "Ma gli haole non morti quando pregati a morte, solo ammalati. Per questo i nonni che erano i più forti kahuna hanno canta- to antichi canti e aperto la porta del Mondo Sotterraneo così che eepa e kapua e moko e Pana-ewa stesso possono uscire e liberarci dai santi uomi- ni haole." "Liberarvi?" ripeté il signor Clemens. Sentii il mio cuore accelerare i battiti per la scelta delle parole fatta dal ragazzo. "Sì" disse Halemanu e aprì gli occhi. "I nonni ordinano a mio zio e agli altri guerrieri di riportare voi qui per sacrifìcio. Come il più giovane dei kahuna, ho avuto il permesso di andare. Solo per cattiva fortuna in nostro breve viaggio incontriamo i Ka huaka'i o ka Po. Mi risparmiano perché porto il nome del più famoso aumakua che serve Pana-ewa." A questo punto il signor Clemens e il reverendo Haymark tentarono di balzare in piedi, ma il vecchio accanto alla porta fece un gesto col mignolo e i due, per quanto robusti, caddero come se qualcuno avesse messo loro sulla schiena un grande peso. Per quanto si agitassero, non potevano alzar- si. Io non tentai di alzarmi. "Halemanu" cominciai. "Silenzio, donna disse il ragazzo, con voce imperiosa che parve più pro- fonda di quanto non dovrebbe essere la voce di un ragazzo. I vecchi iniziarono a salmodiare. La nenia parve entrarmi nel corpo co- me una droga, l'interno della capanna ondeggiò nel chiarore dei lumi a olio di noce e le palpebre mi divennero all'improvviso pesanti. Vedevo che il signor Clemens e il reverendo Haymark si dibattevano per contrastare gli effetti della nenia, ma senza migliore fortuna di me. In quel momento mi girai a guardare Halemanu. Il corpo del ragazzo parve incresparsi, come un lontano miraggio nel deserto a mezzodì; poi la carne parve fluire e mutare, ammorbidirsi e colare via come acqua scura in un'invisibile fogna. Rimase solo nebbia. Nebbia mutò e fluì. Nebbia si levò e prese la forma e la sagoma di un uomo, per quanto un uomo d'impossibile altezza, la cui testa sfiorava il soffitto della capanna circa tre metri sopra di noi. Guardai la nebbia turbinare nel chiarore dei lumi: quando venne, la voce uscì dalla nebbia, con la risonanza di un'enorme belva che ruggisca in fondo a un lungo tunnel. "E ora reclamo ciò che è mio! Kapu o moe, haole kanaka!" La nebbia in forma d'uomo balzò avanti in mezzo a noi. Eleanor riportò la jeep sulla Statale 11 e tornò indietro per un paio di chilometri fino alla strada secondaria per Milolii e Hoopuloa. Un cavaliet- to della polizia sbarrava la stretta stradina d'accesso. — Non gli giri intorno — disse Paul Kukali. — Qui la a'a farebbe a brandelli le gomme. — Scese dalla jeep e spostò il cavalietto. Eleanor pas- sò e Paul rimise a posto la barriera. La stradina era molto stretta, tutta curve e fiancheggiata da desolati campi di lava, simili a quelli che separavano dalla statale il Mauna Pele. Eleanor procedette a bassa velocità, come se s'aspettasse a ogni curva di veder sbucare gli agenti di polizia e di ricevere l'ordine di tornare indietro. Non c'erano altri veicoli. Milolii pareva un antico villaggio di pescatori sbalzato avanti nel tempo. Le poche case parevano abbandonate e silenziose; sulla porta dell'unico e- dificio pubblico, un negozio che vendeva di tutto, la polizia aveva affisso con puntine un ordine d'evacuazione. Il manifesto elencava le pene previ- ste per i colpevoli di saccheggio. Il vento aveva cambiato direzione e ora il fumo vagava fra le palme da cocco e le casette con il tetto di lamiera zinca- ta. Canoe a bilanciere erano a secco sulla spiaggia all'ombra. Raggi di sole filtravano tra il fumo e secondo Eleanor conferivano al panorama una bel- lezza indescrivibile. — Giri in quella strada parallela alla spiaggia — disse Paul Kukali. La "strada" era una coppia di solchi di ruote, appena visibile, che corre- va fra la vegetazione tropicale e poi attraversava campi di felci. — Qui la gente va davvero a pesca — disse Paul. — Questo è uno degli ultimi veri villaggi di pescatori di Hawaii. Ma per arrotondare i guadagni la gente coltiva piante d'anturio e felci, però ha dovuto portare da fuori il terriccio. Come può vedere, i campi di lava non lasciano crescere molto. Eleanor vedeva benissimo. Il rozzo sentiero aveva lasciato i campi fertili e ora la jeep sobbalzava su rocce sminuzzate, al limitare di colate di lava che si estendevano in tutte le direzioni. Spruzzi si alzavano da dove l'ocea- no si frangeva contro gli scogli, un centinaio di metri alla loro destra. Circa un chilometro più avanti, il vapore della colata di lava saliva fino alla stra- tosfera. Ora il fumo era più denso e si allargava come sfrangiatura di neb- bia sopra il nero basalto. Eleanor proseguì verso sud lungo la costa, attenta a non rovinare le gomme contro la a'a che fiancheggiava il sentiero pieno di solchi. Dopo alcuni minuti, quando il fumo diventò quasi troppo fitto per continuare, Paul disse: — Fermiamoci qui. Scesero dalla jeep e proseguirono a piedi. Lì c'era la stessa colata di lava che aveva invaso la statale, ma pareva alta il doppio e copriva le vecchie formazioni di a'a e di pahoehoe. Eleanor guardò la muraglia di lava appe- na rappresa che si crepava e si sfaldava: alta almeno quattro metri, scom- pariva nel fumo a est e a ovest. Ogni arbusto e alberello nel raggio di una decina di metri dalla colata era bruciato o bruciava in quel momento. L'er- ba mandava fumo. Nuova lava fuorusciva da cinque o sei fessure e scorre- va sul terreno, incendiando altra erba. L'odore, pensò Eleanor, ricordava l'autunno nel Midwest, quando lei era bambina ed era consentito bruciare le foglie. Ma sotto il piacevole odore di foglie bruciate c'era il puzzo di zolfo e di altri gas tossici. — Immagino che quella non l'attraverseremo in macchina — disse. Paul indietreggiò e con un fazzoletto di seta rossa si coprì bocca e naso. Gli lacrimavano gli occhi. — Le persone che lei voleva vedere vivono quattrocento metri più in là. Eleanor lo guardò di traverso. — Crede che siano ancora lì? Con questo finimondo? Paul si strinse nelle spalle. — Sono testardi. — Anch'io — disse Eleanor. Andò avanti e indietro lungo la colata di la- va, cercando una zona dove il bagliore arancione e il calore fossero meno intensi. Alla fine si accostò, si riparò il viso e alzò il piede sopra una bassa bolla di roccia grigia. Appena lo posò, varie scaglie si staccarono dalla la- va in fase di raffreddamento e svolazzarono verso di lei. La roccia era caldissima. Eleanor rimpianse di non essersi messa calza- ture più robuste delle scarpe di tela. Ma quando lei calcò con tutto il suo peso il gradone di pietra nuova la suola di gomma non si fuse e la crosta di lava non si crepò. Salì di un passo. — Ora provo ad attraversare — disse, badando bene a mettere i piedi su di una solida cresta mezzo metro più in alto. Paul Kukali borbottò qualcosa, ma seguì le sue orme. Eleanor attraversò lentamente la colata di lava, posando i piedi con pru- denza, come se attraversasse su rocce scivolose un rapido torrente. Da ogni parte c'erano fenditure da cui sgorgava il vero calore della roccia ancora fusa. Fumo, vapore e gas sulfurei si levavano a ondate da crepe e fessure e si univano alla cappa di fumo che ora oscurava il sole. Eleanor sentiva che la suola e i lati delle scarpe di tela cominciavano a rammollirsi, per cui si mosse il più rapidamente possibile, senza mai soffermarsi più del necessa- rio in un posto molto caldo. Cercò di non pensare a che cosa sarebbe suc- cesso se fosse sprofondata. — Qua sotto — disse Paul Kukali, circa a metà della traversata dei ses- santa metri di lava — la vera lava scorre come un fiume. Sopra il flusso, la crosta è più sottile. — Grazie — disse Eleanor, fermandosi per tossire. — Cercavo proprio di non pensarci. — Mosse un altro passo. Alla loro destra, il sibilo, lo scoppiettio e lo sfrigolio della lava che incontrava il freddo oceano pareva- no i rumori di una radio a tutto volume che captasse solo scariche. In un'occasione la roccia si crepò davvero come ghiaccio marcio e Elea- nor non solo fu costretta a ritrarre il piede in un lampo ma addirittura a sal- tare più in alto, sopra una piega di roccia grigia distante un metro e mezzo, per evitare l'esplosione di calore e il lento zampillo di lava. Rimase ferma per qualche secondo, tremante; poi andò avanti. Aveva sempre apprezzato zia Kidder e le sue avventure in selvagge parti del mondo, centotrenta anni prima, ma ora capiva per esperienza personale quale coraggio avesse avuto quella donna nell'attraversare la crosta del Kilauea durante l'eruzione. "Forse" pensò "nelle donne della nostra famiglia che seguono l'esempio di zia Kidder non si tramanda solo la tendenza a restare zitelle. Forse c'è an- che un gene di follia." Mosse un altro passo. I fuochi sul lato nord della colata resero più difficile la discesa, ma alla fine Eleanor trovò un punto da cui poteva fare un salto di un metro sull'er- ba fumante. Si allontanò dal calore e per un momento rimase ferma sulla roccia solida, sentendo un leggero tremito alle gambe, ma anche quell'im- pressione di veleggiare a mezz'aria prodotta a volte dall'adrenalina. Paul la raggiunse. Aveva il viso sporco di fuliggine (Eleanor pensò che pure lei era di sicuro nello stesso stato) e corrugava la fronte. — Dio santo — disse. — E dobbiamo attraversarla di nuovo al ritorno. Mi auguro che non copra la jeep, mentre andiamo a far visita. Eleanor prese fiato. Probabilmente avrebbe dovuto parcheggiare più lon- tano dalla colata. Ancora non era esperta di vulcani. Ma imparava, pensò. Camminarono nella desolazione di fumo e di a'a, seguendo i solchi di ruote che proseguivano al di qua della colata. I due anziani kahuna erano fermi fuori della vecchia roulotte Airstream. Tutt'e due maschi, hawaiani, sui settanta... come minimo... indossavano je- ans, camicie sbiadite con tasche chiuse da automatici e logori stivali da cowboy. Erano talmente simili in aspetto, espressioni e atteggiamenti che Eleanor li ritenne gemelli. — Aloha — salutò quello che fumava una sigaretta, scena incongrua in mezzo a tutto quel fumo che nascondeva sempre il cielo, l'oceano e ogni cosa distante più di quindici metri dalla roulotte. — Vi aspettavamo — soggiunse, gettando a terra il mozzicone e schiacciandolo sotto il piede. — Entrate, così ci togliamo dall'aria cattiva. La roulotte non era grande e puzzava di bacon e di unto. I quattro si strinsero nella zona pranzo, Eleanor e Paul da una parte del tavolo, i due kahuna dall'altra. Una donna anziana, dallo sguardo placido e dai capelli bianchi, occupava un divanetto a molle, nella penombra all'altra estremità della roulotte. Eleanor rivolse un cenno di saluto alla donna, ma gli uomi- ni, Paul compreso, si comportarono come se non la vedessero. Paul fece le presentazioni. — Eleanor, questi sono i miei prozii, Leonard e Leopold Kamakaiwi. Kapuna, questa è la dottoressa Eleanor Perry. De- sidera parlarvi. Leopold, quello seduto verso l'esterno della panca, ripiegò le mani sul tavolo di formica e sorrise a Eleanor. Gli mancava qualche dente, ma i re- stanti erano bianchissimi. — Un medico — disse, annuendo compiaciuto. — È un bene che sia venuta. Ho un dolore alla spalla e mi piacerebbe che lei lo facesse andare via. — Non sono quel genere di... — cominciò Eleanor, ma s'interruppe: a- veva capito che Leopold la prendeva in giro. Ricambiò il sorriso. — Dovrà togliersi la camicia. Il vecchio alzò le mani, come sconvolto per il suggerimento. — No, no! Mahalo nui, non mi tolgo mai la camicia davanti a una bella wahine, se non dopo qualche bicchierino. — Dal vicino scaffale prese una bottiglia e quattro bicchieri impolverati. Leonard Kamakaiwi invece non sorrise, mentre diceva in tono severo: — Paul, questa è la tua nuova ipo? Siete stati wela kahao? Paul Kukali sospirò. — No, Kapuna. La dottoressa Perry è una cliente del villaggio turistico. — Si rivolse a Eleanor. — Kapuna significa "non- no" o "anziano", ma anche "saggio". A volte si usa in modo approssimati- vo. Leopold ridacchiò. — Lasciate che vi versi un po' di saggezza — disse. Riempì di un liquido scuro i bicchieri. Brindarono, facendo tintinnare i bicchieri, e bevvero. I fumi alcolici col- pirono Eleanor circa nello stesso momento in cui il liquido si apriva un sentiero ardente giù per l'esofago e le metteva a fuoco lo stomaco. Il gusto pareva quello di kerosene puro. — Cos'è? — domandò Eleanor, appena fu di nuovo in grado di parlare. — Okolehau — ridacchiò Leopold. — Significa "fondo di ferro". Si ri- cava dalla radice ti. Si faceva fermentare nelle pentole di ferro per il grasso di balena. Da lì deriva una parte del nome... hau, ferro. — Be', di sicuro mi ha sbattuto con l'okole per terra — disse Eleanor, bevendo un altro sorso. Perfino l'arcigno Leonard si unì alla risata. Leopold versò a Eleanor dell'altro okolehau e disse: — Cosa vuole, dot- toressa Eleanor Perry? Eleanor inspirò a fondo e decise di mettere le carte in tavola. — Paul mi ha detto che siete kahuna. I due la guardarono, impassibili. Eleanor considerò il loro silenzio come una conferma. — In questo caso — proseguì — sono curiosa di sapere se siete kahuna ana' ana o kahuna lapa' au. — Il primo termine indicava uno stregone in grado di praticare la magia nera. Il secondo, un sacerdote che guariva gli ammalati sia nel corpo sia nello spirito. — Perché — domandò Leopold, mostrando di nuovo i denti bianchissi- mi. — Vuole che qualcuno sia "pregato a morte"? Leonard fece un gesto che invitava a non prendere sul serio la domanda del suo gemello. — Ci sono kahuna che possiedono tutt'e due i poteri — disse a voce bassa. Eleanor annuì lentamente. — O gemelli che ne possiedono uno a testa? I due vecchi rimasero in silenzio. — Sono cose che non mi riguardano... — cominciò Eleanor. — Vero, vero — disse con un sorriso Leopold Kamakaiwi. Bevve un sorso di okolehau. — Sono cose che non mi riguardano — riprese Eleanor — ma penso che voi tentiate di "pregare a morte" il Mauna Pele. Penso che abbiate aperto il Mondo Sotterraneo di Milu e abbiate permesso agli antichi demoni di u- scirne. Penso che abbiate fatto venire Pana-ewa e Nanaue e Ku e altri. Pen- so che ci sono stati dei morti e che voi dovete fermare questa storia. — S'interruppe, sentendosi il cuore in gola. In quel momento si rendeva dav- vero conto di trovarsi a parecchi chilometri da qualsiasi luogo frequentato, sola con tre uomini, tutt'e tre da lei già sospettati d'essere kahuna, e nell'in- furiare di colate di lava. Era uno dei motivi per cui aveva lasciato alla re- ception un messaggio per Cordie, indicando dove e con chi era andata. Nel lungo silenzio che seguì, si udirono chiaramente i sibili e i crepitii della colata di lava che colpiva l'oceano a cinquecento metri di distanza. Eleanor diede un'occhiata alla sporca finestrella sopra il tavolo e vide pas- sare ondate di fumo. Davano l'illusione che lei e gli altri galleggiassero tra le nuvole. Per quanto ne sapeva, in quel momento potevano davvero volare fra le nuvole, mentre i kahuna la portavano da qualche parte sul vulcano, come vittima sacrificale. "Calma, Eleanor" si disse. "Tieni i piedi per ter- ra." Alla fine Leonard disse: — Non volevamo che ci fossero dei morti. De- ve crederci. Leopold scrollò le spalle e versò altro okolehau. — A dire il vero, non credevamo che l'antica magia funzionasse. Paul Kukali toccò il braccio a Eleanor. — Non sono stati solo zio Leo- nard e zio Leopold — disse. — Kahuna di tutte le isole hanno cantato le antiche salmodie nel medesimo giorno. Colpa mia. Ho detto che non c'era possibilità d'appello, dopo che la corte si era rifiutata di salvare le peschie- re e i campi di petroglifi. I miei zii mi hanno dimostrato che invece c'era possibilità d'appello. Leonard scosse la testa. — Era sbagliato. Ho detto che era sbagliato. Era meglio lasciare sepolti i moko. Era meglio non fare appello agli dèi. — Bevve una lunga sorsata. Con sorpresa Eleanor si rese conto che Leonard era il kahuna lapa' au. Lo stregone medico. Il gioviale Leopold invece comandava le forze delle tenebre. Come se le leggesse nella mente, Leopold le rivolse un sogghigno. — Non potete fermarli? — domandò Eleanor. — No — risposero insieme i due vecchi. Leonard proseguì: — Per mesi tutti i kahuna hanno fatto il tentativo. Nessuno voleva che la gente moris- se. Ma le antiche salmodie hanno funzionato per liberare gli esseri del Mondo Sotterraneo. Non ne sappiamo abbastanza per chiudere di nuovo l'apertura e rimandarli nelle tenebre. — Pele... — cominciò Eleanor. Leopold agitò la mano. — Pele è in collera con noi... — Ripeté il gesto, indicando stavolta il fumo visibile dalla finestra. — Ma non ascolta. — Non ha più ascoltato da generazioni — disse Leonard, imbronciato. — Abbiamo perduto le antiche consuetudini. Abbiamo perduto il nostro orgoglio. Non meritiamo che lei ci dia ascolto. Eleanor si sporse. — Non ci sono Pele kahuna? Le sacerdotesse di un ordine segreto che intercedono per voi presso Pele? Leopold la guardò di traverso. — Come fa a sapere tutte queste cose, haole? — Legge! — disse Paul Kukali, con una traccia d'ironia. Eleanor gli scoccò un'occhiata, poi guardò i gemelli. — Mi sbaglio? — Si sbaglia — confermò in tono piatto Leonard. — Cento anni fa c'e- rano Pele kahuna. Cinquanta anni fa c'erano Pele kahuna. Ma ora sono scomparse tutte. Le donne sono morte senza tramandare i propri segreti. Non c'è nessuna. — Nessuna? — gli fece eco Eleanor, provando qualcosa di simile alla nausea. Il suo piano ingegnoso era appena andato a rotoli. Guardò la vec- chia sul divanetto, quasi a cercare aiuto, ma lo sguardo della donna rimase così inespressivo che a lei venne un dubbio: forse era cieca. — Nessuna — disse Paul — tranne Molly Kewalu. Leopold sbuffò. — Molly Kewalu è pupule. Pazza. Folle. — E non parla con nessuno — disse Leonard. Leopold ripeté il gesto di prima. — Vive in alto sul vulcano, dove non c'è strada. Occorrono giorni di cammino per andare da lei. Probabilmente è già stata presa dalla lava. — Come fa a vivere lassù? — domandò Eleanor. — Non ci cresce nien- te. Cosa mangia? — Le donne la tengono in vita — rispose Leopold, sbuffando di nuovo. — Le donne dei villaggi pensano ancora che lei ha mana e le hanno porta- to cibo manauahi, gratis, per cinquanta, sessant'anni. Ma lei è solo una vecchia pazza. Pupule. Eleanor guardò Paul. Il soprintendente scosse la testa. — Molly Kewalu sostiene di parlare a Pele — disse. — Ma la stessa cosa sostengono metà delle vecchie hawaiane nel reparto demenza senile dell'ospedale di Hilo. — Tuttavia... — riprese Eleanor. Paul fece lo stesso gesto dello zio. — Eleanor, conosce la leggenda se- condo la quale non bisogna portare via dal vulcano nessuna pietra per non offendere Pele? — Naturalmente — rispose Eleanor. — È l'unica cosa che i turisti sanno di Madame Pele. Alla dea non piace che rubino la sua lava. Porta sfortuna prendere una pietra, giusto? — Giusto — disse Paul. — Ogni anno i ranger del Parco Nazionale dei Vulcani ricevono per posta centinaia di pietre. Molte provengono dal con- tinente americano, ma ne arrivano da tutto il mondo, soprattutto dal Giap- pone, di questi tempi. I turisti le rubano e poi le rimandano qui, con un bi- glietto che parla della sfortuna avuta dopo il furto. Quattro volte all'anno i ranger devono riportare al vulcano le pietre e lasciarle lì con delle offerte, di solito una bottiglia di gin, per placare Pele. Eleanor, hanno migliaia di questi pezzi di lava restituiti da gente con la coscienza sporca. Quattro vol- te all'anno c'è un corteo di camion della nettezza urbana pieni di pezzi di lava. — E allora? — E allora non c'è mai stata quella leggenda, quel tabù. — Nessun kapu — confermò Leopold. — In un articolo ho ricostruito le origini della cosiddetta leggenda — continuò Paul. — Questo "antico tabù" di non rubare rocce vulcaniche in realtà iniziò negli anni Cinquanta... fu inventato da un autista di pullman, stufo di ripulire il veicolo dalla polvere di lava ogni volta che i turisti se ne tornavano con le loro maledette pietre. Eleanor rise, inebriata dall'okolehau. — E vera questa storia? — Sì — rispose Paul. Eleanor fece lo stesso gesto fatto dagli uomini. — Ma cos'ha a che fare con Molly Kewalu? — Anche questa è una falsa leggenda — disse Paul. — Molly farnetica- va d'essere in termini confidenziali con Pele, ma è solo una vecchia pazza che si nasconde lassù dove nessuno riesce a prenderla e a rinchiuderla. — Si nasconde dove? — domandò Eleanor. — Nella regione disabitata — disse Leonard. — A Ka'u. In una grotta nella zona della dorsale del Mauna Loa che gli anziani chiamavano Ka- hau-komo, perché due alberi hau crescevano là dove nessun albero può crescere. — Hau — disse Eleanor. — Ferro. Come in "albero del ferro". Leonard brontolò. — La grotta di Molly Kewalu è da qualche parte nei pressi della grossa roccia chiamata Hopoe dagli antichi — disse. — Per centinaia di anni la roccia era così perfettamente bilanciata che il vento la faceva dondolare. I nostri antenati le diedero il nome in onore di Hopoe, il famoso danzatore di Puna che insegnò la danza a Hi'iaka, la sorella minore di Pele. — Brontolò di nuovo. — La roccia cadde nel 1866, quando Pele si svegliò e mostrò la propria collera. Eleanor toccò la mano ai due vecchi, uno alla volta. I due alzarono gli occhi dal proprio bicchiere. — Con il vostro canto avete liberato quegli spiriti — disse Eleanor. — Non c'è un modo per rimandarli nel Mondo Sotterraneo? L'espressione d'impotenza negli occhi dei due fu risposta eloquente. La vecchia non aprì bocca. Paul guardò l'orologio. — Dovremmo fare ritorno — disse. Terminò di bere. — Se la jeep non è stata incenerita o sepolta. Eleanor scrollò le spalle. — È a noleggio. — Nell'uscire rivolse un cen- no alla silenziosa vecchia, irritata perché Paul e gli altri due la trattavano come se non esistesse. Fuori, il paesaggio era surreale come prima. Il fumo era più denso e si moveva più rapidamente sotto la spinta del vento che saliva da sud. Il ru- more della lava che faceva ribollire l'oceano era chiarissimo. — Kapuna — disse Paul ai suoi zii — le colate di lava si muovono rapi- damente. Hanno evacuato tutti i villaggi fra qui e il Mauna Pele. Non veni- te con noi? Leonard Kamakaiwi gli lanciò un'occhiataccia. Leopold Kamakaiwi si mise a ridere. I due rientrarono nella roulotte. Al ritorno, il campo di lava pareva più caldo e ancora più infido. Eleanor si domandò se le sarebbero venute le vesciche ai piedi. Un albero accanto alla jeep cominciava a fumare per il calore di parecchi nuovi rivoli di lava, ma il veicolo era intatto. — Dobbiamo parlare — disse Paul, quando furono sulla Statale 11 e puntarono a nord. La luce del pomeriggio gettava la loro ombra sulla roc- cia nera alla loro destra, mentre procedevano lentamente. Il fumo era anco- ra denso, lì, e il puzzo di zolfo era acre. — D'accordo — disse Eleanor. — Mark Twain non ha mai scritto niente che riguardasse il periodo in- torno al 1860 in cui i Marciatori della Notte costruirono uno heiau nelle vicinanze del punto dove adesso si trova il Mauna Pele. Noi... i kahuna... lo sappiamo solo da canti trasmessi per tradizione orale. Lei l'ha scoperto da qualche altra parte. Eleanor tentò di cambiare argomento. — Paul, lei è davvero un autentico kahuna? Il soprintendente rispose con una risata cinica e sprezzante, che a Elea- nor ricordò Leonard. — Non sarò mai un vero kahuna — disse, con lo sguardo perduto nel fumo che si levava a ondate davanti a loro. — La mia educazione occidentale mi ha derubato della credulità necessaria per impa- rare. I miei occhi razionalisti da haole non possono vedere con chiarezza. — Eppure lei crede in ciò che i suoi zii e gli altri hanno fatto al Mauna Pele? — disse Eleanor. Paul la guardò. — Ho visto il cane... Ku... portare in bocca la mano della sua vittima. Ho visto altre cose, laggiù, di notte. Eleanor non gli chiese quali. Non era il momento. Disse invece: — Ho sempre a disposizione quel giro in elicottero? Paul rise. — Vuole ancora farlo? — Sì. — È tutto suo. Il mio amico atterrerà al Mauna Pele fra qualche ora... verso il crepuscolo. A meno che le autorità non abbiano costretto la gente a evacuare il villaggio e la lava non l'abbia già coperto. Altri favori? — Mi dica solo chi era quella vecchia — disse Eleanor, mentre si avvi- cinavano all'ingresso del Mauna Pele. Lì il fumo era meno denso, ma chia- ramente visibile. Il vento da sud era caldo e umido. — Quale vecchia? Molly Kewalu? Eleanor svoltò nella strada del villaggio turistico. La guardia li riconob- be, li salutò amichevolmente e tolse la catena. Procedettero fra i campi di a'a. La costa distava meno di quattro chilometri, ma, come lo stabilimento, si perdeva nel fumo. — No — disse Eleanor — la vecchia nella roulotte con i suoi zii. Paul la guardò curiosamente. — Quale vecchia? Nella roulotte non c'era nessuna vecchia. — Abbiamo tolto reggipetto e mutande — disse Byron Trumbo. — I preliminari sono terminati. Che cazzo c'è? Will Bryant trasalì alla volgare metafora. — Il signor Sato è in pensiero per Sunny. — Merda — disse Trumbo. Anche in quella folle situazione, le trattative erano andate avanti molto bene secondo il piano. Quel pomeriggio, alle tre, dopo un fantastico pranzo nella lanai privata al sesto piano e una dimostra- zione di hula eseguita da cinque ballerine professioniste che Trumbo aveva fatto venire in aereo da Oahu, avevano ripreso le trattative. Alle quattro e un quarto il prezzo era stato fissato in 312 milioni di dollari ed erano stati vergati i documenti. Sato aveva portato con sé una falange di avvocati; Byron Trumbo aveva a libro paga otto avvocati, ma odiava portarseli die- tro e aveva affidato a Will Bryant il compito di esaminare la prima stesura. Will era laureato in legge, come Bobby Tanaka, e i due avevano trascorso un'ora a controllare tutte le clausole dell'accordo. Alle cinque e un quarto il contratto era pronto per la firma, sul lucido tavolo di tek e mogano nella sala conferenze della Suite Presidenziale. Ma Hiroshe era in pensiero per Sunny Takahashi. — Merda — disse Trumbo per la ventesima volta in quella lunga giorna- ta. — Notizie da Fredrickson sulle ricerche di Sunny? — No — rispose Will Bryant. Stava ancora esaminando una copia del contratto che avrebbe mutato il Mauna Pele da villaggio turistico a club golfistico giapponese e che avrebbe salvato da gravi difficoltà finanziarie il gran capo. Gli occhiali di tartaruga e i capelli a coda davano a Bryant l'aria di un serio studente in legge. Il completo Donna Karan, da tremila dollari, guastava quell'immagine. — Niente su Briggs? — Trumbo aveva avuto in simpatia la sua guardia del corpo. — No. — Niente su Dillon? — No, sempre disperso. — Hai convinto Bicki a partire? — No. È uscita a fare il bagno. — Maya? — Anche lei insiste per restare. — Caitlin? — Lei e il signor Koestler continuano a chiamare New York. Quindi pensano ancora di poterla costringere a vendere al loro prezzo. Caitlin ha tentato due volte di andare dal signor Sato, ma i nostri uomini non l'hanno lasciata passare. Trumbo si distese sul divano e mise i piedi sul cuscino. — Sono stanco. Will Bryant annuì e girò un'altra pagina del contratto. — È sicuro di vo- lere che Sato effettui il pagamento tramite la nostra holding Miami Entertainment? — Sì — disse Trumbo. — Così sarà più facile per le tasse; carichiamo le perdite sulla Miami Entertainment Inc. e poi la liquidiamo; intanto sposto il grosso dei capitali sui conti gemelli nelle Cayman e mettiamo nell'affare la vendita delle due case da gioco. Così ammortizziamo tutto questo casino a scopo fiscale e mi resterà il contante per assorbire la Hughes Satellite Cable Service e rifinanziare l'accordo Ellison. Bryant annuì. — Potrebbe funzionare. — Funzionerà — dichiarò Trumbo deciso. Si alzò a sedere. — Secondo te, Hiroshe ha bevuto la storia che Sunny se l'è spassata tutta la notte e che adesso si rimette in quadro da qualche parte con le ragazze? Will Bryant posò il contratto sul tavolino da caffè. — Be', Sunny è fa- moso per le feste. Ma è anche famoso per essere puntuale il mattino dopo. Il signor Sato è fuori di sé. — Bobby ha esaminato i nastri? — Com'era logico, Trumbo aveva fatto mettere sotto controllo la suite di Sato e gli apparecchi telefonici. Com'era logico, gli addetti alla sicurezza di Sato avevano ripulito le stanze e i tele- foni, togliendo le "cimici". Trumbo aveva adoperato microfoni parabolici per captare da un centinaio di metri le vibrazioni delle voci contro le fine- stre della suite e i computer avevano ricostruito le conversazioni. Aveva anche adoperato le più moderne apparecchiature audio e video a fibre otti- che, sottili come un capello umano, nascoste fra la moltitudine di piante ornamentali nella suite di Sato, e anche questi dati erano stati trasmessi ai registratori a nastro nella suite di Trumbo. Bobby Tanaka e due uomini della sicurezza avevano esaminato per tutto il pomeriggio le registrazioni. — Bobby dice che il signor Matsukawa è dell'idea di lasciar perdere l'af- fare — riferì Will, sorseggiando acqua fredda da un alto bicchiere. — Quel vecchio stronzo — brontolò Trumbo. — Peccato che non ab- biano preso lui, anziché Sunny. — Inazo Ono è sempre entusiasta. E lui è il più intimo amico del signor Sato e anche responsabile della trattativa. Trumbo chiuse gli occhi e si massaggiò la base del naso. — Per quattro milioni dei miei sudati dollari è meglio che quel bastardo di Ono sia dav- vero entusiasta dell'affare! E probabilmente Hiroshe gli darà una bella fetta del club golfistico come premio per la serrata trattativa. — Sì — disse Will. — Bene, tutto è in ordine, a parte la firma. — Deve firmare oggi — borbottò Trumbo, sempre a occhi chiusi. — Quel maledetto fumo del vulcano aumenta e non credo che riusciremo a tenere duro ancora un giorno. Quanti ospiti rimangono? — Uhmmm — disse Will, controllando gli appunti. — Undici. — Undici — ripeté Trumbo. Pareva prossimo a una crisi isterica. — Cinquecento merdose stanze e solo undici ospiti paganti. — Il signor Carter ha avvisato la gente... — Carter! — esclamò Trumbo, senza aprire gli occhi. — Quel finocchio è ancora in giro? — Sì, be'... — disse Will, terminando l'acqua fredda. — Tecnicamente, lei ancora non l'ha licenziato. — Avrei fatto meglio a ucciderlo. Il che mi ricorda una cosa. Che fine ha fatto quel grosso hawaiano con l'ascia... — Jimmy Kahekili. — Sì, lui. Se n'è andato? — No. Secondo le ultime notizie, è giù nelle cucine a mangiare dolci. Ha ancora l'ascia. Michaels lo sorveglia. — Bene. Sono contento che sia ancora qui. Con gente come Caitlin e Koestler e Carter ancora fra i piedi, forse abbiamo lavoro per il signor Ka- hekili. — Sorrise e si massaggiò la fronte. — Ha mal di testa, capo? — Il papa caga nei boschi? — Trumbo si alzò a sedere, disturbato dal ci- calino della radio. Era la frequenza degli agenti di sicurezza. — Parla Trumbo. — Signor Trumbo, ci sono buone notizie — disse Fredrickson. — Ho trovato Sunny Takahashi. Trumbo balzò in piedi e strinse con forza la radio. — Vivo? — Sissignore. Neppure un graffio, per quanto posso vedere. Byron Trumbo afferrò per le braccia Will Bryant, lo tirò in piedi, lo tra- scinò in qualche passo di danza. Lo lasciò e premette il pulsante di trasmis- sione. — Magnifico... portalo qui, Fredrickson. Immediatamente. Ti aspet- ta un premio, ragazzo. Per qualche istante ci furono solo scariche. — Sarebbe meglio che ve- nisse qui lei, signor Trumbo. Il miliardario corrugò la fronte. — Dove sei? — Nel campo di petroglifi. Sa, dove il sentiero da jogging attraversa le rocce a sud del... — Maledizione! — urlò Trumbo. — So dove sono quei petroglifi del cazzo. Perché dovrei venire fin lì? Sunny è con te? — Sissignore. È qui. C'è anche il signor Dillon. Trumbo scambiò uno sguardo con Will Bryant. — Dillon è lì? — disse nella radio. — Senti, Fredrickson, voglio solo che Sunny Takahashi torni qui al più presto, perciò non piantare casino con altri... — Penso davvero che occorra la sua presenza, signor Trumbo — fu la risposta dell'uomo della sicurezza. La voce pareva bizzarra, vuota, come se Fredrickson parlasse dal fondo di una botte. — Senti, porco mondo, porta solo qui quel coglione di giap al più pre- sto... Fredrickson? Fredrickson? Merda! — Le scariche impedivano la conversazione. Mentre andava alla porta, Trumbo prese la Browning e controllò il caricatore. Will Bryant balzò in piedi per seguirlo. — No — disse Trumbo, facendogli segno di restare lì. — Tu pensa a portare Sato e i suoi nella sala conferenze e fai in modo che sia tutto pron- to per la firma. Torno con Sunny in dieci minuti. Anche se Takahashi è stato lobotomizzato, non me ne frega un cazzo. Lo rendiamo presentabile, lasciamo che Sato gli dia un'occhiata e veda che il suo ragazzo d'oro è a posto e poi firmiamo quei merdosi documenti. — Ricevuto, eseguo — disse Will. Si diresse verso la suite di Sato, men- tre Trumbo scendeva in ascensore. Trumbo si soffermò nell'atrio, poi entrò in fretta nel ristorante e da lì passò nelle cucine. Jimmy Kahekili, seduto a un bancone d'acciaio inossi- dabile, con una mano mangiava dolci e con l'altra teneva stretta l'ascia. Michaels, l'uomo della sicurezza, lo teneva d'occhio come un falco. — Signor Trumbo! — esclamò Bree, il capocuciniere, agitando le mani. — Questa... questa montagna di lardo... mi sta fra i piedi da ore. Grazie al cielo è venuto lei! — Chiudi il cesso, Bree — disse Trumbo. Poi: — Senti, devo fare una commissione nel campo di petroglifi e voglio che vieni con me per guar- darmi le spalle. — Certo, capo — disse Michaels, abbottonando la giacca di lino sopra la pistola. — Non tu — disse Trumbo. Indicò i due quintali d'hawaiano. — Tu! Con una mano Jimmy Kahekili continuò a mangiare dolci e con l'altra sollevò l'ascia all'altezza del bancone. Non badò affatto a Trumbo. — Significa per te altri diecimila dollari — disse Trumbo, girando sui tacchi e dirigendosi alla porta. Jimmy Kahekili si tolse dalle dita briciole di dolce, pulendosi sul petto nudo, con un gesto delicato; si girò sullo sgabello fino a quel momento na- scosto dalla massa del suo corpo e si avviò dietro Trumbo. In un golf cart Kahekili non ci entrava di sicuro. Trumbo decise di anda- re a piedi. L'hawaiano lo seguì a passo svelto e dondolante; la sua ombra cadeva sul miliardario mentre attraversavano in fretta il giardino e girava- no a sud, al di là del Bar del Relitto. Erano appena arrivati alla piscina più grande quando Trumbo si fermò così bruscamente che Jimmy Kahekili rischiò di travolgerlo. Il miliardario lasciò cadere le braccia. Davanti a lui nel passaggio coperto c'erano Caitlin Sommersby Trumbo, Maya Richardson e Bicki. Myron Koestler, appoggiato a una palma da cocco, sorrideva con aria furbesca. Le tre donne erano state impegnate in una fitta conversazione, finché Trumbo non aveva girato l'angolo. Ora tut- t'e tre incrociavano le braccia e con le dita tamburellavano sui gomiti. I raggi del sole pomeridiano scintillavano su lunghe unghie. — Byron Trumbo — disse Caitlin, con la sua lenta, perfetta cadenza del- la Nuova Inghilterra. — Proprio l'uomo che volevamo vedere. 18 La notte è contro Pana-ewa e aspra è la tempesta; i rami degli alberi sono piegati; agitati sono i fiori e le foglie di lehua; rabbiosamente ringhia il dio Pana-ewa, nell'intimo scosso dalla collera. Oh, Pana-ewa! Io ti colpisco. Guarda, vibro i duri colpi di battaglia. Incantesimo di Hi' iaka contro i nemici di Pele 18 giugno 1866, in un villaggio senza nome sulla costa Kona La creatura di nebbia e di tenebra scelse come vittima il reverendo Ha- ymark e su di lui si lanciò con tale rapidità che il signor Clemens, anche se avesse potuto muoversi (e vedevo benissimo che era tuttora bloccato da forze invisibili) non sarebbe giunto in tempo ad aiutarlo. L'uomo-nebbia che era stato il ragazzo Halemanu balzò come una pantera all'attacco e parve avviluppare lo sventurato ecclesiastico. Il reverendo Haymark urlò, ma il suo fu un grido debole e parve provenire da molto lontano. Tentai di alzarmi, di correre al fianco dell'ecclesiastico, ma mi ritrovai bloccata dalla stessa stregoneria che aveva immobilizzato i miei due compagni. Ora dal- l'agitata sagoma di nebbia si levò un ringhio e uno stridore di denti come mi auguro di non udire mai più in vita mia. Pareva che in mezzo a noi u- n'orrenda belva si fosse scatenata a sbranare un quarto di bue. Il reverendo Haymark smise infine di dibattersi e la creatura di nebbia - Pana-ewa? - parve solidificarsi in qualcosa di più tenebroso della notte. Ringhio e arrotare di denti si mutarono nei rumori di una belva che beva a sazietà, che lappi acqua da una grande zucca. Poi il rumore cessò. Il vecchio che sedeva accanto al reverendo Haymark intonò una salmo- dia in antico hawaiano. La belva di nebbia parve scivolare via dal corpo inanimato del nostro amico e all'improvviso... mutare forma... finché, ac- quattata nell'angolo buio, ci fu una enorme creatura coperta di scaglie, dal corpo non del tutto sauriforme ma molto diverso dall'umano. I vecchi continuarono a salmodiare nella loro liquida lingua. Riconobbi il nome Pana-ewa ripetuto con frequenza. L'uomo-rettile parve dondolare a ritmo con il canto. Moveva a destra e a sinistra occhi umani per osservare il signor Clemens e me, con espressione quasi sfottente. I suoi denti aguzzi erano umidicci. Una lunga lingua guizzò a gustare l'aria. Guardai il signor Clemens per essere da lui rassicurata, ma il corrispondente pareva vedere soltanto l'orrenda creatura a forma di rettile e la fissava, occhi sbarrati, ma- scella penzoloni. Guardai di nuovo il reverendo Haymark, che però era completamente immobile. Temetti il peggio. Finalmente i vecchi smisero di salmodiare e si alzarono, uno alla volta, per sfilare fuori dalla capanna, finché all'interno non rimasero che la vec- chia seduta nella penombra, il signor Clemens, io stessa, il corpo del no- stro compagno e la creatura chiamata Pana-ewa. Quest'ultima disse: "Le vosssstre anime ssssono mie, haole. Tornerò a prenderle pressssto". E parve sprofondare nel pavimento di terra battuta della capanna, scomparendo alla vista. Come liberata da invisibili legami, quasi caddi in avanti, tanto forti erano stati i vincoli e tanto insistenti i miei inconsapevoli sforzi per spezzarli. Il signor Clemens e io ci accostammo al reverendo. Mentre io cercavo di sentirgli il polso, il corrispondente scrutò nell'ampio foro usato dalla crea- tura per uscire. "Curioso" disse. "Molto curioso." Lo guardai, inorridita. "Il reverendo Haymark è morto" dissi. "Non sento pulsazioni." Più sconvolgente della mancanza di pulsazioni era la tempera- tura corporea del nostro ex compagno: la pelle dell'ecclesiastico era fredda come ghiaccio. Negli occhi sbarrati del pover'uomo c'era come un velo di brina e la sua pelle era dura come manzo congelato. Il signor Clemens si avvicinò e confermò la mia diagnosi. "Morto come uno stoccafisso" mormorò. "Non è morto" disse la vecchia nell'angolo buio. Parlava un inglese len- to, marcato, ma corretto. Tutt'e due, credo, trasalimmo a quella voce. Durante gli sbalorditivi e- venti dell'ultima mezz'ora la vecchia era rimasta immobile e silenziosa, al punto che ci eravamo dimenticati della sua presenza. Il signor Clemens si lisciò i baffi. "Esito a contraddire una signora" re- plicò alla vecchia nel buio "ma il nostro amico è non solo passato a miglior vita, ma anche freddo e rigido come un ranocchio nell'inverno del Minne- sota." "Non è vivo" disse lentamente la vecchia "ma non è morto." Il signor Clemens e io ci scambiammo un'occhiata. "Lei chi è?" do- mandai alla vecchia. Quella non si degnò di rispondere. Notammo che fuori della capanna i vecchi avevano ricominciato la salmodia. "Perché i suoi amici hanno ucciso il nostro amico?" domandai alla vec- chia. "Perché hanno evocato quel demone?" La vecchia sbuffò. "Quei kauwa kahuna, quegli stregoni senza terra, senza cervello, senza nerbo, non sono miei amici. Sono miseri uomini. Non possono vedermi. Solo voi potete vedermi qui." Di nuovo il signor Clemens e io ci guardammo. L'asserzione della vec- chia era assurda, ma tutto ciò che era accaduto in quel giorno e quella notte trascendeva la comune ragionevolezza. "Ci uccideranno?" domandai al signor Clemens. Fu la vecchia a rispondere: "In questo stesso momento, cercano di pre- garvi a morte. Li udite? Il loro canto è inutile". Il signor Clemens guardò il corpo irrigidito del nostro compagno. "L'e- vocazione di un demone ha funzionato fin troppo." La vecchia sbuffò di nuovo. "Evocare demoni è gioco da bambini. Loro sono bambini. Pana-ewa poteva rubare l'anima di uno solo di voi e loro hanno scelto il vostro amico, ritenendolo il più potente perché era il vostro kahuna." Sputò per terra. "Sono stupidi." Guardai l'ampio foro dov'era scomparsa la creatura simile a rettile. "Lui... quell'essere... tornerà?" "No" disse la donna. "Ha paura." "Paura di cosa?" domandò il signor Clemens. "Di me" rispose la vecchia. E allora si alzò. Non si tirò in piedi. Non si raddrizzò. Si levò semplicemente, sempre in posizione seduta, finché non rimase librata a tre piedi dal pavimento di terra battuta. La fissai. Sapevo che l'espressione del signor Clemens rispecchiava sen- za dubbio la mia. "Ascoltatemi" disse la vecchia. "Dovete andare via da questo posto. La- sciate qui il corpo del vostro amico..." "No, non possiamo fare una..." cominciò il signor Clemens. "SILENZIO!" Fui sicura che la montagna vulcanica echeggiò il grido della vecchia. Il signor Clemens si zittì, ma fuori le altalenanti voci dei vecchi continuarono la salmodia. "Lascerete qui il corpo del vostro amico" disse la vecchia. "Non sarà danneggiato. Lo terrò d'occhio io stessa. Ma è importante che voi recupe- riate la sua anima." "La sua anima..." incominciò il signor Clemens, ma si zitti da solo. "A questo scopo" disse la vecchia "dovete andare all'apertura del Mondo Sotterraneo che quegli stolti kauwa hanno spalancato nella loro ignoranza e nella loro arroganza. Loro non sanno come chiuderla. Nel loro stupido tentativo di scacciare gli haole kahuna hanno scatenato terribili forze. An- drete all'apertura del Mondo Sotterraneo e scenderete nel Mondo Sotterra- neo" continuò con voce di per sé ritmica quanto la salmodia cantata fuori delle pareti d'erba della capanna. "Raggiunto l'ingresso del Mondo degli Spiriti, vi toglierete gli assurdi paludamenti haole di cui vi adornate il cor- po..." Diedi un'occhiata alla mia sottana, alla camicetta, al giacchino, ai guanti, agli stivali. Cosa c'era d'assurdo in quell'abbigliamento? Erano capi acqui- stati nei migliori negozi di Denver. "Appena vi sarete liberati dei vostri stracci haole" proseguì la vecchia "vi ungerete dell'olio ricavato dalle noci kukui marce. Agli spiriti non piace quell'odore." Il signor Clemens inarcò il sopracciglio e mi guardò, ma saggiamente tenne a freno la lingua. "Allora farete una corda intrecciando rampicanti ieie e vi calerete nel Mondo Sotterraneo" continuò la vecchia. Sempre librata a mezz'aria, alzò il dito, con aria d'ammonimento. "Dovete far credere agli spiriti e ai demo- ni e agli dèi là sotto d'essere spiriti anche voi. Se capiranno che siete vivi, Pana-ewa o quelli della sua genia vi ruberanno l'anima e io non potrò fare niente per aiutarvi." Chiusi gli occhi, augurandomi che tutto risultasse un sogno. La lontana salmodia, il vento fra le stoppie sul tetto della capanna, la voce monotona della vecchia... tutto continuava. Riaprii gli occhi. La vecchia dai capelli candidi stava sempre librata tre piedi sopra i lumi a olio di noce. "Dovete trovare non solo l'anima rubata al vostro amico" diceva in quel momento la vecchia "ma tutte le anime di haole portate sotto il mondo da quando quegli stolti hanno aperto l'ingresso, due settimane fa. Prendetele tutte. Se l'ingresso va sigillato, a nessuna anima di haole è consentito resta- re nel dominio di Milu." Il signor Clemens e io ci alzammo in modo da guardare negli occhi la vecchia. "E se gli uomini qua fuori cercheranno di fermarci?" domandò il corrispondente. "Sparate loro" disse in tono piatto la vecchia. Notai per la prima volta che parlava senza muovere le labbra. Dopo tutti quegli eventi, la cosa non pareva eccessivamente bizzarra. Intanto il signor Clemens annuiva, come se ogni cosa avesse senso. "Ancora una domanda" disse. "O meglio, alcune domande. Ah... come tro- veremo l'ingresso del Mondo Sotterraneo? E... ah... dove si può comprare olio rancido di noce kukui e qualche braccio di corda di ieie?" "ANDATE!" ordinò la vecchia, indicando la porta. La sua voce aveva il tono d'un genitore al quale l'irragionevole piagnucolio del figlio abbia fatto perdere la pazienza. Uscimmo, tutt'e due con un'occhiata al corpo senza vita del reverendo Haymark disteso nella fioca luce dei lumi a olio di noce. La vecchia era tornata al suo posto, nell'estremità buia della lunga capanna. Fuori, i vecchi ci guardarono come sorpresi che fossimo ancora vivi. In- terruppero la salmodia e vennero nella nostra direzione, mentre il signor Clemens slegava i cavalli e mi porgeva le redini di Leo. Il signor Clemens tolse di tasca il revolver e lo puntò contro il petto nudo del capo di quella piccola banda. Tirò indietro il cane, con uno scatto che risuonò chiaramen- te. L'hawaiano alzò le mani, sorrise come un idiota mettendo in mostra il suo unico dente e si allontanò rinculando. "A volte la magia haole funziona" disse il signor Clemens, con un gru- gnito, montando in sella. Lasciammo quell'orribile piccolo villaggio dalla parte da dove eravamo giunti e procedemmo con prudenza sulle infide ter- razze di lava, continuando la discesa. Dietro di noi, al di là del fumante vulcano, il cielo di levante si schiariva. "Cosa facciamo?" dissi appena fummo al sicuro, abbastanza lontano dal villaggio. Il signor Clemens mise via il revolver. "La cosa più assennata sarebbe tornare a Kona e chiedere aiuto. Anzi, è l'unica cosa assennata." Girai la testa a guardare le rocce scure che ora nascondevano il villaggio. "Ma il reverendo Haymark..." "Crede davvero che possiamo riportarlo in vita?" domandò il signor Clemens, con voce aspra come le rocce su cui avanzavano a fatica i nostri cavalli. "In fin dei conti, da qualche anno a questa parte un simile miracolo non riesce bene come una volta." Non replicai. Avevo un bruciore in gola e confesso d'essermi sentita pe- ricolosamente vicina alle lacrime. "Ah, be'" sospirò il corrispondente. "In questa storia non c'è stato niente di razionale. Non vedo motivo per cominciare adesso a comportarci razio- nalmente. Andremo nel Mondo degli Spiriti." "Ma come lo troviamo?" domandai, strofinandomi gli occhi. Il signor Clemens fermò il cavallo. Leo e io l'avevamo seguito e perciò, da quando avevamo lasciato il villaggio, non avevo guardato che cosa c'era davanti a noi. Guardai adesso. Più avanti, a dieci iarde dal cavallo del si- gnor Clemens, librato come fuoco fatuo sopra la a'a, ballonzolava un glo- bo di fuoco azzurrastro, sei piedi al di sopra del sentiero appena accennato, e pareva aspettare che ci movessimo, come una paziente guida montana in attesa di clienti ritardatari. "Arrì" disse il signor Clemens e il suo cavallo iniziò ad avanzare con prudenza fra il basalto. Il fuoco fatuo si librò più avanti come un cane sciolto per giocare. Lanciai un'occhiata al cielo che si schiariva, mormorai qualcosa che for- se era una preghiera e spronai il mio stanco cavallo perché seguisse l'altro. Un'ombra cadde sulla pagina. Cordie Stumpf alzò gli occhi. — Lettura interessante? — domandò Eleanor. Cordie scrollò le spalle arrossate dal sole. — Personaggi piuttosto inte- ressanti. Trama che ti stuzzica. Eleanor ridacchiò e occupò la sdraio accanto a quella di Cordie. Ora il vento soffiava con forza maggiore da sudovest e lungo la costa non c'era molto fumo. Sopra le palme, il cielo era azzurro. Cordie aveva girato la sdraio e dava le spalle alla spiaggia in modo che il sole del tardo pomerig- gio illuminasse le pagine. Sull'erba le ombre delle palme si erano allunga- te. — Parlando seriamente — disse Eleanor — cosa te ne pare? Cordie usò come segnalibro l'inserto cartolina di una rivista e chiuse il diario. — Credo di capire perché sei venuta qui, Nell. Eleanor la guardò. La faccia di luna piena di Cordie Stumpf era arrossata dal sole, ma le labbra esangui tradivano il pallore sotto l'abbronzatura. Ele- anor capì che Cordie soffriva. Le toccò il braccio, coperto di lentiggini. — Bene — disse. — Pensavo che avresti capito. — L'ho già letto una volta e ora lo stavo rileggendo — disse Cordie. — I particolari mi sembrano importanti. Eleanor annuì. — E tu cos'hai fatto oggi? Scintille col soprintendente? — Potrebbe essere la parola giusta — sorrise Eleanor. Raccontò la visita ai kahuna. — Quando siamo tornati, abbiamo parlato per un bel pezzo. Non è stata di Paul l'idea d'invocare gli antichi dèi e di aprire la porta di Milu... il loro Mondo Sotterraneo; ma quando i suoi zii hanno fatto la pro- posta, lui è stato d'accordo. Anche Paul è kahuna, a quanto pare, ma è solo un novizio. — Come un prete che studia ancora, giusto? — Giusto. — Bene, gli hai detto che la tua pro-pro-pro-prozia ha visto i suoi bis- bis-bis-bisnonni fare la stessa cazzata che ha fatto lui con i suoi zii? — No. Ma Paul sa che ho accesso a una fonte di informazioni riguardan- te quel periodo, qualcosa su Mark Twain mai pubblicato. Cordie borbottò. — E tu? — domandò Eleanor. — Giorno tranquillo? Cordie sorrise. — Già. Ho fatto un giro in kayak nella baia. E una nuota- tina. All'occhiata di sorpresa di Eleanor, Cordie raccontò la storia. Parlò in to- no piatto, indifferente. Al termine, Eleanor cercò di parlare... chiuse la boc- ca... scosse la testa... ripeté il tentativo. — Credo che tu ti sia imbattuta in Nanaue — disse infine. — L'uomo-squalo. Cordie sorrise. — Non ho avuto paura della parte uomo. La parte squalo mi ha preoccupata un poco. — Alzò il diario. — La tua zia Kidder non di- ce quasi niente di Nanaue. Tu cosa ne sai? Per un momento, con aria distratta, Eleanor si mordicchiò il labbro. Alla fine disse: — Solo ciò che dicono le leggende. — Io non so cosa dicono le leggende, Nell. So solo che un cazzone con la gobba sulla schiena e denti nella gobba ha dato un morso al kayak. Mi piacerebbe saperne di più. Eleanor la scrutò con sguardo penetrante. — Cordie, mi pare che la fac- cenda non ti riguardi molto. — Au contraire, mi amiga. Mi riguarda sempre, se cercano di mangiar- mi per colazione. — Sai cosa voglio dire. Tutta questa storia è... improbabile. Qui parlia- mo di cose impossibili. Cordie perdette il sorriso. Si guardò le mani. — Nell, tu forse diresti che non sono mai uscita del tutto dal mio piccolo universo mitopoietico. Qual- cosa, da bambina, mi ha in un certo modo preparata a... be', a fidarmi dei miei sensi e di ben poco d'altro, immagino. Oggi in acqua una creatura ha cercato davvero di uccidermi. Voglio sapere cos'era. Eleanor annuì quasi impercettibilmente. — Molto tempo fa, poco dopo che i primi hawaiani si stabilirono in queste isole, c'era una sorta di dio chiamato Ka-moho-ali'i... il Re degli Squali. Come per molti dèi hawaiani, poteva comparire nella sua forma originale, uno squalo, o in forma umana. A un certo punto Ka-moho-ali'i s'innamorò di una donna, una certa Kalei. Uscì dall'acqua sul lato nord di quest'isola, l'Isola Grande; assunse la forma umana e sposò Kalei. Vissero nella valle Waipio, che è dall'altra parte del- l'isola rispetto a noi, sulla costa nord. Ebbero un figlio che chiamarono Nanaue. Il bambino aveva sulla schiena una lieve gobba e su di essa una voglia... a forma di bocca di squalo. Eleanor si interruppe. Cordie sorrise. — Continua, Nell. Mi piace il tuo tono di voce per raccontare. — Be', secondo le leggende, Ka-moho-ali'i tornò nel mare e abbandonò la moglie... — Tipico dei maschi — commentò Cordie. — Ma prima l'avvertì di fare in modo che nessuno vedesse il segno sulla gobba di Nanaue e di non permettere al bambino di mangiare carne d'ani- male. Kalei rispettò gli ammonimenti del marito e protesse Nanaue finché quest'ultimo non fu adulto, coprendogli con stoffa di kapa la schiena sem- pre più gibbosa e facendogli seguire una dieta priva di carne. Ma quando divenne adulto, Nanaue mangiò nella capanna dove mangiavano i maschi adulti e mostrò un appetito insaziabile per la carne. Quando nuotava, inva- riabilmente da solo, si trasformava in un essere più squalo che uomo... se- condo alcune leggende era tutto squalo, secondo altre manteneva qualcosa della forma umana... — Hanno ragione queste ultime — disse Cordie. — Continua. Eleanor scrollò le spalle. — È quasi tutto. Alla fine il segreto di Nanaue fu scoperto. Nanaue aveva la brutta abitudine di attirare in acqua le perso- ne della zona... gradiva in particolare l'acqua dolce, come il laghetto sotto le cascate Waipio... e lì le assaliva e le divorava. Quando gli abitanti del villaggio si rivoltarono contro di lui, Nanaue fuggì in mare, ma non poteva vivere a lungo nell'oceano. Le leggende dicono che un gruppo di kahuna diede la caccia a Nanaue fino a Maui, nei pressi del villaggio di Hana, e poi nell'isola Molokai. Alla fine Nanaue fu catturato e riportato sull'Isola Grande. A questo punto le leggende differiscono. Secondo alcune fu fatto a pezzi sul monte Puumano, secondo altre fu confinato nel Mondo Sotter- raneo di Milu, con gli altri demoni e i maligni semidei, quando Pele com- batté contro di loro nel 1866. Cordie annuì e diede un colpetto al diario di zia Kidder. — Sì, be', noi sappiamo quale versione di quella storia faccia acqua. — Sorrise debol- mente. — Per così dire. Eleanor si allungò sulla sdraio. Aveva male dappertutto, non sapeva se per i modesti sforzi della giornata o per le non tanto modeste tensioni. A est il cielo era grigio per i focolai d'incendio, ma sopra il Mauna Pele la brezza di sudovest lo manteneva azzurro. Eleanor cercò d'immaginare una semplice vacanza in quel villaggio turistico: qualche partita a tennis, nuo- tate nella splendida baia senza preoccuparsi di uomini-squalo, jogging nei campi di petroglifi senza scorgere torce sottoterra, passeggiate nel buio senza il timore che qualcosa sbucasse rumorosamente dal sottobosco. L'i- dea le parve piacevole, ma noiosa. — Devo saperne di più su queste leggende — disse all'improvviso Cor- die Stumpf, restituendole il diario. — Se stanotte lavoriamo insieme, devo sapere tutto. Eleanor sospirò. — Sì. Mi spiace che ci sia voluto tutto questo tempo. — Si alzò a sedere. — Non sei obbligata a farti coinvolgere in questa storia, sai. Cordie scoppiò a ridere. — Nell, bambina, sono già coinvolta! E ci re- sterò, finché non avremo concluso questa faccenda. — Da sopra la spalla di Eleanor diede un'occhiata al sole sempre più basso sull'oceano. — E so- spetto che sarà stanotte. Dopo il buio, qui in giro potrebbe fare caldo. Ci serve un piano, ragazza. — Guardò in direzione della Grande Hale. — Chissà se il servizio ristorante funziona ancora o se i cuochi sono stati di- vorati da Pana-ewa o da una di quelle creature. — Secondo Paul, è rimasto solo un piccolo gruppo di ospiti — disse E- leanor. — Ma il cuoco lavora e c'è personale sufficiente per mandare avan- ti il ristorante principale. Evidentemente il signor Trumbo stanotte vuol fa- re il colpaccio e ha promesso una bella gratifica al personale presente. — Bene — disse Cordie; si alzò e si avvolse nel grande asciugamano, borsa compresa. — Muoio di fame. Che ne dici di cenare insieme e fare due chiacchiere davanti a un paio di freddi Fuochi di Pele? Voglio sapere tutto sulla signora Pele. Anche Eleanor si alzò e guardò l'ora. — Avrei in programma la gita in elicottero al crepuscolo... A Cordie scintillarono gli occhi. — Penso di sapere quale piano hai in mente. Non sono ancora le sei, manca un paio d'ore al tramonto. Andiamo a cena. — Vide Eleanor esitare e soggiunse: — Probabilmente sarà una lunga notte, Nell. Eleanor annuì. — Ci vediamo al ristorante fra un quarto d'ora — disse, dirigendosi alla hale per darsi una rinfrescata e indossare abiti adatti agli eventi che prevedeva per quella sera. Trumbo esitò. Le tre donne bloccavano il sentiero. Caitlin indossava camicetta e calzo- ni di cotone leggero che svolazzava lievemente nella brezza; reggeva la borsetta Bally e vi teneva dentro la mano. Maya, al centro del terzetto, por- tava un pareu hawaiano a fiori, un semplice pezzo di stoffa di un metro e mezzo, avvolto come una gonna intorno ai fianchi, sopra lo stesso costume da bagno arancione con cui aveva posato per la copertina del numero dedi- cato al nuoto di Sports Illustrated di quell'anno; aveva labbra e unghie di un liquido color cremisi. Bicki portava scarpe a tacco alto e uno striminzi- to due pezzi da bagno, di pelle scamosciata color caffè che imitava quasi alla perfezione il suo colorito naturale, tanto da dare l'impressione che non indossasse niente a parte il braccialetto e gli anelli d'oro; teneva le braccia conserte e le gambe allargate nella posizione dei pistoleri. — Ehilà, ragazze — disse Byron Trumbo. Per un minuto gli unici rumori furono il fruscio delle fronde di palma e il respiro ansimante di Jimmy Kahekili alle spalle di Trumbo. Poi Caitlin Sommersby Trumbo aprì bocca: — Proprio tu, miserabile stronzetto di merda. — Schifoso bocchinaro bastardo — disse Maya. La sua cadenza britan- nica era pesante. — Ciao, T — disse Bicki, con lo stesso sorriso con cui aveva lanciato una decina di video Mtv. — Ciao, Bick — disse Trumbo. — Abbiamo parlato e abbiamo deciso, T — disse Bicki. — Ti tagliere- mo le palle e l'uccello e ognuna si terrà un ricordino. — Spiacente, ragazze, sono di fretta. — Si mosse verso sinistra, per pas- sare fuori del sentiero. Le tre donne si spostarono a sinistra, con lo stesso fluido movimento della prima linea dei Dallas Cowboys. Myron Koestler si staccò dall'albero a cui se ne stava appoggiato e si av- vicinò di un passo. — Signor Trumbo... ah... Byron, purtroppo questa sto- ria complica terribilmente la faccenda. Alle luce di questo... ah... nuovo sviluppo... mi dispiace comunicarle che le ragionevoli richieste della mia cliente vanno... ah... riviste e aumentate. Trumbo toccò il braccio di Jimmy Kahekili, notando che era più grosso della propria coscia. — Jimmy — disse, puntando il dito in direzione di Koestler — se quell'emorroide ambulante dice ancora una sola parola, prendi l'ascia e fallo a pezzetti tanto piccoli che un topolino non abbia dif- ficoltà a inghiottirli. Comprende? La massa di carne dietro Trumbo emise un grugnito, come chi non vede l'ora d'entrare in azione. Koestler arretrò di scatto, guardò le tre donne, aprì bocca come per chiamarle a testimoni di una minaccia, guardò Jimmy Ka- hekili, chiuse la bocca. Le tre donne continuarono a bloccare la strada a Trumbo. — Sentite — disse il miliardario, con un sorrisetto — mi piacerebbe davvero fermarmi a chiacchierare... so che morite dalla voglia di sapere tutte come vi siete classificate nel vis-à-vis con le altre... ma ho davvero fretta. — Mosse un passo verso di loro. Caitlin tolse dalla borsa un'elegante semiautomatica e la puntò contro lo stomaco di Trumbo. Quell'arma era più grossa della pistola di Maya. Trumbo si fermò e sospirò. — Cos'è? Da Bergdoff c'era una svendita di quegli affari? Caitlin impugnò a due mani la pistola. Le altre due donne osservavano senza espressione. — Niente soldi se mi uccidi, bambina — disse Trumbo. — Probabil- mente ti daranno la stessa cella che hanno riservato a Leona Helmsley e a quell'altra, comesichiama, la vacca che ha fatto fuori il dietologo. Caitlin puntò la pistola in faccia a Trumbo. — Davvero, non ho tempo per queste stronzate — disse Trumbo con u- n'altra occhiata all'orologio. Avrebbe dovuto prendere l'aperitivo con Hiro- she, prima di cena. — Andiamo, Jimmy. — Si mosse verso le donne. Maya si fece da parte. Caitlin ruotò come un'arrugginita banderuola se- gnavento, braccia sempre rigidamente protese, pistola ferma, tenendo sotto mira Trumbo che passava. Bicki lo guardava con odio, come solo le orgo- gliose donne afroamericane sanno fare. Jimmy Kahekili lanciò occhiate nervose a sinistra e a destra mentre seguiva Trumbo passando sotto quelle forche caudine. Myron Koestler se ne stava dietro il tronco di una palma: di lui si scorgevano solo le dita esangui e la coda di cavallo. Trumbo percorse una decina di passi, superò una curva, sparì alla vista delle tre donne e lasciò uscire il fiato. — Andiamo, Jimmy — disse. — Dobbiamo fare in fretta e riportare qui Sunny Takahashi prima che Sato si raffreddi. — Tu grande lolo, amico. Loro haole wahine molto hu hu. — Già — disse Trumbo, trotterellando sul sentiero lastricato in mezzo al campo di petroglifi. — Proprio così. Fredrickson era in attesa nel punto dove il sentiero terminava e iniziava il campo di a'a. Stringeva in pugno una semiautomatica e, mentre Trumbo e il gigantesco hawaiano si avvicinavano, continuò a girare la testa per controllare il campo di lava alle proprie spalle. — Dov'è? — domandò Trumbo. Notò che Fredrickson fissava a bocca aperta Jimmy e l'ascia. — Non badare a lui, maledizione. Dov'è Sunny? Fredrickson si umettò le labbra. — E Dillon... c'è anche Dillon. — Non me ne frega un cazzo di Dillon — sbottò Trumbo. — Voglio Sunny Takahashi. Se mi hai fatto venire qui a caccia di farfalle... — Il mi- liardario e il gigantesco hawaiano mossero all'unisono un passo avanti. Fredrickson arretrò nel campo di lava. — No no, signor Trumbo, signo- re... no. Cioè, deve vedere... voglio dire, non ho chiamato nessun altro per- ché hanno detto... insomma... — Si girò e li precedette fra le rocce di lava. Il pozzo era a meno di cento metri dal sentiero. A giudicare dalle pietre ruzzolate sui bordi dell'apertura, il condotto di lava era crollato solo da qualche ora. Fredrickson, pistola alzata, si accostò cautamente all'orlo. Trumbo lo seguì con impazienza. Jimmy Kahekili si tenne ben più indie- tro. — Che cazzo c'entra con Sunny quest'affa... — cominciò Trumbo e si bloccò. In quel punto il condotto di lava non era molto profondo, forse meno di cinque metri. Il lato rivolto al mare era coperto di detriti causati dal crollo del soffitto, ma il lato mauka, ossia rivolto alla montagna, era intatto: una nera ellisse che si spalancava nella terra. Appena dentro questa ellisse c'erano il capo della sicurezza Dillon, il grande amico di Hiroshe Sato, Tsuneo "Sunny" Takahashi, e un maiale grosso come un piccolo pony Shetland. Dillon e Sunny erano nudi. Rilu- cevano di un bagliore verde chiaro, come se li avessero cosparsi di vernice fosforescente. Avevano gli occhi aperti ma lo sguardo fisso, cieco, come in trance. Il verro era in mezzo a loro. Con il garrese superava la spalla di Dillon. Ai lati del muso aveva due gruppi di occhi neri... Trumbo ne contò otto in totale. Gli occhi ardevano vividamente e ricordarono a Trumbo il riflesso dei raggi del sole al tramonto sul costume da bagno arancione di Maya. Il maiale aprì la bocca e sogghignò. I denti parevano umani... gros- si, ma umani. Trumbo si girò a guardare Fredrickson. L'uomo della sicurezza si strinse nelle spalle, impotente. — Mi ha detto di non chiamare nessuno, solo lei, capo. — Ti ha detto? — si stupì Trumbo. — Chi diavolo... — Io — disse il maiale. Trumbo si girò di scatto e da sotto la camicia hawaiana estrasse la Brow- ning. Il maiale allargò il sorriso. I suoi otto occhi parevano umidi e allegri. — Cosa... — cominciò Trumbo. Notò che la voce gli tremava un poco... come la pistola. Impugnò a due mani la Browning, per tenerla ferma. — No, no, Byron — disse il verro. — Non c'è bisogno di quella. Ab- biamo troppo in comune per rovinare così il nostro rapporto. — La voce era profonda, come ci si aspetterebbe che provenga da un verro di cinque quintali. Byron Trumbo sentì il sudore colargli lungo il petto. Girò la testa per cercare Jimmy Kahekili, ma l'hawaiano era sparito. Nella fretta di scappa- re, aveva abbandonato l'ascia. — Pssst — disse il maiale. — Da questa parte! Trumbo si girò verso il pozzo. Il sorridente maiale e i due uomini erano ancora lì. — Dillon! — gridò Trumbo. L'ex capo della sicurezza non mosse ciglio. I suoi occhi rimasero spalancati e vitrei. — No, no — disse di nuovo il maiale. — Devi parlare con me, Byron. Trumbo si umettò le labbra. — D'accordo. Cosa vuoi? — Tu cosa vuoi, Byron Trumbo? — replicò amabilmente il maiale. — Io voglio Sunny Takahashi. Puoi tenerti Dillon. Il gigantesco maiale ridacchiò. Il suono era simile al soffio di enormi mantici azionati mentre sassi sbatacchiavano in una ciotola di pietra. — Tsk tsk tsk — disse il verro. — Non è così semplice. Dobbiamo parlarne. — Col cazzo che ne parliamo — disse Trumbo. Puntò la Browning fra i due grappoli d'occhi della creatura. — Se premi il grilletto — disse il verro, in tono colloquiale — vengo lassù, ti strappo a morsi gli intestini e ti rosicchio i testicoli come se fosse- ro mele candite. — Dovrai metterti in fila — replicò Trumbo, tenendo ben ferma la pisto- la. Il maiale ridacchiò più forte. — Vuoi questo qui — disse, urtando col muso il giapponese in trance accanto a lui. Trumbo annuì e attese. — Sarà tuo quando lo vorrai davvero — disse il maiale. Gli otto occhi ammiccarono; i due uomini si girarono e scesero più profondamente nel condotto di lava, sparendo alla vista. — Devi solo venire giù e parlare con me — proseguì il maiale. La mostruosa creatura si girò con grazia, quasi con eleganza, e trotterellò di qualche passo nel buio. Girò la testa a guarda- re da sopra la spalla irsuta: negli occhi non aveva più l'espressione allegra di prima. — Ma non aspettare troppo, Byron. Qui intorno le cose si faranno inte- ressanti, nel giro di qualche ora. — Trotterellò via nel buio. Trumbo ascoltò per qualche momento l'eco di zoccoli sul basalto; sceso il silenzio, abbassò la pistola. — Santa merda, santa merda, santa merda — disse Fredrickson. Si la- sciò cadere pesantemente sulla lava. In quel momento aveva il viso color della cenere, anziché nero. — Non svenirmi addosso, maledizione — disse Trumbo. — Metti la te- sta fra le ginocchia. Va tutto bene. Fredrickson lo guardò con occhi spiritati. — Credevo d'essere partito. Allucinazioni... ma non ho mai preso Lsd. Lui... quella cosa!... mi ha detto di chiamarla per radio... — Sì, sì — lo interruppe Trumbo, infilando nella cintura la pistola. — Ne hai parlato ad altri? Fredrickson lasciò penzolare le mani, polsi sulle ginocchia, e ansimò per prendere'fiato. — No no. Il maiale ha detto che avrebbe usato le mie visce- re come giarrettiere se chiamavo altri... ha detto proprio così... le mie vi- scere come giarrettiere. Trumbo rifletté un istante su quell'immagine. — Sì, sì — ripeté. Fredrickson alzò gli occhi. Parve riprendere colore. — Non scenderà là sotto, vero, signor Trumbo? Trumbo gli lanciò un'occhiata. — Non l'ho mai pensato — si affrettò a dire l'uomo della sicurezza. — Ma se prendiamo tutti i nostri ragazzi e quelli di Sato, occhiali a infrarossi e Uzi e Mac-10 e un po' di quella merda esplosiva... — Chiudi il cesso — lo interruppe Trumbo. Guardò l'ora. — Merda, so- no in ritardo per l'aperitivo con Hiroshe. — Puntò il dito contro Fredri- ckson. — Resta qui. Tieni aperto il canale radio. Ti... L'altro balzò in piedi. — Col cazzo che resto qui da solo nel buio con un merdoso prosciutto parlante giù nel... Trumbo mosse di scatto un passo e schiaffeggiò con forza Fredrickson. — Tu resti qui! Ci sono diecimila dollari per te, se resti qui. Dieci sac- chi, solo per stanotte! Puoi correre come Speedy Gonzales se quella cosa esce dal buco, ma fammelo sapere per radio! Capito? Se mi freghi, Fredri- ckson, non bado a spese e faccio stirare te e tutta la tua famiglia fino ai cu- gini di quinto grado. Ci siamo capiti? Fredrickson lo fissò con occhi che ricordavano bizzarramente quelli di Sunny e di Dillon. — Bene — disse Trumbo. — Manderò qualcuno a portarti da mangiare prima di mezzanotte. — Diede un colpetto sulla spalla dell'impietrito Fre- drickson e si mosse per tornare rapidamente sul sentiero e al Mauna Pele. Il vento aveva cambiato di nuovo direzione e ora soffiava da sud. Pareva caldo e umido. Trumbo ricordò che quel vento era chiamato kona e aveva dato il nome a quella parte della costa. La nube di ceneri non creava diffi- coltà, ma il fumo delle colate di lava si allargava di nuovo sulla costa in una cappa grigia e fitta che pareva nuvolaglia a bassa quota. All'improvviso l'aria si era rinfrescata, come se il sole fosse già tramon- tato. Le ombre scomparvero, mentre in alto la nube di fumo si addensava; il funereo drappo del crepuscolo si stese su ogni cosa. Le palme frusciava- no e si scambiavano bisbigli; il vento caldo sibilava fra le rocce di a'a. Trumbo guardò l'orologio ancora una volta e si diresse in fretta verso l'oasi d'alberi che pareva una macchia più scura. — Da dove vuoi che cominci? — disse Eleanor quando il cameriere por- tò il secondo giro di Fuoco di Pele. Sedute sulla terrazza del Belvedere del- le Balene, guardavano la sera sfumare all'improvviso nel grigio. — Da Pele — disse Cordie alzando il bicchiere in un brindisi. — Hmmm... sì, be', Pele è la fondamentale dea tutelare, con il solito as- sortimento di poteri impliciti e di obblighi... — No, Nell — la interruppe Cordie. — Con me lascia perdere il tono da professoressa. Racconta semplicemente, come prima. Eleanor bevve un sorso di Fuoco di Pele, si schiarì la voce e cominciò da capo. — Pele non fa parte degli dèi più antichi, ma proviene dalla famiglia migliore. Si diceva che suo padre fosse Moe-moea-au-lii, letteralmente "il Capo che sognò i guai", ma questo riferimento sparì presto e non compare nelle leggende più tarde... — Tipico dei maschi — borbottò Cordie. Bevve un sorso. — Continua. — Sì... be', la madre di Pele era Haumea, a volte conosciuta anche come Hina o come La'ila'i. Nelle sue varie forme, Haumea è il supremo spirito femminile, dea delle attività muliebri e della fertilità, madre di tutti gli dèi minori e della razza umana, e genericamente la controparte femminile di tutto il potere maschile dell'universo. — Giusto — disse Cordie e alzò il pugno. Eleanor esitò e corrugò la fronte. — Hai già bevuto due bicchieri. Sei si- cura di voler continuare... Cordie le diede un colpetto sul dorso della mano. — Fidati di me, Nell — disse con voce chiara. — Reggo benissimo il Fuoco di Pele. Vai avanti. — I poteri di Pele provenivano dal ventre della Terra Madre che gli anti- chi hawaiani chiamavano Papa. — Terra Madre uguale Papa — disse Cordie, mordicchiando il baston- cino per mescolare cocktail. — Bene, continua, Nell. Non ti interrompo più. — Gli antichi vedevano l'universo in equilibrio solo nell'unione degli opposti. Luce maschile che penetra il buio femminile e genera un universo di opposti. Cordie annuì, ma rimase in silenzio. — Pele giunse tardi in queste isole — continuò Eleanor, riprendendo "il tono da narratrice". — La sua canoa fu guidata da Ka-moho-ali'i... — Ehi, quello non è il re degli squali di cui parlavamo prima? — disse Cordie. — Il padre del marmocchio che oggi voleva mangiarmi. Scusa... non apro più la bocca. — Giusto. Ka-moho-ali'i era il fratello di Pele. Nell'isola di Bora-Bora, da cui provenivano, era conosciuto anche come il re dei draghi. A ogni modo, aiutò Pele a guidare la canoa fino alle isole Hawaii. Pele sbarcò prima a Niihau, poi si trasferì a Kauai. Essendo la dea del fuoco, Pele ave- va un magico utensile da scavo... mi pare che si chiamasse Paoa. Pele ado- però Paoa per scavare pozzi di fuoco in cui vivere, ma il mare continuava a inondarli e a spegnere le fiamme. Pele si spostò lungo la catena di isole, finché non giunse qui nell'Isola Grande, dove alla fine trovò il Kilauea. Quel vulcano è stato la sua casa per migliaia di anni. Si fermò perché un violento stridio aveva riempito l'aria. Le due donne guardarono il punto, più in basso, dove una confusione di piumaggi vivaci indicava che alcuni uccelli tropicali lottavano fra i rami. Fecero una pausa per sorseggiare il cocktail. — Comunque, prima di stabilirsi qui, Pele ebbe a Maui un grande scon- tro con la sorella maggiore, Na-maka-o-Kaha'i, dea del mare... — Non ho mai avuto una sorella maggiore — disse Cordie. — Solo fra- telli. E sono stati tutti una spina nel fianco, a parte quello che morì da pic- colo. Scusa. Continua. — Pele e sua sorella la tirarono per le lunghe, finché Pele non rimase uccisa. — Uccisa? — Cordie parve confusa. — Gli dèi hanno anche aspetti mortali — disse Eleanor. — Quando Pele perdette i suoi, divenne ancora più potente come dea. E dal momento che morì qui a Hawaii, il suo spirito fu libero di volare ai vulcani Mauna Loa e Kilauea, dove continua a vivere anche oggi. Cordie aveva corrugato la fronte. — Pensavo che Pele potesse apparire come una donna mortale... — Infatti — disse Eleanor. Arrivò il terzo giro di cocktail. — Solo che ormai non è più mortale. — Non capisco. Ma continua. Io bevo, tu parli. — La faccenda si complica — convenne Eleanor. — Per esempio, Pele è la dea del fuoco, ma non può creare il fuoco... quella è prerogativa maschi- le. Ma può controllarlo e infatti in queste isole lo controlla. Ha vari fratel- li, anche loro dèi, che controllano il tuono, le esplosioni, gli zampilli di la- va, la cosiddetta pioggia di fuoco... tutti gli aspetti più rumorosi e teatrali ma meno potenti del fuoco. — Tipico — borbottò di nuovo Cordie. — Ma Pele controlla la grande forza della natura che è il vulcano. Di so- lito Pele dorme, però nel corso dei secoli ha aiutato alcuni sovrani mortali che le erano simpatici... — Kamehameha — disse Cordie. — Giusto — confermò Eleanor. Allontanò il terzo cocktail. — È meglio, se non lo tocco. Mi gira già la testa e, come dici tu... stanotte ci sarà molto da fare. Non voglio che Paul e il suo amico pilota mi credano ubriaca. Cordie si strinse nelle spalle. — Di solito me ne frego di ciò che pensa la gente. — Alzò gli occhi perché il cameriere era tornato a domandare se vo- levano cenare nel ristorante o fuori sulla terrazza. — Che ne dici, Nell? Stasera m'andrebbe di cenare fuori. — D'accordo — disse Eleanor. Ordinarono i piatti. Come antipasto Eleanor provò una tortina ahi, com- posta di fette di melanzane marinate e passate alla griglia, cipolle di Maui, basilico, tonno ahi e pomodori, con una spruzzata di formaggio di capra di Puna, il tutto condito con olio di nardo. Cordie ordinò tortine d'aragosta in crosta di patate con salsa vinaigrette alla mostarda. Come piatto principale, tutt'e due scelsero costata d'agnello di Sonoma caramellata con timo fresco e purea di patate. — Quand'ero piccola le chiamavo patate rotte — disse Cordie. Il cibo arrivò presto ed era delizioso. Le due donne continuarono a parla- re tra un boccone e l'altro. Il cielo cominciò a farsi scuro. A un certo punto Paul Kukali si avvicinò al tavolo, ma solo per dire a Eleanor che l'elicotte- ro sarebbe giunto fra un'altra mezz'ora. Il soprintendente pareva turbato: salutò con un cenno le due donne e si allontanò. — Bene, torniamo a Pele — disse Cordie, mentre sparecchiavano per il secondo. — Il guaio è che non sappiamo se sta al nostro fianco o se è die- tro tutto questo casino al Mauna Pele. — Sì — disse Eleanor bevendo un po' d'acqua. — Ma sai già come la penso. — Certo, ho letto il diario di zia Kidder. Eleanor fece un gesto d'assenso e si soffermò a guardare la propria ma- no, colpita ora da raggi di sole quasi orizzontali. Le ricordava la mano di sua madre. "Quando mi sono venute le mani di mia madre?" pensò. Scosse la testa e cercò di concentrarsi. — Dobbiamo presumere... o almeno io vo- glio presumere... che questi eventi siano causati da forze contrarie a Pele. Gli occhietti di Cordie brillavano. — Sì, ma quali nemici di Pele sono dietro tutta questa storia? — Non lo so — rispose Eleanor. All'improvviso si sentì stanca. — Pele aveva un mucchio di nemici. Oltre a Na-maka-o-Kaha'i, la dea del mare, fra i tradizionali nemici di Pele c'è Pliahu, la dea della neve che vive sulla vetta del Mauna Kea. Alcune migliaia di anni fa ebbero uno scontro perché amavano lo stesso uomo. — Pfff — sbuffò Cordie. Arrivarono i dessert. Cordie aveva ordinato torta di formaggio lilikoi e un assaggio di citronella brulée su biscotti d'a- nacardio. Eleanor aveva preso il caffè. — Da quanto sappiamo, pare che dietro questa guerra e quell'altra nel 1866 ci sia Pana-ewa, quello che compare come nebbia e come uomo- rettile. Ma per quanto sia potente, Pana-ewa non sembra una figura tale da guidare una rivolta contro Pele. — Chi altri la odia? — domandò Cordie, attaccando la torta di formag- gio. — Quasi tutti gli dèi maschi — rispose Eleanor. — Anche quelli più an- tichi, come Lono e Ku, erano invidiosi della devozione che gli hawaiani ri- servavano a Pele. — Tipica insicurezza maschile — borbottò Cordie. — Eh? — Niente. — Cordie assaggiò il brùlée. — Oddìo... è squisito. Vuoi pro- vare? — Certo. — Eleanor ne prese una punta di cucchiaio, assaggiò, chiuse gli occhi. — Fantastico! — Ne vuoi ancora? — No, grazie — rispose Eleanor. Sorseggiò il caffè forte e sentì svanire in parte gli effetti dell'alcol. — Dov'ero rimasta? — Pele e l'invidia degli dèi. — Ah, sì... abbiamo visto quel cane nero. Ku assume la forma di un ca- ne. — E l'altro comesichiama... Lono... quale forma assume? — Non lo so con certezza. Lono può assumere forma umana, ma credo che lo faccia raramente. Era il più feroce e il più esigente di tutti gli antichi dèi... quasi tutti i sacrifici umani lungo questa costa erano dedicati a Lo- no... ma non penso che avesse un particolare motivo di rancore verso Pele. Cordie alternava pezzetti di torta di formaggio e cucchiaiate di brùlée. — Allora i nemici di Pele potrebbero essere Ku, o la sua stessa mammina, o più facilmente Pana-ewa e i suoi compari. Eleanor guardò la luce svanire sopra le cime degli alberi al di là della terrazza. — O qualcun altro — disse. Guardò l'ora, poi Cordie. Mancava qualche minuto all'appuntamento con Paul per il giro in elicottero e lei sen- tiva crescere la tensione. — Pele sostenne una grande battaglia contro la sua sorella preferita, Hi'iaka, proprio lungo questa costa. Anche stavolta a causa di un uomo. Prego? — Non ho detto niente — rispose Cordie. — Hi'iaka era la sorella minore di Pele, quella che danzava. Le due so- relle andavano d'accordo. Hi'iaka si mantenne leale nei confronti di Pele, anche se provava interesse per uno degli amanti di lei, un uomo di nome Lohi'au. Pele pensò che fra i due ci fosse qualche illecito rapporto e assalì Hi'iaka, proprio lungo questo tratto di costa... Tutt'e due guardarono il sole basso e la distesa dell'oceano. La nube di fumo e di ceneri formava una cappa sopra la costa, come un telone d'ince- rata, e il sole accendeva la parte inferiore delle nubi, tingendo ogni cosa di una sfumatura rossoarancione. Nella baia le onde si muovevano pigramen- te, come in un oceano di sangue. — Chi vinse? — domandò Cordie. Aveva terminato i dessert e lasciò ca- dere il cucchiaio nel piatto del brùlée, con un tintinnio che pareva di soddi- sfazione. — Hmmm? Ah, fra Pele e Hi'iaka? Lo scontro terminò in parità, ma Pele uccise accidentalmente Lohi'au. Cordie annuì. — Come un sabato notte a Chicago. Le solite baruffe in famiglia. — La storia ha più o meno un lieto fine. Un fratello di Pele trovò lo spi- rito di Lohi'au che volava via sull'oceano; lo riportò sulla terra e lo rimise nel corpo. — Come nel diario di zia Kidder? — domandò Cordie. — Presumo. Comunque, Hi'iaka e il suo nuovo amante andarono insie- me a Kauai. Ma Hi'iaka potrebbe avercela ancora con Pele. Ed è una dea potente... Cordie ripiegò in grembo le mani e si appoggiò alla spalliera. — Non so, Nell. Non mi pare probabile che Paul e quei kahuna maschi siano riusciti a mettersi in contatto con uno spirito femminile. Credo invece che abbiano tirato dalla loro parte un dio maschio-porco-sciovinista. Eleanor sogghignò. — Cosa c'è di tanto buffo? — Esiste un dio "porco" — disse Eleanor. — Almeno, un dio maiale. Kamapua'a. Il dio maschio per eccellenza... e nemico di Pele. Amante di Pele, pure. Cordie si sporse. Gli ultimi raggi del sole le facevano brillare il viso già arrossato. — Racconta! Eleanor scrollò le spalle. — Il verro era il più grosso animale terrestre conosciuto da polinesiani e hawaiani. L'incarnazione del potere maschile. Kamapua'a assume la forma di verro... o di un uomo bellissimo. È un dio potente, anche se ama stare sul lato sottovento, piovoso, delle isole, è asso- ciato alla pioggia, alle foreste, ai luoghi oscuri, ma si caccia sempre nei guai per colpa del proprio appetito sessuale. Kamapua'a tentò una volta di violentare una sorella di Pele, Kapo; ma Kapo gli sfuggì, togliendosi la va- gina e gettandola lontano come falsa traccia... scusa, non ho capito. Cordie aveva assunto un'espressione imperscrutabile. — Niente, Nell — disse. — Pensavo solo a quanto sarebbe utile anche per noi un simile stra- tagemma... continua. È meglio di General Hospital. — Fatto sta che Kamapua'a nel corso dei secoli ha anche stuprato Pele decine di volte — disse Eleanor. — C'è un luogo, nella punta meridionale dell'isola, chiamato Kalua-o-Pele, dove la terra è sconvolta e accidentata; secondo le leggende, lì Pele perdette la prima grande battaglia contro Ka- mapua'a e il dio... ottenne ciò che voleva. — La trombò... la stuprò — chiarì Cordie. Eleanor annuì. — Ho visto delle fotografie di quel posto. Sembra un mucchio di lenzuola attorcigliate. — Peccato che Pele non fosse abbastanza forte da respingere il porcone — disse Cordie mentre il cameriere portava via gli ultimi piatti. — Avrebbe potuto farlo. Fu una battaglia d'inferno... i fuochi di Pele contro le inondazioni di Kamapua'a. Quest'ultimo mandò anche migliaia di maiali a divorare tutti gli arbusti in modo che non ci fosse niente da brucia- re. Pele mutò in vapore la pioggia degli uragani. Coprì di lava le terre di Kamapua'a. Questi ribatté con altri torrenti di pioggia. Pele era pronta a la- sciarsi distruggere, anziché cedere a Kamapua'a. Ma le leggende dicono che alla fine i suoi fratelli... quelli che proteggevano la legna da ardere... capirono che avrebbe perduto e le ordinarono di cedere a Kamapua'a. Te- mevano che tutti i fuochi restassero estinti per sempre. — Tipico — disse Cordie, facendo crocchiare le nocche. — Sì — disse Eleanor, pensierosa. — Kamapua'a sarebbe un indiziato attendibile, ma di rado viene nella parte sottovento, quella asciutta, dell'i- sola, secondo... — Merda santa! — esclamò Cordie. Fissava qualcosa da sopra la spalla di Eleanor. Le due donne si alzarono e andarono alla ringhiera della terrazza. Nel- l'ultimo bagliore indiretto del tramonto contro la bassa nube di ceneri, mi- gliaia di filamenti sottili andavano alla deriva nell'aria, riflettendo la luce del sole, come minuscole fibre di colore purissimo. Cordie e Eleanor cor- sero fuori dal Belvedere delle Balene e uscirono nella zona a giardini fra la Grande Hale e la spiaggia. Filamenti di quella sostanza ricoprivano l'erba, i sentieri, la vegetazione. Matasse di fibre pieghevoli, alcune lunghe anche più di un metro, ricadevano in onde come capelli femminili. — Cos'è? — domandò Cordie. Eleanor scosse la testa. Tramontato il sole, i filamenti avevano perduto gran parte del proprio colore e parevano di un viola sbiadito e di un grigio argenteo. L'impressione di guardare una capigliatura femminile era straor- dinaria. — I capelli di Pele — disse una voce alle loro spalle. Si girarono e videro Paul Kukali lì in piedi. Il soprintendente pareva an- cora sconvolto e preoccupato. Parlava con tono piatto. — Si tratta di una forma di vetro filato — spiegò — che si crea quando il Mauna Loa e il Ki- lauea sono in piena eruzione. Provate a toccarli... vedete quanto sono fles- sibili? Raramente arrivano fin qui. — Guardò a est, dove il cielo era di un rosso più vivido che a ovest, come se quella sera ci fossero due tramonti. — Evidentemente l'eruzione peggiora. Eleanor toccò un'ultima volta le fibre simili a capelli e si rialzò. — Si- gnifica che salta il giro in elicottero? — No, al contrario — disse Paul. — L'elicottero è qui, ma è meglio par- tire subito, prima che la nube di ceneri peggiori e che non ci diano il per- messo di volare. Eleanor si rivolse a Cordie. — Sei sicura di non... — No no — rispose l'altra. — Poche cose mi fanno paura, Nell, ma il volo mi terrorizza. Non voglio volare, se non sono obbligata. Però vengo fuori a guardarti decollare. Paul aveva portato un golf cart e con quello girarono intorno alla Grande Hale, passando davanti ai campi da tennis e al parcheggio; attraversata una parte del campo da golf, a nord, giunsero all'eliporto situato nei campi di a'a. Là fuori, al di là degli alberi, il cielo era più chiaro, ma la nube di ce- neri rimaneva una presenza grigia a pochi chilometri da terra. L'elicottero era fermo al centro del cerchio di asfalto, con i rotori in lenta azione. Era molto più piccolo di quanto Eleanor non avesse immaginato, poco più di una cabina a bolla munita di coda con relativo rotore. Il vento da sudest sbatacchiava la manichetta arancione appesa al palo dalla loro parte del cerchio d'atterraggio. A causa del riflesso del cielo sulla cupola di plexiglas, il pilota era solo una sagoma indistinta. Eleanor si girò e strinse il braccio a Cordie. — Ci vediamo fra un paio d'ore. Cordie la guardò dritto negli occhi. — Stai attenta, Nell. Se trovi chi se- condo me cerchi, salutalo da parte mia. Eleanor sorrise, annuì e seguì Paul, che si accostava, piegato in due, al- l'elicottero. Cordie arretrò per sottrarsi al vento provocato dai rotori. Dalla sua posi- zione non poteva vedere il pilota, ma guardò Paul salire per primo e poi Eleanor allacciarsi le cinture nel sedile anteriore. Il motore dell'elicottero aumentò il numero di giri, i rotori divennero una traccia confusa e il picco- lo velivolo parve balzare in aria come una libellula. Descrisse un giro a bassa quota sul complesso turistico e poi si diresse verso il mare, ronzando a sud lungo la costa. — Buona fortuna, Nell — mormorò Cordie. Tornò verso l'oasi di ombre sempre più fitte che era il Mauna Pele. 19 Gli splendenti dèi del mondo sotterraneo. Luminosi a Vavau sono gli dèi della notte. Gli dèi in gran folla radunati per Pele. Preghiera a Pele 18 giugno 1866, in un villaggio senza nome sulla costa Kona Quando la nostra guida, il fuoco fatuo, ci condusse all'entrata del Mondo Sotterraneo di Milu, il sole ancora non si era levato sopra la massa del vul- cano alle nostre spalle e le nubi s'addensavano, ma il cielo si era rischiarato in un grigio evidente. Per l'ultimo miglio di discesa verso la costa seguimmo una strada rialza- ta di larghezza uniforme, dal fondo di macadam. Il mio stanco cavallo a- veva arrancato su quella strada per parecchi minuti, prima che io notassi il cambiamento nel rumore di zoccoli e mi prendessi la briga di guardare in basso nell'oscurità meno fitta. La strada, lastricata con pietre piatte, era chiaramente antica e rivelava un elevato grado d'abilità nella costruzione. Le pietre erano consunte e lisce. "Mi ricorda le antiche vie lastricate che si dipartono da Roma e che si vedono nelle rotocalcografie" disse il signor Clemens, rallentando il caval- lo per procedere al mio fianco, ora che il sentiero si era allargato. Davanti a noi, la sfera di gas ardente, azzurrino, continuava a librarsi come un cane da caccia che indicasse la via nei campi. I nostri esausti cavalli la seguiva- no senza dare segno di paura. "Purtroppo non siamo diretti a Roma" replicai, rendendomi conto di quanto fossi distrutta dalla stanchezza e dal turbamento. "Hmmm" fece il signor Clemens, nel tono di chi è d'accordo. "Perfino una visita al Papa parrebbe prospettiva più piacevole di un'imminente u- dienza del Re degli Spiriti." Malgrado l'aria si facesse più calda, rabbrividii. "Sarebbe meglio non scherzarci troppo" dissi. Poi, con l'impressione d'essere stata forse un po' aspra, domandai: "Lei è stato a Roma?" "Ahimè, no" rispose il corrispondente. "Però mi auguro di visitare tutta l'Europa, prima di diventare troppo vecchio. Se avrò il tempo d'invecchia- re..." Mi lanciò un'occhiata, con un'espressione che forse indicava turba- mento per avermi allarmata. "E lei è mai stata a Roma, signorina Stewart?" Sospirai. Era un sospiro di stanchezza. "Ho appena iniziato i miei viaggi, signor Clemens. Ho visto ben poco del mondo e il mio principale rimpian- to è di non riuscire a vivere abbastanza da vederlo tutto. Mi ero augurata di visitare anche Roma, in questo viaggio." Vidi il mio compagno inarcare le sopracciglia. "Eppure aveva detto di essere diretta a ovest al di là del Pacifico..." "Sì" dissi. "Avendo visto le Montagne Rocciose e avendo scritto una re- lazione dei miei viaggi da quelle parti..." Esitai, turbata dalla mia mancan- za di tatto. "Lei scrive!" esclamò il signor Clemens. "Una scrittrice di libri di viag- gi! Una collega imbrattacarte!" Mi fissai le mani, infuriata con me stessa per avere rivelato il mio passa- tempo preferito e per il rossore che mi bruciava le guance. "Sono solo diari di viaggio, che ho mandato alle mie sorelle" spiegai. "Fatti rilegare priva- tamente... non veri libri." "Sciocchezze!" esclamò il signor Clemens, alzando la voce. "Senza sa- perlo, ho viaggiato in compagnia di un'anima gemella. Ciascuno di noi ha abbandonato l'onesto lavoro per il banditesco piacere della penna." Avvolsi strettamente le redini nella mano e tentai di cambiare ar- gomento. "Dalle isole Sandwich contavo di andare in Australia" dissi. "Poi in Giappone. Poi forse in Cina... ho un cugino che è missionario laggiù... e poi in India, e poi forse in Terrasanta, ma non per mare... e poi l'Europa... Roma..." Lasciai morire la frase, inorridita dalla mia stessa loquacità. Il signor Clemens annuiva, pareva impressionato. "Un rispettabile itine- rario, per una piccola signora in viaggio da sola." Si tastò la tasca della giubba, come se cercasse un sigaro; corrugò la fronte e disse: "Quanto tempo ha riservato a questa circumnavigazione?" Sollevai il viso alla fresca brezza che spirava dalle zone boscose fra noi e la costa. Adesso il mare era ben visibile, risplendeva della luce riflessa dal cielo. "Un anno" dissi. "Due? Di più. Non importa." "Nell'Ohio non c'è... nulla... che la invogli a tornare?" domandò lui. Invece di rispondere alla domanda, dissi: "Nel suo testamento mio padre mi ha lasciato una dote considerevole. Per alcuni anni ho sofferto di croni- che indisposizioni. I medici mi hanno consigliato di viaggiare". Al signor Clemens brillarono gli occhi. "Senza immaginare che la loro paziente sarebbe partita per il giro del mondo" disse. Alzò la gamba e con gesto languido la mise di traverso sul corno della sella. Aveva gli stivali impolverati. "Se il suo medico avesse immaginato quali avventure le a- vrebbero riservato le isole Sandwich, non credo che nelle sue prescrizioni avrebbe incluso i viaggi." Con un'occhiata alla nostra destra, nel disperato tentativo di cambiare argomento, dissi: "Che strano! I frangenti distano più d'un miglio ma si odono benissimo". Il signor Clemens girò la testa verso la lontana linea di frangenti in bas- so. "Ha mai osservato i pagani nel loro passatempo nazionale?" mi do- mandò. Scossi la testa. I cavalli avanzavano faticosamente sulle pietre lisce. Il fuoco fatuo non pareva niente di straordinario, nel mio stato confusionale dovuto alla fatica e all'orrore per la morte del reverendo Haymark. "Il bagno tra i frangenti" spiegò il signor Clemens, tastandosi ancora la tasca come in cerca di un sigaro sfuggito alle precedenti ricerche. Non ne trovò. "Ah" feci. "No. Ne ho sentito parlare, a Honolulu, ma non l'ho mai vi- sto." "Uno sport magnifico" disse il signor Clemens, riprendendo la normale posizione in sella. "Nel mio secondo giorno a Oahu incappai in un gruppo di ragazze indigene, nude, che facevano il bagno tra i frangenti; mi acco- stai e mi sedetti sui loro vestiti, per evitare che qualcuno li rubasse. Le pregai di uscire dall'acqua, perché il mare s'ingrossava ed ero convinto che corressero dei rischi, ma loro parevano prive di paura e continuarono a di- vertirsi." Guardai in basso e rimasi in silenzio, girando la testa in modo che quello sfacciato giovanotto non scorgesse il mio sorriso. All'improvviso mi sov- venni delle parole della vecchia: "... vi toglierete gli assurdi paludamenti haole in cui vi siete drappeggiati..." e il mio sorriso svanì. "Di lì a poco" continuò il signor Clemens "i giovanotti del villaggio si unirono alle ragazze e guardai con curiosità il loro bagno tra i frangenti. Ciascun pagano portava con sé una corta tavola, pagaiava al largo per tre o quattrocento iarde, aspettava che giungesse un maroso particolarmente alto e poi lanciava la tavola sulla cresta di spuma, con se stesso sulla tavola. Era stupefacente da vedere, signorina Stewart. I migliori fra loro, maschi o femmine, sfrecciavano verso la riva come granate di cannone, come un treno espresso! Nel frattempo i pagani si tenevano in equilibrio su di una sola gamba, facevano grandi gesti l'uno all'altro, si tenevano ritti sulle ma- ni, s'intrecciavano i capelli... e intanto le tavole venivano con fragore con- tro la riva, sopra quelle eccezionali creste d'onda." Sorrisi di nuovo, stavolta per mostrare la mia incredulità, e dissi: "E lei ha provato quel divertimento, signor Clemens?". "Ma certo!" mi rispose. Corrugò la fronte, ricordando. "Confesso però che fu un fallimento. Riuscii a sistemare la tavola nel giusto modo, e anche nel giusto momento, però mancai il salto. La tavola, senza alcun carico, colpì la riva in tre quarti di secondo e io toccai il fondo nello stesso perio- do, con un paio di barili d'acqua dentro di me. Sospetto che nessuno, a par- te gli indigeni, riuscirà mai a padroneggiare l'arte di fare adeguatamente il bagno tra i frangenti." Ormai il cielo aveva il chiarore del mattino, il sole era appena nascosto dalla vetta del vulcano a levante, ma le nubi giungevano basse e cupe dal mare e, malgrado il vento contrario, c'era nell'aria un puzzo di fuoco infer- nale. Sospirai di nuovo. Sapevo che il tono scherzoso del mio compagno mi- rava a sollevarmi lo spirito e a non farmi pensare ai terrori che ci aspetta- vano, ma il senso di misteriosa urgenza rimaneva, reale come il fuoco fa- tuo librato a mezz'aria che ora lasciò l'antica strada e veleggiò sopra il campo di a'a verso la costa. I cavalli esitarono un momento, chiaramente riluttanti a ripetere la fatica di trovare la via fra le pietre accidentate, ma noi li spronammo e quelli alla fine ubbidirono. Il globo di livido gas aveva dato l'impressione d'aspettare che entrassimo nel campo di lava, ma ora si librò di nuovo a farci da guida. Mi sforzai di usare lo stesso tono leggero e disinvolto del signor Cle- mens. "Purtroppo avrò delle difficoltà a guidare fuori del Mondo Sotterra- neo gli spiriti hoole... non credo negli spiriti." Il signor Clemens si schiarì la voce come se si preparasse a narrare un altro aneddoto e replicò: "Neppure io ci credevo, fino a una certa notte d'autunno di due anni fa, a Carson City, quando...". S'interruppe e fermò il cavallo. Davanti a noi, una ripida muraglia di lava aveva formato, molto tempo prima, una cascata di fuoco liquido, alta mille piedi, ora solidificata in un anfiteatro circolare di pietra liscia che terminava in un'ampia baia. I frangenti si schiantavano percettibilmente un quarto di miglio più in basso. Nell'anfiteatro c'erano un boschetto di palme da cocco e alcune capanne di- roccate. "Ho il sospetto che questa sia la baia Kealakekua" disse il signor Cle- mens, a bassa voce, come se qualcuno pptesse origliare. "Quella dove al- cuni anni fa uccisero e cucinarono il capitano Cook." Quale che fosse il nome di quella baia, il bizzarro cerchio di pietra liscia e increspata era bisecato da una singola fenditura, uno stretto crepaccio che era chiaramente il soffitto crollato di uno dei numerosi condotti di lava in- contrati durante la nostra cavalcata. Nel punto dove il fuoco fatuo era scomparso, il terreno sprofondava e l'apertura del crepaccio pareva piutto- sto l'ingresso di una caverna. I cavalli si rifiutarono d'avvicinarsi a meno di trenta piedi dalla fen- ditura. Allora noi smontammo e il signor Clemens impastoiò le stanche cavalcature e prese dalla sella una matassa di corda; insieme ci av- vicinammo lentamente all'apertura. L'impressione che si trattasse dell'ingresso di una grotta era ingannevole; anche lì, dove il terreno scompariva in pieghe di lava, la fenditura si apriva come un baratro, non come una grotta. A causa delle sporgenze rocciose dove il soffitto era crollato, era impossibile appurare se il crepaccio era profondo sei piedi o seicento. Intanto il mio compagno aveva legato un sasso a un capo della corda; ora lanciò la fune nell'apertura ai nostri piedi. "Ci serve uno scandaglio" disse, chiaramente turbato. Il sasso urtò la pietra quando meno di venti piedi di corda erano scivolati nel buco. "Bene" disse il signor Clemens, ritirando la corda e avvolgendola con la facilità derivante da una lunga pratica. "Mark twain, penso." Lanciò di nuovo la fune, stavolta un po' più lontano. "Sì, marca due" disse. Lasciai trasparire la mia mancanza di comprensione. "Un vecchio modo di dire in voga sui battelli fluviali" spiegò il signor Clemens. "Significa che lo scandaglio indica una profondità di due braccia davanti a noi. Dodici piedi. Abbastanza perché una chiglia passi. Buona notizia, per il pilota. A dire il vero, quel termine mi piace molto, tanto che nel consegnare all'Hornet l'articolo, la settimana scorsa, ho..." "Come faremo a scendere per dodici piedi?" domandai. Non volevo in- terromperlo, ma ero interessata all'impresa che ci si prospettava, non alle sciocche consuetudini in voga sui battelli fluviali. "La vecchia megera aveva detto qualcosa a proposito di liane ieie" rispo- se il signor Clemens. "Ma ho pensato che questa corda sarebbe stata una migliore..." S'interruppe, fissando al di sopra della mia spalla, con un'e- spressione così peculiare da farmi girare di scatto. A meno di sei piedi da me c'era una giovane donna. Non l'avevo sentita avvicinare, anche se fin lì i nostri stivali avevano fatto scricchiolare i ciot- toli sulla pietra. La donna era indigena, giovane, bella, con lucida pelle marrone, occhi scuri e brillanti, capelli che ricadevano con la lucentezza dell'ala di un corvo. In mano reggeva due cose... una zucca chiusa da uno stoppaglio e una matassa di quella che pareva liana intrecciata. Prima che l'uno o l'altra di noi aprisse bocca, la giovane indigena disse: "Dovete affrettarvi. Pana-ewa e gli altri dormono per un poco, dopo l'alba, ma di un sonno leggero e si svegliano facilmente. Presto, adesso. Togliete- vi quei paludamenti haole...". La voce era giovanile, vibrante, morbida, liquida nel pronunciare le vo- cali inglesi nel modo tipico degli hawaiani... inconfondibilmente una ver- sione più giovanile della voce della vecchia da noi vista nella capanna. "Presto!" ripeté la donna, muovendo in un gesto la mano che reggeva la corda di liane. "Toglietevi i vestiti." Il signor Clemens e io ci guardammo in faccia. — Will, ho parlato con un maiale — disse Byron Trumbo, mandando giù la seconda vodka con ghiaccio. — Uno stronzissimo maiale. Will Bryant annuì, con un'occhiata a Hiroshe Sato e agli altri davanti a lui lungo il tavolo da buffet. — Capisco — disse. — La signora Trumbo si rifiuta di andarsene e il suo legale insiste perché noi... — Non con quel porco! — disse Trumbo, girandosi in fretta e pulendosi le labbra. — Con un porco vero! Il figlio di una scrofa. Un grosso, fottuto maiale. Will Bryant lo guardò di traverso, ma rimase in silenzio. — Maledizione, non guardarmi in quel modo! — ruggì Trumbo, tanto forte che Sato e il vecchio signor Matsukawa e il dottor Tatsuro si girarono a fissarlo. Trumbo si allontanò, tirandosi dietro Will. — Non guardarmi come se fossi impazzito — gli bisbigliò in tono ansimante. — Ho detto solo la veri- tà... c'era un maiale gigantesco, in quel buco nel terreno; ed era là sotto, con Sunny Takahashi... che risplendeva come le lancette luminose degli orologi anni Cinquanta, Will... e aveva otto occhi, se ho visto bene. Il maiale, cioè. — Lo afferrò per il braccio. — Non mi credi, vero? Dimmi che mi credi. — Le credo, signor Trumbo — disse Will Bryant. Liberò con gentilezza il braccio. Trumbo lo scrutò con aria insospettita, ma Will Bryant annuì. — Sono già successe tante cose bizzarre qui intorno — disse. — Se lei dice d'avere parlato con un maiale... ha parlato con un maiale. Trumbo gli diede una pacca sulla spalla. — Ecco cosa mi piace di te, Will... sotto la patina d'avvocato di Harvard batte il cuore di un vero lecca- culo pisciami-anche-addosso. Senza offesa, Will. — Nessuna offesa, capo — disse Will Bryant. — Ma devo dirle che ab- biamo trovato Sunny Takahashi... A momenti Trumbo lasciò cadere la bottiglia di vodka con cui stava per riempirsi di nuovo il bicchiere. — È tornato? È uscito da quel pozzo? Il maiale l'ha lasciato tornare qui? — Non so niente del maiale. Ma hanno trovato il corpo di Sunny in una delle celle frigorifere del ristorante. Secondo il dottor Scamahorn, ha l'a- spetto di chi è morto da dodici ore. Non ho ancora informato il signor Sato e il suo gruppo, perché sapevo che voleva farlo lei. Nello stesso posto è stato trovato anche il corpo di Dillon. L'abbiamo chiamata per radio, ma lei non rispondeva. Scamahorn vuole fare l'autopsia dopo avere notificato alle autorità i due decessi, e... Trumbo afferrò di nuovo per il braccio Will e lo allontanò ancora di qualche metro dal tavolo da banchetto. — Dov'è il corpo? — Quale dei... — Di Sunny! — sbottò Trumbo. Abbassò di nuovo la voce. — Il corpo di Sunny. Non me ne frega un cazzo di Dillon. Dov'è? — Nell'infermeria. Tutt'e due i cadaveri sono stati portati lì circa venti minuti fa. Trumbo puntò il dito contro il petto di Will. — Chiama per radio... no, vai di persona. Fai rimettere nel freezer il cadavere di Sunny... merda, tut- t'e due i cadaveri. Chiudi il coperchio su questa storia. Non parlarne a nes- suno! Stavolta Will Bryant rivolse davvero un'occhiata curiosa al suo datore di lavoro. — Capo, è finita. Il signor Sato non firmerà mai ora che il suo ami- co è stato ucciso qui. È finita. Dobbiamo... Trumbo costrinse Will ad allontanarsi ancora dal gruppo. — No no. Non hai capito niente. Neanche mezz'ora fa ho visto davvero Sunny Takahashi. Luccicava e si moveva come un cazzo di zombi, ma era proprio Sunny. Se è morto da dodici ore ed è rimasto congelato come pensa il dottor Scama- horn, allora il maiale tiene in ostaggio il suo spirito o chissà cosa... — Il suo spirito? — ripeté Will Bryant. Non beveva alcolici, non ne a- veva mai bevuti, ma ora allungò la mano verso la bottiglia di vodka. — Spirito, fantasma, o chissà che cazzo — disse Trumbo mantenendo bassa la voce per quanto gli era possibile. — Non so niente delle stronzag- gini religiose degli hawaiani. Ma il maiale era disposto a darmi Sunny... il porco sapeva che Sunny era importante per me ed era disposto a trattare. Voglio dire, non so niente di dèi hawaiani in forma di maiale o che cazzo sono, ma capisco quando uno vuole trattare e quel maiale del cazzo voleva trattare. Will Bryant si trattenne dal bere la vodka e annuì. — Va bene — disse. — Ma Sunny e Dillon sono sempre morti... — Dillon può anche restare morto! — sibilò Trumbo. — Ma forse il maiale mi restituirà Sunny. Ha detto che Sunny sarebbe stato mio, quando l'avessi voluto veramente. Ha detto che dovevo solo scendere là sotto e parlare con lui... col maiale... di questa storia... — Lasciò morire la frase e si morsicò le labbra. Will rimise sul banco il bicchiere di vodka. — Dovremmo tornare dagli altri. Hiroshe e il suo gruppo saranno pronti per cenare. Trumbo annuì, turbato. — Pensi che firmeranno, se Sunny torna? Will Bryant esitò solo un secondo. — I documenti sono stati controllati. La sala riunioni è sempre pronta. A Sato non piace fare affari di notte, ma parlavano di partire domattina presto. Trumbo annuì, con uno sguardo che non si posava su niente nella sala. — Sì, va bene... trovo il modo di riportare qui Sunny e concludiamo la faccenda prima di domani mattina. Vai a controllare che rimettano nel fre- ezer i due cadaveri... Will fece una smorfia. — Maledizione, puoi lavarti le mani prima di tornare a cena! Pensa solo a rimettere nel freezer i cadaveri. Forse il maiale aggiungerà Dillon gratis nell'affare. Non lasciare che Scamahorn inizi l'autopsia dell'uno o dell'al- tro... Sunny non sarebbe un gran pezzo di scambio se mi procuro il suo spirito e poi gli manca il cervello o il fegato o che so io. — Diede a Will una spintarella. — Vai! Intratterrò Hiroshe e farò accomodare tutti. Will Bryant annuì e si diresse alla porta posteriore della suite. Lì giunto, esitò. — Cosa c'è? — disse Trumbo. — Mi chiedevo — rispose Will, pensieroso — cosa accadrà dopo. Le luci si spensero. Eleanor era partita per la gita in elicottero subito dopo il tramonto, prima che facesse buio. Il fumo era fitto. I vortici provocati dai rotori del piccolo elicottero mandarono complesse spirali dietro il velivolo che faceva un gi- ro sopra il Mauna Pele per poi puntare a sud lungo la costa. Paul Kukali si era sistemato nel sedile posteriore (non un vero e proprio sedile ma una stretta panca imbottita, provvista di cinture di sicurezza) mentre Eleanor aveva occupato l'unico sedile per passeggeri, nella parte anteriore. Tra il frastuono dei rotori e il fatto di agganciarsi la cintura di si- curezza, Eleanor non aveva afferrato per intero il nome del pilota durante le presentazioni urlate. Aveva capito solo il nome, Mike. Prima che il pilo- ta togliesse dal taschino del camiciotto di cotone tipo jeans un paio d'oc- chiali da sole e li mettesse, Eleanor aveva notato di sfuggita due occhi del più sorprendente grigio chiaro che avesse mai visto in un uomo. Mike pa- reva all'incirca della sua età, tra i quaranta e i cinquanta; aveva pelle ab- bronzata, un piacevole sorriso, una barbetta ben curata, braccia robuste e mani incredibilmente delicate sui comandi. Stringeva una barra di coman- do posta fra le gambe e una seconda barra accanto alla gamba sinistra. Te- neva piantate sui pedali le scarpe di tela e sotto i suoi piedi Eleanor scor- geva, attraverso il plexiglas della bolla, il terreno. Paul Kukali si era messo una cuffia e ora si sporse per indicare a Eleanor di imitarlo. Eleanor prese la cuffia da una nicchia dell'ingombra console fra lei e il pilota e se la mise, aggiustando davanti a sé il piccolo microfo- no. — Così va meglio, no? — diceva in quel momento Mike. — Questo è un ottimo velivolo, ma molto rumoroso. È più comodo parlare per interfo- no. Sentite bene? — Sì — disse la voce di Paul, metallica negli auricolari. Eleanor annuì e disse: — Sì. — Bene... piacere di conoscerla, Eleanor — disse Mike e tese la mano. Evidentemente aveva udito la presentazione gridata da Paul. Eleanor gli strinse la mano, sorpresa per la concomitante impressione di forza e di delicatezza di quel breve contatto. — Andiamo? — disse il pilota. — Sarà buio fin troppo presto. Eleanor annuì e nel giro di qualche secondo il ruggito del motore au- mentò, i rotori divennero un'immagine confusa e il piccolo velivolo parve rimbalzare una volta; poi si alzò in aria, con un'agilità che letteralmente mozzò il fiato a Eleanor e la spinse ad afferrarsi ai bordo del piccolo sedi- le. Dalla sua parte, nella fiancata dell'elicottero c'era un fragile portello che Paul aveva chiuso, ma il finestrino scorrevole era socchiuso e quando l'eli- cottero si inclinò in avanti e virò sulla sinistra prendendo quota, a Eleanor parve che non ci fosse barriera fra lei e la cima delle palme sferzate e in apparenza distanti solo qualche metro. — Può reggersi a quella barra — disse Mike per interfono — ma tenga i piedi lontano dai pedali. Grazie. Eleanor annuì di nuovo, sentendosi piuttosto ridicola. Poi lasciò perdere ogni imbarazzo e guardò dalla bolla di plexiglas, mentre l'elicottero rom- bava sulla Grande Hale e sul Bar del Relitto. Per un attimo vide Cordie nel passaggio coperto, dieci metri più in basso, con la faccia di luna piena vi- sibilmente arrossata e sollevata per guardar passare l'elicottero; staccò la mano dalla barra e rischiò un saluto agitando il braccio. Non vide se Cor- die le rispondeva. Poi sorvolarono le terrazze dell'attico dell'albergo e at- traversarono la spiaggia. Eleanor vide rimpicciolire le palme, le hale ap- pollaiate sui trampoli precari, i tetti di stoppie; e poi furono al di là della baia e lei vide l'acqua cambiare colore, da verde chiaro a blu scuro, al di là della scogliera corallina. — Da ovest è in arrivo una tempesta — disse Mike, indicando il mare. — Sarà qui fra due ore circa, dicono. Quanto basta per il nostro minitour e per il mio ritorno a casa. — Dov'è di casa? — domandò Eleanor. Udì la propria voce rimbombare negli auricolari e si rese conto d'avere gridato nel microfono. — Mike sta a Maui — giunse la voce di Paul. Eleanor si girò a guardare il soprintendente. Paul si era agganciato intorno ai fianchi la cintura di si- curezza, ma la cabina dell'elicottero era così piccola che lui, quando si sporgeva, con le spalle sfiorava quelle di Eleanor e del pilota. — Vicino a Hana — soggiunse. — Kipahulu — precisò Mike. — Niente elettricità. Niente acqua. Niente telefono. L'amiamo. — Mike è sposato con una nota ricercatrice e ha due bei bambini — dis- se Paul. — La loro casa è quel magnifico edificio in stile giapponese posto in mezzo alla giungla lungo la costa e il loro vicino meno distante è Mike Love... il Beach Boy. Eleanor annuì, anche se non era del tutto sicura se Paul si riferiva a un membro del vecchio complesso rock o a qualche noto personaggio locale di Maui. — Che tipo di ricerche fa sua moglie? — domandò. — Mediche — rispose il pilota commutando due interruttori sul quadro di comando davanti a lui e appoggiandosi comodamente allo schienale. Volarono verso sud, lungo la costa, tenendosi a un paio di chilometri dalle scogliere. Il rumore dei frangenti alla loro sinistra e i lampi di roccia ricordarono a Eleanor le sequenze d'inizio di una vecchia serie di telefilm... Magnum P.I. A quel pensiero Eleanor sorrise, mentre guardava rimpiccio- lire i campi di petroglifi e la zona in cui quel mattino aveva fatto jogging. Scorse per un attimo lo zampillo del condotto di lava comunicante col ma- re. — Porta in giro la gente per mestiere? — domandò a Mike. Il pilota sogghignò. Aveva agli angoli degli occhi le piccole rughe tipi- che delle persone allegre, visibili anche sotto gli occhiali da sole. — Più o meno — rispose. — L'elicottero è mio e ho degli accordi con la comunità scientifica... — Girò la testa verso Eleanor. — C'è una base sulle pendici dello Haleakala... il grande vulcano spento nella parte est di Maui... e il la- voro lassù riguarda per la maggior parte l'astronomia, la meteorologia e al- cune ricerche segrete per l'Aeronautica; ma Kate, mia moglie, lavora in un laboratorio d'immunologia lassù e io la porto tutti i giorni. Dalla nostra ca- panna sul livello del mare, al laboratorio a tremiladuecento metri d'altezza. Eleanor rimase sorpresa all'idea di un viaggio quotidiano d'andata e ri- torno dal caldo tropicale al ghiaccio artico. — Come mai c'è un laboratorio d'immunologia così in alto e così lontano? Mike scrollò le spalle. Teneva mollemente la destra sulla barra di co- mando e pareva controllare con la sinistra il movimento dei rotori. — For- se presumono che se gli scappa un brutto germe, lassù muoia. Intanto Kate forse è l'unica persona nelle Hawaii che ogni giorno passa da un lavoro in sandali a uno in parka imbottito. — Girò la testa e l'elicottero virò verso terra, passando sopra una penisola dalla quale rovine di pietra e figure di legno intagliato parevano fissare il mare sempre più alto. — Città del Ri- fugio — disse Mike. Qualche attimo dopo raggiunsero la prima colata di lava. Attraverso la penombra del crepuscolo e il fumo Eleanor vide il grigio nastro d'asfalto della statale interna tagliato da un più largo nastro grigio di lava fumante. Il villaggio costiero di Milolii passò in un lampo sotto i pattini dell'elicotte- ro e Eleanor si sporse a guardare il ventaglio di lava incandescente dove la colata finiva in mare. La nube di vapore si alzava ancora per quindicimila metri o anche più: una colonna bianca e orridamente compatta che s'impa- lava contro il cielo a meno d'un chilometro alla loro destra. — A quella non ci avvicineremo troppo — disse Mike. Mosse la barra di comando e l'elicottero cabrò a sinistra con una sbandata da giostra; Eleanor si sentì il cuore in gola. — Laggiù — disse indicando le colate di lava che ora parevano più vici- ne alla roulotte Airstream di Leonard e Leopold Kamakaiwi, kahuna. Erba bruciata e arbusti in fiamme circondavano la piccola abitazione e lingue di fiamma rossogiallastra si riflettevano sulle pareti opache della roulotte a forma di coleottero. Mike effettuò un giro ravvicinato. — Qualcuno da controllare? — do- mandò. — No, è tutto a posto — rispose Paul. — Il loro camioncino non c'è. — Dove saranno andati? — domandò Eleanor, guardando da una parte e dall'altra. Verso sudovest, la colonna di vapore si alzava come un fungo atomico. Verso est, le colate di lava del Mauna Loa scendevano a venta- glio lungo la zona di faglia, tagliavano in tre punti la Belt Road, per quanto da lassù si vedeva, e separavano la costa del South Kona, dal Ka'u e dalla punta inferiore dell'isola, con più efficacia di un campo minato. — Tutto a posto — ripeté Paul. — Zio Leonard e zio Leopold sono te- stardi... non pazzi. — Bene — disse il pilota. — Allora andiamo a vedere i vulcani? — Sì — disse Eleanor. E poi, senza pensarci, soggiunse: — Per favore. Sorvolarono la punta meridionale dell'isola, tenendosi lontano, come spiegò Mike, dalla grande nube di ceneri dovuta all'eruzione del Mauna Loa. — Probabilmente Paul le ha detto che da un po' di tempo non abbiamo più avuto importanti eruzioni contemporanee del Kilauea e del Mauna Loa — disse Mike mentre sorvolavano la cresta che correva lungo la coda del- l'isola come una spina dorsale dentellata. Il crepuscolo svaniva, ma il terri- torio davanti a loro pareva in fiamme. — Sì — disse Eleanor. — Mi pare che l'ultima eruzione di queste proporzioni lungo il pendio occidentale del Mauna Loa sia avvenuta nel 1950 — disse Mike. Si era tol- to gli occhiali da sole e divideva l'attenzione fra gli strumenti e il terreno che si alzava più avanti. L'elicottero continuava a salire, ma rimaneva a trecento metri sopra gli accidentati campi di lava del Ka'u. — Quella roba si muove a una velocità di nove chilometri all'ora... può raggiungere la co- sta in meno di quattro ore. Inoltre, ci sono decine... centinaia... di condotti di lava che portano sotto la superficie fiumi di roccia fusa. Oggi pomerig- gio ho trasportato da Kona al Kilauea alcuni scienziati e abbiamo visto una nuova colata sgorgare a nord, vicino al villaggio turistico. Eleanor ascoltava, ma prestava attenzione alla scena che si apriva davan- ti a loro. Linee di fuoco rossoarancione, i segni delle colate di lava del vul- cano maggiore sulla loro sinistra, e la più vivida eruzione del Kilauea drit- to davanti a loro mandavano fiumi di fiamma per trenta e passa chilometri fino al mare. Fontane di fiamma ardevano contro le nubi di ceneri neraz- zurre, più scure della nuvolaglia dei temporali estivi. Migliaia di fuochi più piccoli, dovuti ad alberi e praterie e, forse, a qualche abitazione, divampa- vano in attimi d'indicibile calore. — Lo creda o no, posso pressurizzare questo giocattolo — disse Mike. — E sarei costretto a farlo se dovessimo salire sopra il Mauna Loa, a più di quattromila metri... ma ci terremo più bassi. Possiamo vedere le due eru- zioni senza ricorrere all'ossigeno. Eleanor riusciva già a vedere tutt'e due le eruzioni. Da quindici chilome- tri di distanza, il Kiiauea era un tracimante lago di fiamme. Nel buio erano visibili coni di ceneri, illuminati dai foschi zampilli di magma che schizza- vano dalle lacerazioni nelle pendici del Kilauea. Ma era il Mauna Loa a trattenere la sua attenzione. Mentre la vetta del vulcano, alcuni chilometri più a nord e adesso un paio di chilometri più in alto, sputava una densa colonna di ceneri che si allargava sopra di loro come un soffitto, le numerose fenditure che correvano lungo la faglia tet- tonica bruciavano e risplendevano e fiammeggiavano come fessure nel sof- fitto dell'inferno. Eleanor vide nastri di fiamma correre per tratti di dieci o più chilometri, colonne di gas incandescenti riversarsi nel cielo della sera, lava zampillare per cento metri nell'aria lungo l'intero squarcio di dieci chi- lometri della fenditura. — Mio Dio, che spettacolo — mormorò. — Sconvolgente — convenne Paul. Passarono sopra la muraglia di fuoco zampillante, con un margine di si- curezza di poco superiore ai trenta metri. L'elicottero sbandava nelle cor- renti ascensionali e Mike moveva mani e piedi in gesti sicuri per raddrizza- re lo scalpitante velivolo. Eleanor sentiva il calore attraverso la suola delle scarpe. — Mio Dio — ripeté. Passarono proprio a sud della caldera, ancora parecchie centinaia di me- tri più in basso dell'apertura vera e propria del Mauna Loa, e poi si precipi- tarono giù lungo la montagna verso la tempesta di fuoco che era il Kilauea. Adesso era abbastanza buio perché la terra e il mare apparissero solo co- me chiazze d'oscurità fra gli innumerevoli fiumi e affluenti di fiamme. In ogni fiume c'erano increspature, zampilli, tessiture di fuoco liquido. I fiumi di fiamme scorrevano in ondate visibili, pigri, inarrestabili. Decine di mi- gliaia di fuochi supplementari bruciavano lungo il percorso di ciascuna co- lata. Ogni fiammeggiante albero ohi'a era un faro distinto, parte dell'incen- dio generale, ma allo stesso tempo separato dal resto. Il fumo si librava sui geyser e sui nastri e sui fiumi di fiamme, simile a una tenda sbrindellata che a volte velava per un poco la scena ma che non oscurava mai le fendi- ture di fiamme arancione. Mike passò cento metri sopra il lago agitato che era l'Halemaumau in e- ruzione. Eleanor guardò i gas fumanti, i rossi geyser all'interno di fontane arancione, la gorgogliante caldera di magma surriscaldato e si domandò che cosa sarebbe accaduto se il motore si fosse spento, se l'elicottero fosse caduto là dentro... e si costrinse a scacciare quel pensiero. Il calore premet- te contro la bolla di plexiglas come la vampata di una fornace aperta... e poi furono al di là del lago dell'Halemaumau, al di là del cratere traboccan- te del Kilauea, seguendo a velocità impressionante una delle mille colate di lava, virando intorno a colonne di fumo nero che si protendevano verso di loro come tronchi giganteschi nella notte. — Sono tutti attivi — diceva in quel momento Mike. — Tutti i coni d'u- scita e tutti i vecchi laghi... Mauna Ulu, Pu'u O'o, Puu Huluhulu, il cratere Pauahi, l'Halemaumau... guardi laggiù. Eleanor seguì il dito e vide una cupola di lava che si sollevava come un globo dentellato in un fiammeggiante lago alla loro sinistra. La cupola ri- bollì centinaia di metri sopra la superficie di pahoehoe e divenne qualcosa di assai vicino a una sfera, color rosso sangue con ondulate costolature ne- re che scivolavano dall'emisfero in fogli di lava in fase di raffreddamento, prima di iniziare il lento crollo. Ma poi Eleanor si accorse che Mike indi- cava un punto al di là della cupola di lava, al di là del lago di fuoco: uno zampillo lungo la principale fenditura che scendeva lungo la zona di faglia. Mike commutò un interruttore e parlò rapidamente nel microfono, con tono staccato e preciso. Passò di nuovo all'interfono. — Lo scienziato che ho portato su nel pomeriggio calcolava che ogni ora da quell'unico sfiata- toio sgorga più di un milione di metri cubi di lava. Lungo la zona di faglia abbiamo individuato nove sfiatatoi. Eleanor scosse la testa, incapace di trovare parole. — Si sta facendo davvero buio — disse Mike. — Sarà meglio che vi ri- porti al Mauna Pele e me ne torni a casa per cena. Virarono a ovest. Attraversando la lunga spina dorsale dell'isola, Eleanor vide le nubi di tempesta lontano sul Pacifico, ma i pendii occidentali del vulcano trattenevano meglio l'ultima luce del crepuscolo. Le lunghe fendi- ture di fiamme si movevano in un panorama ben visibile... il vasto, elevato deserto di lava del Ka'u. Con sua stessa sorpresa, Eleanor toccò il braccio di Mike. Il pilota le lanciò un'occhiata interrogativa. — Mike... — cominciò Eleanor. Fu obbligata a rimettere ordine nei pro- pri pensieri. — Questo volo è stato un regalo straordinario... lo apprezzo davvero... ma non potrebbe... — Trasse un respiro profondo. — Conosce da queste parti la zona detta Ka-hau-komo? Mike diede uno sguardo agli strumenti, raddrizzò con abile tocco il veli- volo e tornò a guardare Eleanor. — Ka-hau-komo? — disse. — Come in hau per dire "ferro"? — Sì. — Ne ho sentito parlare. — Diede un'occhiata al buio pendio montuoso trecento metri più in basso. — Si trova laggiù da qualche parte, ma non la troveremo mai con questo buio. Gli alberi hau sono scomparsi, penso. — Sì — disse Eleanor — ma c'è un grosso masso chiamato Hopoe... — Eleanor — intervenne Paul, con voce acuta negli auricolari. — Non è una buona idea. Eleanor si girò a guardarlo. — Credo che lo sia, Paul. Lo pensavano an- che i tuoi zii, ma erano troppo spaventati per chiedere. Fu Mike a parlare. — Conosco la pietra detta Hopoe. Facevamo esercizi di navigazione basandoci su quella, quando ho preso il brevetto. Non è fa- cile da trovare con questa luce, ma è proprio laggiù. — Con un cenno indi- cò l'infinita catena di massi che correva sotto di loro, con due fenditure ai lati del crinale. — Laggiù c'è una donna — disse Eleanor. — Forse è intrappolata. Il viso di Mike era visibile adesso soprattutto per il fioco bagliore rossa- stro del quadro comandi davanti a loro. Il pilota parve preoccupato. — Molly Kewalu? — domandò. — La conosci? — Era la voce di Paul. Rivelava sorpresa. — Pensavo che fosse una leggenda — rispose Mike. — Ed è una leggenda — disse Paul. — No, non lo è — obiettò Eleanor. — Quella donna è viva, abita in una grotta proprio accanto alla pietra Hopoe e forse avrà bisogno d'aiuto. — Potrei avvisare per radio la squadra di ricerca e di soccorso — propo- se Mike. — Uscirebbe, stanotte? — replicò Eleanor, insistente. Mike esitò solo un secondo. — No. All'alba, al più presto. Fu la volta di Eleanor a indicare le fenditure fiammeggianti nel terreno. L'elicottero aveva girato intorno al pendio occidentale del Mauna Loa e ora le colate di lava erano ben visibili, molto più larghe dei rivoli che scendevano dal Kilauea. — Abbiamo forse cinque minuti nel punto dove posso avere una visuale della pietra — disse Mike — ma penso di farcela. Hopoe si trova proprio qua sotto... nelle vicinanze, se non proprio nella zona sotto quel grande sfiatatoio. Eleanor si accorse di stringere ancora il braccio del pilota. Ritrasse la mano. — Grazie — disse. — Il terreno è troppo accidentato per atterrare — disse Mike: era chiaro che ripassava a mente le manovre. — Posso farvi uscire e girare in tondo, ma sarà rischioso. Sotto il suo sedile c'è un kit d'emergenza, con una po- tente torcia elettrica. Userò il faro nella pancia dell'elicottero. Ma sarà du- ra, laggiù... — Andrò io — disse Eleanor. Il cuore le batteva forte. — Abbiamo posto per un'altra persona — disse Mike. — Se Molly la Pazza è lì con la famiglia e i nipoti... se lo scordi. — C'è solo la vecchia — disse Paul. Il tono era piatto. Impassibile. — D'accordo — disse Mike. — A meno d'essere fuori rotta... quella è Hopoe, un chilometro più avanti, a ore una. Eleanor si sforzò di scorgerla, ma riuscì a distinguere solo una confusa distesa di massi, ciascuno più grosso di una casa, tutti posti in rilievo dalla luce della colata di lava che si era aperta un canale nel suo fiammeggiante viaggio verso il mare. — Reggetevi forte — disse Mike. — Scendiamo. Quando le luci si spensero, Cordie, nella sua lanai privata, osservava la tempesta giungere dal mare. Non fu colta di sorpresa dalla mancanza di corrente. Prima che il crepuscolo svanisse aveva disposto sul tavolino ac- canto alla sdraio la torcia elettrica, candele, fiammiferi e la lanterna anti- vento. Adesso usò la torcia per controllare la suite (la porta e le finestre e- rano ben chiuse) e tornò nella lanai per accendere le candele. Il vento co- minciava proprio allora a soffiare dall'oceano, ma anche a una ventina di chilometri dal fronte della tempesta lei scorgeva il profilo di neri stratocu- muli illuminati da lampi e capì che la tempesta sarebbe stata di notevole intensità. Desiderava che Nell fosse già tornata. Se la tempesta non si fosse scatenata, dalla lanai lei avrebbe udito l'elicottero, ma si era augurata che la sua amica tornasse prima della completa oscurità. Sistemò una candela in ogni stanza della suite e tenne per la lanai la lan- terna antivento. Adesso le raffiche erano aumentate e le fronde delle palme frusciavano come il rumore di un pubblico spazientito in attesa dell'ultimo atto. Cordie prese dalla borsa la .38 e una scatola di proiettili, aprì la rivol- tella, tolse i bossoli e cominciò a ricaricare. Bussarono alla porta. — Solo un momento — gridò con calma Cordie, inserendo gli ultimi tre proiettili. Chiuse con un colpo secco la rivoltella, girò il tamburo, tolse la sicurezza e andò alla porta. — Chi è? La risposta giunse soffocata, ma la voce era maschile. Cordie lasciò inserita la catenella di sicurezza, tenne fuori vista la rivol- tella, dietro la propria schiena, e socchiuse l'uscio. Stephen Ridell Carter era davanti alla soglia; reggeva una lanterna anti- vento. — Signora Stumpf? — disse. — Sono spiacente di disturbarla, ma manca la corrente e chiediamo a tutti gli ospiti di radunarsi al sesto piano. — Perché? — domandò Cordie. Non aprì la porta e non tolse la catenel- la. Il direttore si schiarì la voce. — Ahhh... abbiamo un generatore di riser- va che provvede ai piani superiori, signora Stumpf, e pensavamo che sa- rebbe... ah... più comodo. — Qui sto benissimo — disse Cordie. — Forse il frigo gocciolerà un poco perché si sbrinerà, ma per il resto va tutto alla perfezione. Carter esitò. Alla luce di candela i suoi capelli ben pettinati luccicavano, ma il suo viso pareva invecchiato, più magro dell'ultima volta. — Be', a di- re il vero, signora Stumpf... ah... come sa, molti ospiti sono andati via e noi... ah... pensavamo che i pochi ospiti rimasti sarebbero più al sicuro, se... ah... fossero tutti riuniti al sesto piano. — Al sicuro da cosa, signor Carter? Il direttore si morsicò il labbro. — Alcuni... ah... insoliti eventi si sono verificati in questo villaggio, signora Stumpf. — Ne sono al corrente, signor Carter — disse Cordie. Continuò a tenere fuori vista la rivoltella. — È proprio decisa a non volersi unire a noi al sesto piano? Lì le suite sono... ah... molto più comode di questa. Cordie gli sorrise. — Grazie lo stesso, signor Carter. Ma ormai mi sono abituata a dormire in questa camera. E poi qui i miei amici possono tro- varmi. Vada pure. — Si mosse per chiudere la porta. Stephen Ridell Carter infilò due dita nello spiraglio. Cordie attese. — Signora Stumpf, sarà... ah... prudente, vero? Cordie lasciò vedere la rivoltella, ma senza alzarla. — Certo — disse. Glielo prometto. Il direttore annuì e ritrasse la mano. Cordie lasciò socchiusa la porta il tempo necessario per udire i passi echeggiare sulle piastrelle dell'ammez- zato. L'atrio era buio. Cordie chiuse la porta e tornò nella lanai. Il vento era più forte, la fiamma nella lanterna guizzava, sotto la terrazza il fruscio di palme era aumentato. — Torna, Nell — mormorò Cordie scrutando il cielo e le nuvole che cominciavano a nascondere le stelle. Il bagliore ros- sastro del vulcano illuminava il fronte della tempesta. — Torna a casa, Nell. Dal basso provenne un raspio che non era provocato dalle fronde di pal- ma. Cordie posò sul tavolo la rivoltella e si sporse dalla terrazza. Una sa- goma grande e veloce e munita di quattro zampe corse dalla giungla al- l'ombra della Grande Hale. L'attimo dopo fu seguita da una sagoma più grande... su due gambe, stavolta, ma dall'andatura impacciata, come se tra- scinasse una coda. Cordie recuperò la rivoltella e tornò alla ringhiera. Il sentiero asfaltato e la terrazza sottostante erano deserti: l'unico rumore era lo scoppiettio delle torce che fiancheggiavano il passaggio pedonale. — Torna a casa, Nell — mormorò Cordie. 18 giugno 1866, in un villaggio senza nome sulla costa Kona "Svestitevi" ci aveva ordinato la giovane donna. Fino a quel momento, l'intera avventura nelle isole Sandwich (il vul- cano, il tempio visto nella notte, i kanaka indigeni defunti, perfino la pre- sunta morte del reverendo Haymark) era parsa un sogno, qualcosa su cui avrei potuto e voluto scrivere con il distacco di un naturalista che percor- resse insolite regioni, qualcosa su cui avrei potuto e voluto scrivere con l'a- ria stupita, quasi divertita, che si confà a una donna bianca e cristiana che viaggi in territori pagani. Avrei visto delle cose, avrei fatto commenti su delle cose... ma non sarei mai stata toccata da quelle cose! "Svestitevi" ripeté la giovane indigena. "Presto." Pensai al reverendo Haymark che giaceva morto, o in stato comatoso, nella capanna indigena alcune miglia più in alto sul fumante pendio del vulcano. Pensai alle bizzarre cose da noi viste e ai fantastici eventi che sa- rebbero accaduti. Cominciai a sbottonarmi il soprabito. "Signorina Stewart" disse il signor Clemens, fissandosi gli stivali, mani strette a pugno. "Penso di... voglio dire, so di dover scendere da solo in quel burrone. Non è il posto adatto per una..." Non scoprii mai per chi non fosse adatto il posto, perché la giovane don- na lo interruppe. "No! Devono essere un uomo haole e una wahine haole. Gli spiriti maschili seguiranno solo l'uomo. Gli spiriti femminili seguiran- no solo la wahine. Svestitevi, presto! Pana-ewa e gli altri dormono anco- ra... ma non per molto!" Il signor Clemens e io ci girammo in modo da darci la schiena e ci sve- stimmo. Mi tolsi i guanti da cavallo, il cappello a tesa corta che le famiglie di missionari mi avevano dato a Hilo, il fazzoletto di seta rossa, il soprabi- to di pelle scamosciata e la gonna di saia per andare a cavallo. Con un'oc- chiata di nascosto al signor Clemens, arrossendo forte, sbottonai la pesante blusa di cotone e la posi sul mucchio di vestiti ben piegati. "Presto!" disse la donna. Reggeva la matassa di liana e la zucca tappata. Intorno a noi la luce aumentava, ancora velata dalle nubi di ceneri e da al- tre nuvole di tipo più convenzionale, ma senza dubbio ormai sufficiente a consentire la lettura. Avrei voluto trovarmi nella mia stanza a Hilo o a Honolulu, intenta a leggere. Le avventure, decisi, erano migliori se lette in un libro, non se vis- sute. Mi tolsi la sottoveste, il corpetto della chemise, il reggipetto di cotone, gli stivali da cavallo e le pesanti calze. In corsetto, mutandoni e chemise ancora allacciata, rabbrividendo più per l'imbarazzo che per la fredda brez- za del mattino, guardai la donna. Credetti di scorgere sulle sue labbra l'ombra d'un lievissimo sorriso. "La vecchia vi ha detto che per entrare nel Mondo Sotterraneo di Milu dovete essere nudi" disse la bella apparizione. "Eri tu, quella vecchia" replicai, meravigliandomi della certezza che tra- spariva dal mio tono. "Certo" disse l'indigena. Si rivolse al signor Clemens, alle mie spalle e disse: "Presto". Sentendo il calore sulle guance, mi sbottonai il busto, mi tolsi il corsetto, la chemise, i mutandoni e misi il tutto sopra gli altri indumenti. "Non pos- siamo portare le scarpe?" domandai, sorpresa di nuovo dal tono calmo del- la mia voce. "Ci taglieremo i piedi." "Non potete portare niente" disse la giovane indigena. "Guardate me." Il signor Clemens e io ci girammo a fissare la nostra interlocutrice, cer- cando di non guardarci l'un l'altra. Tuttavia notai che il petto del corri- spondente era coperto di una fine peluria rossiccia che luccicava come ra- me nella luce sempre più vivida. Il signor Clemens era rosso in viso e ave- va una smorfia decisa. La donna (in quel momento ero davvero convinta che fosse Pele) porse al signor Clemens la fune di liane. "La ieie vi reggerà" disse. "Dovete la- sciarne un capo legato al mondo esterno, altrimenti non uscirete mai dal Regno degli Spiriti. Ora, avvicinatevi." Ci accostammo alla donna. Ero intensamente e assurdamente consapevo- le del calore della gamba destra del signor Clemens che sfiorava la mia. Il signor Clemens teneva le braccia lungo i fianchi. La donna stappò la zuc- ca. Dimenticando la nostra nudità, il signor Clemens e io arretrammo di scatto e ci portammo le mani al viso, in un istintivo ma inutile gesto di di- fesa dal fetore che ci aveva assalito. "No, no" disse la donna. "L'olio di noce di kukui farà in modo che gli spiriti non vi esaminino attentamente. Sono turbati dagli odori cattivi." "Allora confido che ci saranno molti spiriti turbati, prima che il lavoro della giornata sia compiuto" disse il signor Clemens. Contorse il viso in una serie di smorfie, mentre la donna versava dalla zucca un liquido visco- so e puzzolente e lo strofinava sulle braccia e sulle mani del mio compa- gno. "Spalmalo su tutto il corpo" ordinò. "Essenza di puzzola" borbottò il signor Clemens, ma si spalmò del fetido unguento. Poi fu la mia volta. La donna tese verso di me la zucca e mi versò sulle palme e sugli avambracci il liquido untuoso; si comportava come se ci somministrasse un sacramento. Forse, in chissà quale forma pagana, ci ve- niva davvero somministrato. "Spalmalo su tutto il corpo" ripeté la donna e inclinò la zucca mentre mi spalmavo il denso liquido sulle braccia, sulla gola, sul petto, ventre, cosce, schiena. La sensazione non era spiacevole. Se non fosse stato per il lezzo quasi insopportabile d'olio rancido, si sarebbe potuto pensare che ci prepa- rassimo per un massaggio nelle grotte di vapore di una stazione termale delle Montagne Rocciose. Quando terminammo di applicarci l'olio puzzolente, la giovane donna arretrò d'un passo e ci esaminò, col più pallido dei sorrisi. "Molto bene" disse poi. "Puzzate come haole morti." Il signor Clemens si lisciò i baffi. "Gli haole morti hanno un puzzo di- verso dai kanaka morti?" domandò, usando la parola locale per indicare gli indigeni delle isole Sandwich. La nostra guida non lo degnò di risposta. Aveva un portamento che era nello stesso tempo imperioso e malizioso; era come se avessimo incontrato una principessa della famiglia regnante che non prendeva del tutto sul se- rio la propria posizione. Ma aveva un'espressione molto seria quando ci ammonì: "Attenti al verro." "Prego?" disse il signor Clemens. La donna arretrò d'un passo. "Pana-ewa ha il sonno leggero. Na-naue, il ragazzo-squalo, in pratica non dorme. Se Ku, l'uomo-cane, coglie il vostro vero odore sotto il puzzo d'olio di noce di kukui, la vostra anima è perdu- ta." Si girò a guardarmi negli occhi. "Se Kamapua'a si sveglia, ti violente- rà, prima di ucciderti e di mangiare la tua hi-hi'o." Deglutii con qualche difficoltà. Tenevo le braccia conserte, ma mi senti- vo assurdamente esposta e vulnerabile. "Mangiare la mia hi-hi'o?" ripetei. La mia mente barcollò di fronte alle possibili traduzioni di quella semplice parola hawaiana. "La tua anima passeggera" spiegò la donna che forse era Pele. "La hi- hi'o è la uhane, l'anima dei viventi, quando ha lasciato il kino, il corpo. Se il tuo amico kahuna fosse stato ucciso da Pana-ewa, sarebbe stato, il suo lapu." "Lapu?" ripeté il signor Clemens. "Il suo spirito" spiegò la donna dai capelli corvini. Ero confusa. "Gli spiriti che in teoria dovremmo guidare fuori del Mon- do Sotterraneo sono hi-hi'o, anime rubate di viventi, oppure lapu, spiriti dei morti?" "Pana-ewa ha rubato la uhane del vostro amico" disse la donna "e così l'ha resa hi-hi'o. Gli altri torneranno al proprio corpo, se sono hi-hi'o, op- pure andranno dove vanno i lapu cristiani una volta liberi del corpo." "Dove sarebbe?" domandò il signor Clemens. La donna mostrò denti candidi e regolari. "Perché lo domandi a me? Sie- te voi, i cristiani." Il signor Clemens sbuffò, scettico, ma rimase turbato, quando la giovane donna gli diede la fune di liana ieie e un guscio di noce di cocco. Il guscio aveva nella parte superiore uno zaffo. "La noce serve per prendere la uha- ne del vostro amico" disse. Il signor Clemens e io guardammo con scarsa convinzione la noce di cocco. "Legate per bene la liana" disse la donna, arretrando di un altro passo. "Sarà l'unico vostro mezzo per uscire dalla Terra degli Spiriti." "Legarla a che cosa?" domandò il signor Clemens, girandosi a guardare la fenditura e la brulla piana di lava tutt'intorno. Sempre consapevole della mia nudità, ma alquanto turbata dalla discus- sione, mi girai anch'io a scrutare la grotta d'ingresso. "La fune non è abba- stanza lunga per legarne un capo a quegli alberi" dissi. "Se la legassimo a uno dei macigni?" Il signor Clemens si schiarì la gola come per parlare e si girò. L'attimo dopo mi girai anch'io. La giovane donna che immaginavo fosse Pele era sparita. Dieci iarde più in là, i nostri cavalli dormivano, testa ciondoloni. Dietro di loro c'erano centinaia di iarde di campi di lava deserti fino all'o- ceano o alle scogliere alle nostre spalle. In quel momento, avessimo avuto in noi ancora una traccia di sanità mentale, ci saremmo rivestiti e saremmo corsi via da quel posto. Prima di notte avremmo potuto raggiungere Kona e notificare alle autorità la bizzar- ra insurrezione che aveva avuto luogo nella parte meridionale della costa. Qualcuno sarebbe tornato a recuperare il cadavere del reverendo Haymark. In noi non c'era traccia di sanità mentale. C'era la sensazione di stare nu- di in quel vuoto anfiteatro di lava: gelida, tonificante, in qualche modo gioiosa. Senza parlare, lasciammo i due mucchietti di vestiti e percorremmo le poche iarde che ci separavano dalla fenditura. Con l'aria di chi è immerso nei propri pensieri, il signor Clemens ispezionò di nuovo l'ingresso della caverna, si piegò con grazia sulle ginocchia, posò il guscio di noce di coc- co e fissò la liana, facendola passare varie volte intorno all'unico masso che sporgeva a sufficienza dalla lava. La legò con una complicata serie di nodi che parvero semplici solo grazie alla sua evidente pratica. Rimasero almeno quindici iarde di liana ritorta. "Signorina Stewart" cominciò il signor Clemens, sempre senza guardar- mi direttamente "sono ancora convinto che dovrei andare da solo..." "Sciocchezze" lo interruppi accoccolandomi accanto a lui, tanto vicino che la sua pelle avrà di sicuro sentito il calore della mia. "Credo a quella creatura, quando diceva che sono necessari un uomo e una donna per gui- dare fuori dal Mondo Sotterraneo gli spiriti maschili e femminili." Allora ci guardammo, e nei nostri occhi, ne sono certa, c'era una luce in- spiegabile. Chi avrebbe mai immaginato che la follia avesse una propria logica e un proprio diletto? Ci alzammo sul bordo della fenditura. Il signor Clemens prese il capo li- bero della fune di liane, l'annodò in una sorta di cappio, ma esitò prima di passarmela sopra la testa e le spalle. Capii che avrebbe dovuto calarmi nel crepaccio, ma che non voleva che fossi io la prima a scendere nelle tene- bre. Capii pure che c'era un'altra ragione per cui esitava a stringere intorno a me la fune di liane. Presi la fune ritorta e infilai nel cappio la testa, le spalle e i seni. Il signor Clemens arrossì, ma modificò il nodo in modo che il cappio non si serrasse sul mio corpo. Per spezzare la tensione del momento dissi: "Signor Clemens, mi viene in mente che quel vecchio adagio... 'L'abito fa l'uomo'... contiene una certa parte di verità..." Mi guardò, sorpreso. "Senza dubbio" proseguii "la gente nuda ha poca o punta influenza sulla società." Per un secondo l'unico rumore fu quello dei frangenti, lontano; poi lo scroscio dei marosi fu soffocato dall'eco della risata del mio compagno. "Zitto" gli intimai "altrimenti sveglieremo Pana-ewa." Lui soffocò la risata, ma mi sorrise. "O Ku." "O Nanaue" dissi io. "Il ragazzo-squalo." "O Kamapua'a" mormorò lui. "Il verro." Continuammo a sorriderci ancora per qualche istante; e devo qui annota- re che una bizzarra e intensa energia passò fra di noi. Sono sicura che si trattasse dell'esaltazione del momento, di quel fiotto d'energia e d'eccita- zione che i soldati sostengono di provare nell'imminenza della battaglia... ma era anche... qualcosa d'altro. Il signor Clemens strinse il nodo e svolse il tratto di fune, parlando men- tre si preparava a calarmi nel burrone. "Signorina Stewart" disse "questo mi ricorda il giorno, non molto tempo fa, a San Francisco, in cui mi trovai per caso di fronte a un albergo in fiamme. Una signora era intrappolata al terzo piano e tutti quelli intorno a me avevano perduto la testa e correvano qua e là senza costrutto. Solo io mantenni la lucidità..." S'interruppe per dare uno strattone alla fune e controllare il nodo intorno al masso: la fune resse. "Solo io ebbi la presenza di spirito d'avvicinarmi a un cavallo legato lì vicino, di staccare dalla sella il lasso, di lanciarne un capo alla donna e di gridarle come legarlo." Tornai sul bordo della fenditura e aspettai che il signor Clemens elimi- nasse il lasco della fune. "E allora?" dissi poi. Mi guardò. Sotto la fronte espressiva aveva occhi luminosi. "Be', allora, appena lei ebbe legato la fune, le gridai: 'Salti! È nelle mie mani!'." Rimanemmo lì un momento, mentre quella bizzarra energia increspava l'aria fra noi come il fuoco di sant'Elmo che ci aveva guidato fin là. "Cammini all'indietro, signorina Stewart" disse piano, passandomi intor- no al braccio un giro di fune e mostrandomi dove reggermi. "È nelle mie mani." Sporgendomi all'indietro mi staccai dal bordo e sprofondai nel nulla, cominciando così la discesa nel Mondo Sotterraneo. 20 O dèi nei cieli! Venga la pioggia, cada. Si rompa Paoa, la vanga di Pele. Sia la pioggia separata dal sole. O nuvole nei cieli! O grandi nuvole di Iku! nere come fumo! Cadano i cieli sulla terra, Si aprano i cieli per la pioggia, Venga la tempesta. Canto di guerra di Kamapua'a E Pele e! Ecco il mio sacrificio... un maiale. E Pele e! Ecco il mio dono... un maiale. Ecco un maiale per te. O dea delle pietre ardenti. Vita per me. Vita per te. I fiori di fuoco ondeggiano lievi. Ecco il tuo maiale. Canto tradizionale a Pele Per tutto il pomeriggio in Eleanor era cresciuto un senso d'irrealtà e ora, mentre lei saltava giù dal pattino di un elicottero librato a poca distanza dall'ampia superficie della "pietra ballerina" rovesciata sul fianco, detta Hopoe, quel senso d'irrealtà assunse una caratteristica assai piacevole, da sogno. "Mi sembra di sognare, ma non sono affatto calma" pensò Eleanor, piegandosi sui talloni mentre l'elicottero saliva in un turbine di vento e di polvere. Sentiva nel corpo il fiotto di adrenalina agire come una sorta di sovralimentazione sul suo coraggio. "Questo è essere vivi!" Mike, il pilota, le aveva dato dieci minuti. La disponibilità di carburante e la tempesta in arrivo avevano reso incerta anche quella concessione. Nel frattempo Mike avrebbe girato più in alto ("orbitato", fu la parola usata) e cinque lampi della torcia elettrica di Eleanor l'avrebbero fatto scendere in zona di recupero sulla pietra detta Hopoe. Eleanor accese la torcia, per provarla, e la spense. Aveva creduto che ci sarebbe stato buio, lì sul fianco della montagna, ma il bagliore del vulcano riflesso contro le nuvole e quello più vivido della colata di lava a meno di quindici metri illuminavano di luce sanguigna ogni sasso, macigno, fendi- tura. Eleanor avanzò con cautela da roccia a roccia verso la base dell'e- norme masso su cui era atterrata. Alla base del masso c'era uno spiazzo libero e un'ombra più scura che poteva anche essere l'ingresso di una grotta. La colata di lava scorreva a meno di dieci metri dall'entrata. Eleanor rimase stupita del calore e della velocità della colata: il magma scorreva come un torrente di montagna in tempo di disgelo, chiazze di nero e di rosso che si precipitavano alla velo- cità di un treno merci, con il calore della lava ribollente che la spinse ad alzare il braccio per proteggersi il viso. Un centinaio di metri più in basso, lungo il pendio, la lava zampillava a quindici, venti metri d'altezza. Elea- nor ricordò gli spettacoli pirotecnici visti da bambina nella sua sonnolenta città dell'Ohio, con il gran finale a livello del terreno e le fontane di scintil- le e di fuoco liquido. Una scena simile a quella. No, al mondo non esisteva niente di simile. Cinquecento metri più in basso, c'era un altro geyser, più alto e più brillante; al di là di quello, altre fenditure fiammeggianti e altri geyser; e così fino al mare fuori vista, una quindicina di chilometri più in basso. Eleanor si domandò se quell'onda di marea di roccia fusa avesse già raggiunto il villaggio turistico Mauna Pele. Guardò in alto, a occhi soc- chiusi, ma non riuscì a scorgere l'elicottero fra le nubi di fumo e di ceneri. Capelli di Pele luccicavano qua e là, filamenti simili a vetro tesi fra i massi e, come ponti, sopra buie fenditure, ciascun filamento che rifletteva la luce infernale. — Eleanor — disse una voce. Eleanor si girò di scatto, vide nell'entrata buia della grotta la sagoma di una donna. — Molly Kewalu? — Entra — disse la donna e si ritrasse nel buio. Eleanor lanciò un'occhiata all'orologio e si affrettò a risalire il pendio: aveva meno di sette minuti, prima del ritorno dell'elicottero. Dopo qualche metro, la grotta si allargava. Eleanor notò il tappeto sul pavimento di lava levigato, l'elegante tavolo antico con due sedie, la sedia a dondolo accanto al tavolino ricavato da una cassa da imballaggio, i libri su altre casse adattate a scaffali, la zona cucina e le lucide pentole di rame, le tre lanterne sibilanti che illuminavano di luce calda l'ambiente. L'im- pressione che tutto fosse un sogno non era diminuita. Eleanor non doman- dò alla donna come mai conoscesse il suo nome. — Siedi — disse Molly Kewalu. Eleanor si era aspettata che Molly fosse la vecchia vista nella roulotte di Leonard e Leopold, invece si trattava di una persona del tutto diversa. For- se era davvero la Vecchia Pazza dell'Isola Grande, ma le ricordava l'ex ca- podipartimento di Lingua e Letteratura inglese all'università di Oberlin. Aveva capelli grigi, raccolti in una crocchia e tenuti fermi da un bel pettine di tartaruga. Il viso era quasi privo di rughe e rafforzato da magnifiche so- pracciglia e da un mento volitivo; gli occhi parevano più divertiti che paz- zi. Molly indossava calzoni di stoffa cachi, una blusa di seta rossa aperta sul collo che lasciava vedere una collana di turchesi che pareva d'artigiana- to navajo, robusti stivaletti da escursionista e un semplice ma elegante braccialetto di minuscole conchiglie. — Prego, siedi — disse ancora Molly Kewalu indicando la sedia a don- dolo. Prese per sé una delle altre due sedie accanto al tavolo, tirandola più vicino. — Ho solo un minuto — disse Eleanor, accomodandosi sulla sedia a dondolo. Si domandò se la scena era reale. Lo era. Udiva il sibilo delle lan- terne, sentiva il puzzo di zolfo della colata di lava a pochi passi dalla grot- ta. — Lo so — disse Molly Kewalu. Si sporse a toccare il ginocchio di Ele- anor. — Hai idea di ciò in cui ti sei cacciata, Eleanor Perry dell'Ohio? Eleanor batté le palpebre, sorpresa. — C'è una battaglia — disse a bassa voce nel piacevole, sibilante silenzio della grotta. — Pana-ewa e gli altri demoni... Molly Kewalu mosse la mano in un gesto, come per non dare peso alla risposta. — Pana-ewa è una nullità — disse. — Una nullità! È Kamapua'a quello che contende a Pele il dominio di quest'isola. È Kamapua'a quello che ha usato gli haole per prepararsi la strada. — Prepararsi la strada — ripeté Eleanor. Sentiva nelle orecchie il ronzio del sangue. — Anche con zia Kidder e Mark Twain era... — Il verro — terminò per lei Molly Kewalu. — Gli uomini kahuna di- cono di adorare Pele, ma nel profondo del cuore seguono il verro. — Il verro — disse Eleanor. Molly Kewalu si sporse ancora e le strinse le braccia. — Hai coraggio, Eleanor Perry dell'Ohio. Tu pensi di scendere nel Mondo Sotterraneo di Milu, come la tua antenata. Eleanor batté di nuovo le palpebre. Come faceva, quella donna, a sapere tante cose? — Fallirai, Eleanor Perry. Il tuo corpo morirà, prima che ciò accada. Ma non devi perdere il coraggio! Il tranquillo coraggio notturno delle donne è ciò che lega i nostri poteri e bilancia il fragoroso coraggio diurno degli uomini. Il nostro coraggio è la fonte della tenebra che crea tenebra, capisci, Eleanor Perry dell'Ohio? — No — rispose Eleanor. Pensò: "Il mio corpo morirà?" Disse: — Vor- rei capire, ma non capisco. — "Insegno storia e letteratura dell'Illumini- smo" pensò. "Has meus ad metas sudet oportet equus, bisogna che il mio cavallo sudi verso queste mete." — Ascolta — disse Molly Kewalu. Si alzò e intonò: Nel tempo in cui la terra divenne calda nel tempo in cui il cielo si girò nel tempo in cui il sole fu oscurato per far risplendere la luna, il tempo dell'ascesa delle Pleiadi, il fango, fu questa la fonte delle terra la fonte della tenebra che creò tenebra... "Canto di creazione" pensò Eleanor. "Un semplice, comune canto di cre- azione. Sto per morire?" Molly Kewalu proseguì la salmodia: Quando lo spazio girò, la terra si scaldò quando lo spazio si girò, il cielo si rovesciò. Dalla fonte in quel fango fu creata la terra dalla fonte nella tenebra fu creata la tenebra dalla fonte nella notte fu creata la notte. "Unione" pensò Eleanor. "Il ventre della notte. Il luogo di nascita dell'u- niverso nello scontro di opposti. Perfino la guerra fra Pele e Kamapua'a deve proseguire." Molly Kewalu continuò il canto: Dal profondo della tenebra, tenebra profonda tenebra di giorno, tenebra di notte di notte soltanto la notte diede vita nacque Kumulipo nella notte, un maschio nacque Po'ele nella notte, una femmina. "Ma lo stupro deve finire" pensò Eleanor. "L'equilibrio dev'essere rista- bilito o perduto." Una parte della sua mente capiva. Una parte della sua mente se ne fregava. "Devo morire?" — "Nato fu l'uomo per il fiume stretto" — cantò Molly Kewalu. Toccò la mano di Eleanor. Eleanor si alzò e la seguì nella buia entrata della grot- ta. Lava sibilò e riversò luce rossa fuori della grotta. Da qualche parte, in alto, c'era un ruggito. Nata fu la donna per il fiume largo nata fu la notte degli dèi. Molly Kewalu le lasciò la mano. — Torna indietro, Eleanor Perry del- l'Ohio. Torna indietro e fa' ciò che devi fare. Abbi coraggio. Eleanor si girò, si mosse per andarsene, tornò a girarsi in preda al pani- co. — No! Tu devi essere presente. Per aiutarmi. — Qualcuno sarà presente per aiutarti — disse piano Molly Kewalu, con voce che fu quasi soffocata dai sibili della lava. — C'è sempre una levatri- ce per aiutare noi che abbiamo le doglie. Eleanor scosse lentamente la testa. Tutto le era parso così chiaro, un mo- mento prima. — Devi venire... — Non stanotte — disse Molly Kewalu. Alzò il dito, indicò il fiume di lava, ne segnò il percorso su per il fianco del vulcano. — Stanotte devo fa- re offerte in un altro luogo. — Si accostò in fretta, strinse la mano di Elea- nor, scomparve nell'imboccatura della grotta. Eleanor esitò un secondo, poi barcollò alla cieca su per il pendio e rag- giunse la cima della pietra caduta sul fianco, detta Hopoe, la Pietra Balle- rina. L'elicottero si abbassò un attimo dopo, con un turbine di terriccio che ac- cecò Eleanor, con un rombo che l'assordò. Mani la tirarono dentro. Qual- cuno gridava qualcosa, continuava a ripetere. Eleanor impiegò alcuni istan- ti a capire le parole: le colpivano le orecchie come se fossero di una lingua straniera. — No — disse infine, lasciando che Paul le allacciasse la cintura di sicu- rezza. — Lei non c'era. Non c'era nessuno. — Bene — disse Mike, il pilota dallo sguardo gentile. Il motore ruggì. L'elicottero si alzò, s'inclinò, volò lontano, in basso. — Byron-san — disse Hiroshe Sato, mentre arrivava l'Escargot Mezza- nine, un piatto di lumache al forno in un intingolo di pesto, pomodoro sec- cato al sole e vino bianco — qui l'energia elettrica pare incerta. — Le fiammelle delle lanterne antivento guizzavano lungo il tavolo ben illumi- nato. Camerieri servirono ciotole di cocktail di gamberi alla malese, com- posto di spiedini di gamberi tigre con salsa di arachidi gadogado e verdure miste sopra un letto di lattuga. — Atmosfera — disse Byron Trumbo. — Stanotte c'è tempesta, ma ab- biamo il generatore di riserva. — Rivolse un cenno a Bobby Tanaka, che azionò un interruttore. Le candele elettriche dei lampadari sfolgorarono. Bobby spense le luci. — La cena a lume di candela crea atmosfera — disse Trumbo. I camerieri in livrea bianca servirono insalata di spinaci alla greca per coloro cui non piacevano i gamberi. Il condimento a base di cipolla, aglio e aneto, con una spruzzata di ouzo, fece battere le palpebre a Trumbo. Il formaggio feta sminuzzato contribuiva a fare un bel contrasto con gli spi- naci. Morbide pagnotte appena sfornate furono poste in tavola. André, l'anziano sommellier, aprì le bottiglie e portò i turaccioli a Trumbo. Trum- bo non li degnò di un'occhiata e indicò di versare il vino. — Siamo tuttora preoccupati per il nostro amico Tsuneo — mormorò Hiroshe Sato, sporgendosi verso Trumbo in modo che nessun altro udisse. — Sarà anche una testa matta, ma non è da lui mancare a una trattativa. — Ah, sì — disse Trumbo. — Sono sicuro che Sunny è a posto. Anzi, sono certo che ritornerà per la firma, dopo la cena. — Hrrgghh — fece Sato, emettendo quel mezzo grugnito che i giappo- nesi usano quando non vogliono impegnarsi. Si dedicò ai gamberi. — Mi scusi un momento, Hiroshe — disse Trumbo. Aveva visto Will Bryant entrare nella sala, parlando con due uomini della sicurezza. Trumbo lo chiamò da parte e lo spinse sulla terrazza. Il vento ruggiva, le nuvole correvano, illuminate dal bagliore del vulcano. — I cadaveri sono di nuovo nel freezer — disse a bassa voce Bryant. — Qui abbiamo sigillato il sesto piano. Michaels ha messo uomini di guardia agli ascensori, alle scale e all'ammezzato. — Fredrickson? — Ha chiamato qualche minuto fa. È terrorizzato. Dice che è in arrivo una tempesta. Vuole tornare qui. — Digli di stare dov'è — replicò Trumbo. Tirò Bryant più vicino alla ringhiera. — Will, ho un lavoro per te. Bryant attese. Portava occhiali Armani, rotondi, con montatura di tarta- ruga; dietro le lenti, i suoi occhi parevano più grandi. — Ricordi quella grotta di cui ti ho parlato? E il maiale? E Dillon e Sunny Takahashi che parevano fantasmi o zombi o roba del genere? Will Bryant annuì e attese. — Bene, il maiale ha detto che, se volevo Sunny, dovevo solo andare là sotto e prenderlo. Will Bryant annuì e attese. — Will, voglio che tu vada laggiù e lo prenda. Will Bryant girò lentamente la testa, fino a guardare in viso il suo capo, con occhi da gufo. — Adesso — disse Trumbo. — Ahhh — sospirò Will. Si umettò le labbra e fissò di nuovo Trumbo. — Ho appena messo nel freezer il cadavere di Sunny Takahashi. — Sì, certo — disse Trumbo. Con un secco gesto della mano spazzò via l'obiezione. — Ma penso che il maiale abbia lo spirito di Sunny o una stronzata del genere. Tu scendi e te lo fai dare e vediamo se riusciamo a rimetterlo nel corpo del giap in tempo perché Sato firmi stanotte il contrat- to. Dietro le lenti rotonde, gli occhi di Will Bryant rimasero fissi. — Vuole che esca nella tempesta, che trovi la grotta dove Fredrickson è di guardia, che scenda là sotto, che parli a un maiale e che riporti qui lo spirito di Sunny in tempo per la firma? — Esattamente — disse Trumbo in tono di sollievo. Se le istruzioni era- no chiare, Will Bryant non l'aveva mai deluso. — Vaffanculo — disse Bryant. Trumbo batté le palpebre, sorpreso. — Cosa? — Vaffanculo. — E poi, come per ripensamento: — Capo. Trumbo resistette all'impulso di afferrare il laureato della Harvard Busi- ness School per la gola pelleossa e buttarlo giù dal sesto piano. In pratica aveva fatto proprio questo, con il precedente direttore generale. — Che co- sa hai detto a me? — Di andare a dare via in culo — precisò Bryant, con voce calma. — Ci sono un mucchio di persone morte qui intorno e non sono pronto a unirmi a loro. Non rientra nelle mie mansioni. Trumbo tremava di rabbia. Strinse le mani, tenendole dietro la schiena per non far vedere quanto tremavano. — Ti pagherò il giusto — disse a denti stretti. Will Bryant attese. — Diecimila dollari. Will Bryant rise piano. — E va bene, maledizione, cinquantamila — disse Trumbo. Avrebbe potuto mandare un uomo della sicurezza a prendere Sunny, ma quelli era- no troppo stupidi anche per non pisciare controvento. Bobby Tanaka era senza palle. Stephen Ridell Carter era stato licenziato. Rimaneva solo Bryant. Will Bryant scosse la testa e attese. — Maledizione — ansimò Trumbo, rosso in viso e con i tendini del col- lo sporgenti. — Quanto? — Cinque milioni di dollari — disse Will Bryant. — In contanti. La vista di Trumbo si strinse in un lungo tunnel nero decorato di puntini rossi. Quando riuscì di nuovo a vedere, Trumbo disse: — Un milione. — Vaffanculo — rispose il direttore generale. Trumbo non aveva scelta: si trattava di uccidere quell'insignificante mucchietto di spazzatura che lo ricattava o di andarsene. Girò sui tacchi e se ne andò, tornando al gruppo a cena. I camerieri servivano il piatto prin- cipale: opakapaka con crostini di scalogno in agrodolce e costolette d'a- gnello in padella con crostini di noce di macadamia, noce di cocco e miele in salsa d'anice cinese. — Si sente bene, Byron-san? — domandò Sato, in tono preoccupato. — Ha il viso color aragosta. — Sto benissimo — rispose Trumbo, alzando il coltello e pensando a come sarebbe stato bello infilarlo fra le costole di un certo traditore pelle- ossa. — Finiamo la maledetta cena. 18 giugno 1866, in un villaggio senza nome sulla costa Kona Per un momento mi trovai da sola nel Regno degli Spiriti di Milu. Il condotto di lava si allontanava, ma non nel buio. Le pareti brillavano di te- nue fosforescenza. Deboli rumori echeggiavano dietro la curva della ca- verna. Il fondo striato era ruvido sotto i miei piedi scalzi. Sentivo sulla pel- le il lezzo di kukui rancido. Con gesti frettolosi slegai i nodi, mi liberai della corda di liane e diedi uno strattone per far sapere al signor Clemens che poteva scendere. La luce del sole entrava dalla fenditura in alto, ma una sporgenza di roccia m'im- pediva di vedere il mio compagno. Distolsi lo sguardo, mentre lui si la- sciava scivolare lungo la grossa fune. Ci scambiammo un'occhiata, sentendoci in qualche modo meno nudi nella fioca luce, e ci dirigemmo verso il bagliore. "Mi ricorda sempre il chiarore delle lucciole" mormorò il signor Clemens. Ci soffermammo al- l'altezza della curva e il signor Clemens scrutò avanti, prima di proseguire. Si girò verso di me e i baffi gli vibravano davvero per l'entusiasmo. "Spiriti" bisbigliò. "Quanti?" domandai, anch'io in un bisbiglio. "Quanti?" ripeté il signor Clemens. "Quanti? Non so... all'incirca novecentottantasettemilaseicentotrentuno, secondo la mia stima." Lo fissai, attonita. "Non so quanti!" bisbigliò il signor Clemens, in tono un po' più alto. "La gente di una festa da ballo. Forse un reggimento. Non sono abituato a con- tare spiriti. Ce ne sono a sufficienza per parecchie partite a bridge e il resto basta e avanza per una giuria." Feci una smorfia, per il suo tono leggero in una situazione così grave. "Come sa che sono spiriti, signor Clemens? Solo perché ci è stato detto che qui li avremmo trovati?" Il corrispondente annuì, si strinse nelle spalle e si toccò il petto nudo come se cercasse un inesistente taschino con un sigaro. "Sì, signorina Ste- wart" disse. "Per questo e per il fatto che risplendono come fuochi di san- t'Elmo e che posso vedere attraverso di essi come se fossero fatti di brodo poco denso. Questi sono gli indizi primari, ma non sono un investigatore. Potrebbero essere un comitato senatoriale in cerca del quorum, ma poiché sono nudi, pare improbabile. Punterei i miei soldi sul fatto che sono spiri- ti." Rimasi in silenzio e forse il signor Clemens scambiò per paura la pau- sa, dal momento che soggiunse: "Andiamo avanti? O torniamo in superfi- cie?". "Adiamo avanti" risposi subito. Notando il colorito acceso delle guance del signor Clemens, soggiunsi: "Non si turbi troppo per il nostro déshabil- lé, signore. I nostri meritevoli progenitori, Adamo ed Eva, erano a loro a- gio in questo stato". Il signor Clemens sbuffò piano e bisbigliò: "È vero, signorina Stewart. Comunque, pur non essendo uno studioso della Bibbia, credo che Adamo ed Eva fossero più in confidenza". "Procediamo, signor Clemens?" Il corrispondente si girò e mi tese la mano. Gliela strinsi. Così entrammo nel regno di Milu, con la cordialità e l'indifferenza di due ben vestiti citta- dini di San Francisco che si presentino a una festa da ballo. Gli spiriti, pa- reva, trascorrevano la vita dopo la morte più o meno nelle stesse occupa- zioni che li avevano impegnati nella vita precedente. La caverna in quel punto si allargava e si vedevano decine di figure rilucenti, per quanto tutte indigene delle isole Sandwich; alcune dormivano, parecchie tentavano la sorte nel genere di giochi che avevamo visto fare con pietruzze sulla terra battuta a Hilo e in villaggi minori, altre facevano rotolare noci di cocco per colpire un paletto e pagavano con ossicini, mentre altre mangiavano (pa- recchie di queste ultime erano raccolte intorno a una gigantesca terrina di pasta violacea che i locali chiamano poi) e altre ancora si limitavano a pas- seggiare, uomini con uomini, donne con donne, ma di tanto in tanto qual- che coppia pareva corteggiarsi da morta come si era corteggiata in vita. Il signor Clemens e io procedemmo lentamente, rimanendo per conto nostro. Se da una parte non potevamo approssimare la trasparenza di que- gli spiriti, una certa caratteristica dell'olio di noce kukui ci conferiva una luminescenza non dissimile dal bagliore spettrale dei fantasmi intorno a noi. Varie volte uno spirito, maschio o femmina, si staccò dall'attività in cui era impegnato e parve scivolare verso di noi, come per accoglierci in quel luogo; ma appena giungeva a portata d'olfatto dall'olio rancido, la sa- goma spettrale si girava in fretta, con una smorfia, come per dire: "Che spirito puzzolente!". Solo dopo queste occasioni notai che, mentre gli spiri- ti nella smisurata caverna parevano parlare tra di loro (le bocche si apriva- no e si chiudevano, le mascelle si movevano, le espressioni mutavano) non si udiva alcuna conversazione, anzi a dire il vero non si udiva alcun suono di sorta, a parte il sibilo del vento nelle numerose fenditure e crepacci che si dipartivano dalla caverna principale. Il signor Clemens mi strinse il braccio e con un cenno indicò una caver- na laterale. Quasi a smentire la mia conclusione sul silenzio di quel reame di spiriti, un enorme maiale (quel verro superava di sicuro le mille libbre di peso) sonnecchiava sulla soglia di quella caverna e il suo russare era più che percettibile... a dire il vero, il rauco sibilo dell'aria che entrava nel suo grugno cavernoso e ne usciva era in gran parte responsabile del rumore che avevo attribuito al vento nelle fenditure della caverna. Ricordando l'ammonimento della donna, ossia di non svegliare il verro, ero pronta a procedere in punta di piedi nella direzione opposta, ma il si- gnor Clemens indicò di nuovo da quella parte e annuì. Dietro il verro, in una profonda nicchia della parete, c'erano alcune figu- re luccicanti che, pur nude come le altre, chiaramente non erano spiriti di indigeni. Per la maggior parte gli spiriti haole erano maschi, ma scorsi al- meno una donna piuttosto anziana in quella congregazione... perché in ve- rità di congregazione si trattava. Una sporgenza di lava, di quattro piedi, abbastanza piatta nella parte superiore, era chiaramente adibita a pulpito e parecchi spiriti parevano gareggiare per fare da lì la predica. Uno spirito più anziano e più alto degli altri era di sicuro il reverendo Whister. L'an- ziana donna nella folla in ascolto era di sicuro sua moglie. C'erano altri uomini; cercai di ricordare i particolari del racconto udito a Casa Vulcano: il più alto dei giovanotti era forse August Stanton, il compianto marito del- la vedova Stanton. L'altro giovanotto era forse il signor Taylor. Trasalii al ricordo che il signor Stanton era stato trovato quasi totalmente dissanguato e che la dipartita del signor Taylor era avvenuta per la testa "rotta col ru- more di una noce di cocco spaccata in due". Non parevano in condizioni peggiori, nella forma di spirito, per quanto intorno agli occhi si scorgesse una certa aria astratta che poteva esserci o non esserci stata in vita. Il signor Clemens annuì di nuovo e io rischiai di prorompere in una e- sclamazione ad alta voce nel vedere il nuovo oratore sul pulpito. La mole del reverendo Haymark era impressionante, da nudo, come lo era stata sot- to i paludamenti da missionario. Il nostro ex compagno posò le mani sui bordi di pietra, con la facilità di chi è abituato al pulpito, si sporse con tutto il suo peso e cominciò a muovere le labbra in inaudibili banalità. La con- gregazione lo ascoltò con una certa aria da zombi non fuori del comune in ogni chiesa presbiteriana in una tiepida domenica. Il signor Clemens mi accostò all'orecchio le labbra in modo che il suo bisbiglio non si udisse nemmeno a qualche passo di distanza. "Come lo mettiamo nella noce di cocco?" Scossi la testa. Non sapevo come avremmo fatto per passare al di là del verro. Infatti, per entrare nella caverna laterale, uno di noi o tutt'e due a- vrebbe dovuto scavalcare il grugno del mostruoso maiale. Rabbrividii al pensiero. Come se mi avesse letto nella mente, il mio compagno si sporse di nuo- vo verso di me e mi bisbigliò: "Lei resti qui. lo tenterò di raggiungere il re- verendo Haymark". In risposta gli strinsi il braccio e scossi rapidamente la testa. Già parec- chi spiriti vagavano nelle vicinanze, malgrado il lezzo dell'olio che comin- ciava a seccarsi, e trovavo insopportabile l'idea di stare lì da sola mentre quelle creature morte mi sfioravano. Il signor Clemens annuì per indicarmi d'avere capito; cominciammo il nostro lento viaggio al di là del verro russante. Il pavimento della caverna era irregolare e io provai un crescente terrore al pensiero di perdere all'im- provviso l'equilibrio e di cadere sull'irsuta massa di quell'animale. Visto da vicino, il verro era perfino più grosso di quanto non avessi pensato: di si- curo pesava almeno una tonnellata. Era come un piccolo elefante con la pelle piena di setole suine e una testa orribile. Mentre raggiungevamo il punto dove avremmo dovuto scavalcare quella testa, mi resi conto, con un fiotto di vertigine, che la bestia dormiente aveva numerose palpebre... non due o quattro, ma almeno otto. Scorsi di sfuggita occhi d'ossidiana sotto quelle palpebre socchiuse e per un istante fui sicura che il mostro fingesse soltanto di dormire per attirarci più vicino. Mentre alzavo il piede scalzo per scavalcare quel grugno, sentendo sulla pianta l'orrendo calore del suo respiro la mia immaginazione mi fornì l'improvvisa e sicura immagine di quegli occhi che si aprivano di colpo, di quella bocca con denti troppo u- mani che si spalancava e poi si richiudeva sulla mia caviglia; mi pareva già di sentire lo schiocco e la lacerazione di cartilagine e d'osso, mentre il ver- ro inghiottiva il mio piede in un unico boccone e poi sollevava quella testa grossa come un barile per divorare il resto della gambali signor Clemens mi sorresse, prima che cadessi priva di sensi. Nella mia improvvisa verti- gine mi ero abbandonata verso la schiena irsuta del verro e solo il robusto braccio sinistro dell'ex pilota di battelli fluviali mi tenne in piedi. Mentre eravamo così stretti, come due ballerini in una lenta piroetta, ripresi la pa- dronanza di me e poi l'equilibrio. Scavalcammo il verro e ci trovammo nella profonda nicchia nella parete della caverna. Se l'animale si fosse svegliato adesso (all'improvviso mi resi conto che il verro aveva un olfatto più acuto e che si sarebbe di sicuro de- stato nel fiutare il nostro puzzo) saremmo rimasti intrappolati con gli altri spiriti haole. Ricordai il commento della donna-Pele: se si fosse svegliato, il verro mi avrebbe violentata e avrebbe mangiato la mia hi-hi'o. Ancora una volta sentii la pelle d'oca per il ribrezzo, mi sentii gelare e mancare le gambe; ancora una volta il signor Clemens mi tenne dritta, posandomi sul- la schiena la mano robusta. Simili intimità sarebbero state inconcepibili u- n'ora prima; adesso, erano benvenute. Passammo fra la piccola congregazione di spiriti cristiani. Eravamo ve- nuti per il nostro amico, il reverendo Haymark, ma nella capanna la vec- chia ci aveva ordinato di portare via dalla caverna tutte le uhane haole in modo che Pele potesse riprendere la battaglia contro i propri nemici. Guar- dai il signor Clemens, ma era evidente che lui pure, come me, non aveva la minima idea su come spostare da lì quelle sagome lucenti. Il problema fu risolto per noi. Anche agli spiriti cristiani, non meno che ai kanaka, non piaceva il nostro fetore e davanti a noi si aprì un sentiero. Il signor Clemens mi precedette al pulpito, dove il fantasma del reverendo Haymark continuava a predicare a un pubblico che non lo ascoltava. Lo spirito del nostro corpulento amico mi fece pensare a una mal riuscita sta- tua di cera dell'uomo da me conosciuto in vita. La sua bocca si muoveva senza emettere suono, finché il signor Clemens non toccò il braccio dello spirito. Immediatamente la uhane del reverendo Haymark si girò come e- vocata e scese dal pulpito di fortuna, seguendo il signor Clemens che ritor- nava verso la folla. Sperimentai anch'io la sua tecnica. Funzionò bene. Il semplice tocco sul braccio di spiriti nostri consanguinei funzionava come un silenzioso ri- chiamo. La prima volta che ne toccai uno (la donna, la signora Whister, presumo) ritrassi in fretta la mano. Il braccio dello spirito era non più soli- do di una brezza... una brezza fredda. Ma la donna, ubbidiente, si girò e mi seguì verso il grugno del verro e la libertà. Dopo alcuni tocchi, gli spiriti haole ci seguirono come ochette dietro mamma oca. Il signor Clemens ci precedette e si soffermò solo un istante prima di scavalcare il grugno del verro. Per un attimo ebbi paura che il piede ectoplasmatico del reverendo Haymark svegliasse il verro, ma poi notai che in realtà nessuno degli spiriti toccava terra nel camminare. Quando fu il mio turno di scavalcare il verro addormentato, il cuore mi batteva così forte che di sicuro il mostro l'avrebbe sentito e si sarebbe sve- gliato. Ma chiamai a raccolta tutto il mio coraggio e per la seconda volta alzai la gamba sopra l'orribile grugno. Adesso scorgevo i denti del verro... grandi, affilati, luccicanti. Una piccola pozza di saliva bagnava il terreno dove il mostro dormiva. Passai senza incidenti. Gli spiriti, seguendomi, non diedero neppure u- n'occhiata al verro. Mi domandai che cosa avrei fatto se quegli spiriti mi avessero seguito per l'eternità. Mentre ci allontanavamo verso l'ingresso della caverna, con il reverendo Haymark e gli altri spiriti librati a mezz'aria nella nostra scia come palloncini appesi al filo, decisi che avrei affrontato quel problema quando mi si fosse presentato nel mondo esterno. Alcuni altri spiriti seguirono il nostro corteo, mossi da una sorta di spet- trale curiosità. Non ci furono grida né allarmi; a dire il vero, non c'era al- cun rumore, a parte l'ansimante respiro del verro mostruoso, un rumore che diminuì ma non smise mai, non importa quanto ci allontanassimo nel con- dotto di lava. Prima d'arrivare alla base della fenditura d'ingresso quasi tutti gli spiriti di indigeni erano tornati indietro, ma uno (un bel giovane con occhi vacui) continuava a seguirci. A un tratto fui sicura che quello fosse il fedele ma sventurato indigeno di nome Kaluna, che il reverendo Whister aveva ucci- so per fatalità vedendolo alzare il coltello per giurare su di esso. Non im- portava. La vecchia non ci aveva detto di portare con noi spiriti di indigeni e a dire il vero la uhane del giovanotto non cercò di seguirci mentre lascia- vamo la fenditura. Il signor Clemens si sporse verso di me e bisbigliò: "Dovrò arram- picarmi per primo e poi tirarla fuori". Il pensiero di trovarmi da sola in quella semioscurità, con quelle cose ri- lucenti e prive d'intelligenza, non mi piacque; ma mi morsicai il labbro e con un cenno mi dichiarai d'accordo. Prima di risalire, però, il signor Cle- mens fece una cosa incredibile. Tolto lo zaffo, tenne davanti all'ectopla- smatica persona del reverendo Haymark il guscio di noce di cocco avuto dalla donna e cominciò a infilarci, spingendolo e torcendolo, il cedevole spirito. Incredibilmente la forma del nostro ex compagno cominciò a fluire nella noce di cocco come nebbia nel buco della serratura. Il signor Cle- mens si adoperò con maggiore impegno, palpando gli eterei resti dell'ec- clesiastico in forme malleabili da infilare a forza nella piccola apertura. Fu un duro lavoro (come disse in seguito il signor Clemens) simile a quello per ripiegare in una piccola valigia una grossa vela. Alla fine il reverendo Haymark... il suo spirito... si ripiegò. Il signor Clemens spinse nel guscio l'ultima protuberanza ectoplasmatica del mis- sionario, mise lo zaffo alla noce di cocco e cominciò ad arrampicarsi sulla liana. "E questi?" bisbigliai in tono d'urgenza, indicando la cieca congrega- zione dell'anziano reverendo Whister, la di lui moglie dallo sguardo vacuo, il di lui cognato dagli occhi spenti signor Stanton, il signor Taylor dallo sguardo cieco e un paio d'altri di cui non conoscevamo la storia. Il signor Clemens si sporse dalla liana e bisbigliò: "Faremmo meglio a lasciarli e a uscire al più presto. Ritengo che non abbiano un corpo a cui tornare, perciò dovranno cavarsela da soli. Da quanto ha detto la vecchia, sono lapu, fantasmi dei morti, non hi-hi'o rapite, anime di viventi, come nel caso del nostro amico". Ansimò un poco, tenendosi quasi orizzontale rispetto alla parete della caverna e reggendosi alla liana. Sconvolta, mi resi conto d'essermi quasi abituata alla nudità del signor Clemens. "Inoltre" disse lui, riprendendo ad arrampicarsi "non penso che nella noce di cocco ci sia altro posto." Si sollevò più in alto, fuori vista. Per il momento mi trovai da sola con gli spiriti luccicanti che m'avevano seguito fin lì, compreso l'indigeno Ka- luna, il cui viso triste mostrava l'unica emozione da me vista nel Regno degli Spiriti di Milu. All'improvviso sentii accelerare i battiti del cuore e mi girai di scatto, come se qualcosa si fosse mosso nella semioscurità. Mi balzarono alla mente immagini di Pana-ewa, ma lì nel condotto di lava non c'era nessun lucertolone, nessuna creatura di tenebra e di nebbia. Impiegai un secondo per capire che ciò che mi aveva sconvolta non era un'improvvisa presenza, ma un'improvvisa assenza. Il verro aveva smesso di russare. Cordie udì l'elicottero prima ancora di vederlo. Poi il velivolo passò una volta sopra la Grande Hale, con il faro che pugnalava l'aria sopra le palme, e ammiccò due volte, quasi a salutare proprio lei: il ritmico frastuono di ro- tori si allontanò e il velivolo scomparve nella notte. Cordie conosceva il piano di Nell: se la vecchia sulla montagna non l'a- veva dissuasa, Eleanor sarebbe scesa nel Mondo Sotterraneo per farne u- scire gli spiriti haole in modo che ancora una volta Pele potesse combatte- re i suoi nemici senza preoccuparsi degli ostaggi. Cordie sapeva pure che Nell si sarebbe data da fare per convincere quello stupido di soprintendente a scendere con lei nella caverna... presumendo che valesse ancora la regola secondo la quale erano necessari un uomo e una donna per guidare fuori gli spiriti. Cordie se ne fregava del piano. Se ne fregava di salvare il Mauna Pele o gli spiriti dei clienti scomparsi. Voleva solo che la sua amica Nell e lei stessa uscissero vive da quella storia. Con una crescente sensazione di gelo si rese conto di dover andare all'eliporto per avvertire Nell e Paul delle creature che si aggiravano nella notte... ma andare all'eliporto significava sfidare il buio ed esporsi al rischio d'incontrare quelle creature. — Merda — disse Cordie Stumpf. Si mise in spalla la borsa, si assicurò che contenesse tutto ciò di cui aveva bisogno e tolse il catenaccio alla por- ta. Il mezzanino del quinto piano era buio. Cordie udiva risate e musica provenire dall'attico, dove era in corso la festa di Trumbo, ma nei piani in- feriori c'erano solo tenebre e indefinibili rumori. Cordie era sicura che l'a- scensore per gli ospiti fosse fuori servizio: questo significava cinque piani di scale da fare a piedi, all'estremità est o a quella ovest della Grande Hale. Le scale erano aperte all'aria della notte, cosa che forse l'avrebbe aiutata, ma l'unica illuminazione proveniva dalle lanterne e dalle luci dell'ultimo piano e dall'infernale bagliore del vulcano a est. "Sufficiente, immagino, a scorgere maiali giganteschi" pensò Cordie. Impugnò nella destra la rivoltella e chiuse alle proprie spalle la porta della suite. Mosse quattro passi, corrugò la fronte, si appoggiò alla ringhiera in- terna, si tolse le robuste scarpe e le infilò nella borsa. Con le calze, in pra- tica, non faceva rumore sulle piastrelle. "Così va meglio" pensò. Si diresse rapidamente alle scale. Eleanor ebbe un vago ricordo dell'ultimo tratto in elicottero, tanto erano confusi i suoi pensieri e le sue emozioni. Il pilota pareva preoccupato per Molly Kewalu e ben poco soddisfatto delle ripetute assicurazioni che la grotta era vuota. Il silenzio di Paul equivaleva a una lunga dichiarazione di scetticismo. Virarono dal mare per avvicinarsi al Mauna Pele. — Non ci sono luci — notò Mike premendo un interruttore che mandò un cono luminoso a pu- gnalare la notte. Eleanor vide hale buie, la spiaggia deserta, il Bar del Re- litto che pareva abbandonato e la vegetazione dei giardini frustata dal ven- to sempre più forte. — Non so se faccio bene a lasciarvi qui — disse Mike mentre si avvici- navano all'eliporto buio. — A quanto pare, non si sono neppure presi la briga di accendere i generatori d'emergenza. — Rimasero librati sulla pista e il pilota guardò prima Eleanor, poi Paul Kukali. — Probabilmente do- mattina ordineranno l'evacuazione. Non farei meglio a lasciarvi a Kona, mentre torno a nord? — Va bene qui — disse Paul. La sua voce tradiva stanchezza. — Non so — disse Mike. — Mentre scendevamo avete visto anche voi la nuova fenditura. C'è un geyser attivo a meno di cinque chilometri da qui e Dio solo sa che cosa avviene nei condotti di lava. — Va bene qui — ripeté Paul. Mike esitò ancora un momento, poi fece abbassare l'elicottero, usando il faro per illuminare l'area d'atterraggio, deserta. Il vento sbatacchiò il picco- lo velivolo e Eleanor si rese conto dell'abilità che occorreva per atterrare dolcemente come avevano fatto loro. Appena l'elicottero fu a terra, Eleanor si sporse a stringere al pilota la mano ancora sulla barra di comando. — Grazie — disse. — Questo viaggio è stato molto importante. Non lo di- menticherò mai. Mike la guardò e annuì, ma in quegli occhi sorprendentemente grigi c'e- rano domande non espresse. — Avrai difficoltà a tornare a Maui? — domandò Paul. Mike scosse la testa e batté un colpetto sugli auricolari. — La torre di Keahole mi dice che ho quasi mezz'ora prima che la vera tempesta si sca- teni. Sufficiente a evitarla a nord e a fare la traversata. — Sorrise a Elea- nor. — I bambini avranno già mangiato, ma Kate mi aspetta sempre per cenare insieme. Be', buona fortuna, amici. Eleanor e Paul si tolsero le cinture di sicurezza e scesero dall'elicottero, chinandosi istintivamente per passare sotto i rotori in folle. Il vento era for- te anche al limitare dell'eliporto, fuori portata dell'aria sollevata dai rotori. Mike ammiccò con le luci rosse della cabina, agitò il braccio e poi oscu- rò la bolla di plexiglas. Un attimo dopo, il rombo dei rotori aumentò, l'agi- le velivolo parve alzarsi in equilibrio sui pattini e poi fu in aria, puntando verso nord, con le luci di posizione che brillavano a intermittenza. — Molly era lì, vero? — disse Paul, quando le luci, rossa e verde, svani- rono fra le basse nubi. — Sì — rispose Eleanor. Si strinse nelle braccia e rabbrividì, anche se il vento era tiepido. — Cos'ha detto? Eleanor aprì bocca, esitò. — Non sono sicura d'avere capito bene — dis- se infine. — Ricordo che ha cantato una salmodia, ma era come se mi par- lasse su di un altro canale nello stesso tempo. — Le Pele kahuna possono farlo — disse Paul. — Almeno, con le don- ne. — Nella sua voce c'era un sottofondo amaro. Eleanor capì una cosa. — Lei... lei e i suoi zii e gli altri kahuna... avete cercato l'intervento di Pele per liberare l'isola da questo villaggio, vero? Avete chiamato Pele, prima di liberare Kamapua'a, Pana-ewa e gli altri. Paul non rispose, ma anche nella scarsa luce Eleanor poteva leggergli in viso che il suo sospetto rispondeva a verità. — La situazione è squilibrata — disse infine il soprintendente. — Le an- tiche consuetudini... le antiche salmodie... in molti casi non funzionano. Pele non risponde come faceva con i nostri antenati. — Colpa dello stupro — disse Eleanor. — Prego? — Paul parve sorpreso. — Lo stupro — ripeté Eleanor, stupita della propria certezza, ma nondi- meno certa. — Per secoli il vostro dio verro, Kamapua'a, ha stuprato Pele a proprio piacimento. Ha distrutto l'equilibrio. Le loro battaglie facevano parte dello schema generale, ma lo stupro ha rovinato tutto. — Guardò il sentiero lastricato e il campo da golf al di là delle bougainvillee, nel buio. — Come questo villaggio... una violazione esagerata. Prima che Paul potesse parlare, furono inondati dalla vivida luce di fari. Tutt'e due arretrarono di un passo, ma il veicolo rombò sulla strada d'ac- cesso e girò sull'asfalto dell'eliporto, a grande velocità. Ci fu uno stridio di freni. — Verrei dentro, se fossi in voi — gridò Cordie sporgendosi dalla jeep. — Fra qualche minuto scoppierà una merdosa tempesta. Salirono sulla jeep, Paul dietro e Eleanor nel sedile accanto al posto di guida, proprio come sull'elicottero. Stavano già tornando alla Grande Hale, quando Eleanor disse: — Questa è la jeep che ho noleggiato io. Ho ancora le chiavi. Come l'hai fatta partire? — Collegando i fili — rispose Cordie. — E, credimi, non è affatto facile come si vede nei film! — Perché? — disse Paul. — Be', per prima cosa i fili dell'accensione non penzolano, pronti a farsi spelare e collegare. Anche se con questa stupida jeep non è stato più diffi- cile che con... — No — la interruppe Paul. — Perché è venuta a prenderci? Cordie diede un'occhiata ai due. Il vento le scostava dalle orecchie i ca- pelli. — Ci sono creature misteriose in libertà stanotte. Ma lo sapete già. Almeno, tu, Nell, lo sai già. Eleanor annuì. — Dobbiamo scendere laggiù stanotte. Nel Mondo Sot- terraneo. — Stanotte? — ripeté Cordie. — Cristo, ragazza! — Impossibile — disse Paul dal sedile posteriore. La jeep si fermò sotto la porte cochere. L'atrio era buio. Nemmeno una candela accesa. Eleanor si girò. — Perché impossibile? Paul Kukali allargò le mani. — Al mattino c'è un breve periodo in cui gli dèi dormono. Allora il Mondo Sotterraneo non è sorvegliato. Di notte... Kamapua'a le mangerebbe l'anima. — Vaffanculo Kamapua'a — disse Eleanor. Pensò: "L'ho detto proprio io?" Paul corrugò la fronte. — Kamapua'a fa parte della nostra religione, Ele- anor. È importante quanto Pele. — Può darsi — replicò Eleanor — ma è anche uno stupratore. E un por- co. — Prese fiato. — Se Pele deve impedirgli di massacrare chiunque su questa costa, dobbiamo liberare gli spiriti haole, in modo che lei possa agi- re. — Gliel'ha detto Molly Kewalu? — domandò Paul. — Sì. No. — Corrugò e si massaggiò la fronte. — Mi è difficile ricorda- re esattamente cos'ha detto. — Rialzò il viso. — Ma dobbiamo scendere laggiù al più presto. E lei deve venire, Paul. — Io vengo con te, Nell — disse piano Cordie. Eleanor le toccò il braccio. — Grazie. Ma dev'essere un uomo e una donna. Hai letto il diario di zia Kidder. Cordie fece una smorfia. — Forse non è più di moda. — No. Un uomo e una donna. Paul... lei ha dato inizio a questa storia. Verrà con me? Il soprintendente rimase in silenzio per un poco. Cordie udiva le fronde di palma frusciare rumorosamente in alto. Lampi balenavano dietro la Grande Hale. — Sì — disse infine Paul. — Ma non stanotte. Sarebbe la morte. Alle prime luci. Eleanor sospirò, neppure lei sapeva se di frustrazione o di sollievo. — D'accordo. — Questo è sistemato — disse Cordie. — Ora avrei un suggerimento. I due ascoltarono. — Se fosse uno degli stupidi film che guardavano i miei figli, a questo punto ci divideremmo e andremmo in direzioni diverse e il mostro o il tipo con la maschera da portiere da hockey ci beccherebbe uno alla volta. In quei film, a questo punto comincio sempre a fare il tifo per i mostri, perché sono più furbi dei buoni. Capita l'antifona? — Sono d'accordo — disse Paul. — Stanotte sarà un caos. Dovremmo stare tutti insieme. — Oppure filarcela — disse Cordie. — Ho preso la jeep. Possiamo pren- dere la statale, fare i cinquanta chilometri che ci separano dal Mauna Kea o dal Kona Village o dal Mauna Lani e starcene lì a guardare la TV hawaia- na finché non spunta il sole. — No — disse Eleanor. — Mike ha detto che probabilmente domattina faranno evacuare il Mauna Pele. Se lo chiudono prima del nostro ritorno, non potremo più entrare nel Mondo Sotterraneo. — Gesummìo — disse Cordie. — Sarebbe terribile. Eleanor la fissò. — Hai letto il diario di zia Kidder. Sai quant'è impor- tante. — Infatti. E va bene. Però restiamo insieme. Propongo di correre alla scala ovest, salire nella mia suite, accendere le lanterne, chiudere porte e finestre e giocare a poker fino all'alba. — D'accordo — disse Eleanor. — Ma prima devo passare dalla mia ha- le. Stavolta fu Cordie a fissarla. — Perché? — Ho lasciato lì il diario di zia Kidder. Cordie tamburellò sul volante. — Merda. D'accordo, ma ci andiamo a- desso. E ci andiamo insieme. E torniamo qui insieme. Gli altri due annuirono e Cordie passò davanti alla Grande Hale, prese una strada di servizio lungo il lato sud e imboccò il sentiero dei giardini. La jeep occupava tutta la parte lastricata, ma Cordie non scese mai sotto i cinquanta all'ora mentre giravano intorno al Bar del Relitto, e accelerò nel- la zona delle hale. I fari illuminarono la fitta vegetazione. Cominciò a pio- vere. Cordie fermò di colpo la jeep davanti alla hale di Eleanor e disse: — Paul, si metta al volante. Nel caso che Nell e io avessimo una gran fretta di filarcela. — Saltò giù e tolse dalla borsa la rivoltella e la torcia elettrica. — Cordie, non devi... — Zitta, Nell. — Col raggio luminoso ispezionò scale e portico. — Sta- notte non hanno acceso neppure le torce. Forza. Apri la porta e fatti da par- te. Userò la pila. Fecero proprio così. A Eleanor parve un comportamento un po' teatrale, come se avessero guardato troppi spettacoli polizieschi alla TV, ma Cordie pareva assolutamente seria mentre con un calcio spalancava la porta e con la torcia illuminava l'interno, rivoltella puntata. La hale era deserta e proprio come Eleanor l'aveva lasciata, a parte il let- to, ora rifatto. Eleanor recuperò il diario di zia Kidder, mise nella borsa il necessario per la toletta e qualche altra c.osuccia, chiuse la cerniera, e nel giro di un minuto erano già fuori. Intanto Paul aveva girato la jeep. Cordie saltò dietro e lasciò a Eleanor il sedile accanto a Paul. La jeep accelerò sullo stretto sentiero e si diresse alla Grande Hale. Un tronco di palma bloccava la pista d'asfalto quasi all'altezza del Bar del Relitto. — Oh, merda! — disse Paul. — Gli giri intorno — suggerì Cordie. — Metta la ridotta e tagli fra gli arbusti. — No, sono troppo fitti. E ci sono troppe rocce e tubazioni. Dobbiamo trovare un'altra strada. — La spiaggia — disse Eleanor. Si trovava a soli venti metri alla loro sinistra. Se avessero fatto retromarcia avrebbero potuto prendere il sentiero lungo la piscina più piccola fino alla spiaggia e poi risalire verso la Grande Hale. Paul annuì e innestò la retromarcia. La palma avrebbe colpito in pieno Cordie, se Paul non avesse avuto ri- flessi rapidi e non avesse premuto il pedale del freno. Tuttavia Cordie fu sbalzata dalla jeep e trascinata a terra dalle fronde della palma abbattuta. — Cordie! — gridò Eleanor, alzandosi a mezzo sul sedile. — Oh, merda! — esclamò di nuovo Paul. Qualcosa, nel suo tono, spinse Eleanor a girarsi. Chiaramente visibili nella luce dei fari, malgrado la pioggia battente che riduceva a cinque o sei metri il campo visivo, c'erano l'enorme cane nero, il deforme uomo-squalo, una creatura a forma di rettile che pareva fatta di nebbia turbinante e un verro grosso come una piccola automobile. Il verro e il cane sorridevano, mettendo in mostra denti luccicanti. L'uomo-squalo si girò in modo che si vedessero i denti acuminati sulla sua schiena. La creatura di nebbia aveva un sorriso da rettile. Altri mostriciattoli si move- vano rumorosamente fra gli arbusti. Il motore della jeep si spense. Paul, a bocca aperta, appoggiò sul volante le mani prive di forza. Eleanor cercò d'arrampicarsi sul sedile posteriore per vedere se Cordie era rimasta ferita, ma prima d'arrivare sul cassone della jeep si sentì affer- rare il braccio da mani robuste e tirare fuori del veicolo. — A me non è concesso di toccarti, donna — disse il verro, con armo- niosa voce di basso. — Ma gli altri possono farlo. Pana-ewa turbinò intorno a Eleanor e l'avviluppò nella nebbia. Le grida, maschili e femminili, presto si mutarono in urla, ma la Grande Hale distava alcune centinaia di metri e nemmeno le urla potevano supera- re il rumore della tempesta e dell'orchestrina che suonava per allietare la cena nell'attico di Byron Trumbo. 21 Le stelle bruciavano. Caldi erano i mesi. La terra sorge in isole, Gli alti marosi paiono montagne. Pele getta fuori il suo corpo. Scrosci di pioggia dal cielo. La terra è scossa da tremori. Ikuwa, il mese temporalesco, riverbera di tuoni. Canto che accompagna la nascita di Wela-ahi-lani-nui, il primo uomo 18 giugno 1866, in un villaggio senza nome sulla costa Kona Avevo appena udito il silenzio che tradiva il risveglio del gigantesco maiale, quando la terra tremò e finii lunga e distesa sul fondo del condotto di lava. Caddero pietre, si staccarono stalattiti e gli spiriti intorno a me tur- binarono come pulviscolo fosforescente spostato dal calcio di un nuotato- re. In quell'attimo fui sicura d'essere condannata, destinata a morire nuda e sola nel Regno degli Spiriti; ma l'attimo dopo la fune di liane ieie scivolò verso di me, con il cappio già pronto. Di nuovo la terra tremò e di nuovo finii lunga e distesa, ma la fenditura in alto non si era chiusa e io mi affret- tai a infilarmi nel cappio e a passarmi intorno al polso la corda, come mi aveva mostrato il signor Clemens. Ancora un secondo e salivo verso la lu- ce, ferendomi i piedi contro la scabra parete che scalciavo per trovare ap- piglio. Gli spiriti haole salirono con me, turbinando e roteando come parti- celle di polvere agitata in un raggio di sole. Dal tunnel, lontano alle mie spalle, provenne un ruggito, ma non avrei saputo dire se era il rumore del terremoto o il grido di un dio maiale risvegliato e infuriato. Ogni pensiero di decoro era volato via mentre mi arrampicavo e striscia- vo sul bordo della fenditura, ansimando nell'aria umida, quasi accecata dal- la luce. La terra continuava a tremare, nell'aria c'era puzzo di solfo, il cielo aveva un colore sanguigno, spiriti di missionari morti volavano nella luce intorno a me e svanivano come foschia davanti a un forte vento, ma tutta la mia attenzione si concentrò sulla figura apparsa davanti a me. Cominciai a ridere, lo confesso, senza riuscire a smettere. Sempre nuda come Eva e in ginocchio in una posizione che nessuna donna cristiana a- vrebbe mantenuto per un solo minuto neppure in perfetta solitudine, non riuscivo a muovermi, tanto ero scossa dalle risa. "Cosa c'è?" disse il signor Clemens, lasciando cadere la fune di liane ma reggendo con forza sottobraccio la noce di cocco. "Mi occorrevano per fa- re attrito in modo da tirarla su, signorina Stewart" proseguì, diventando rosso come mai l'avevo visto. Cercai di smettere di ridere. Ci riuscii, ma dopo alcuni minuti, mentre la terra tremava intorno a noi e il vulcano era in piena eruzione alle mie spal- le. L'immagine del signor Clemens che tirava con ansia la fune, reggendo sottobraccio la noce di cocco con i resti immortali del nostro amico mis- sionario, senza niente addosso, a parte gli stivali che aveva trovato il tem- po di calzare e il rossore sempre più intenso... mi scuserete per quel mo- mento d'isteria. Il signor Clemens tenne la noce di cocco davanti a sé come una foglia di fico. "Se ha terminato" disse, in tono piuttosto malizioso "suggerisco di vestirci e di lasciare questo posto. Pare che Madame Pele abbia iniziato il suo lavoro quotidiano." Allora mi girai e guardai il grande anfiteatro di lava indurita. Fiamme sgorgavano da crepacci a meno di un miglio sul fianco della montagna. Magma zampillava in aria per centinaia di piedi e grandi nubi di gas sulfu- reo si libravano sul panorama roccioso. Le terrazze di pietra, che un'ora prima erano state solo un residuo di antiche cascate di lava, adesso erano rosse per molteplici rivoli che scorrevano e gocciolavano sotto i miei oc- chi. La lava avrebbe raggiunto la nostra posizione nel giro di qualche mi- nuto, se già non l'aveva raggiunta scorrendo sottoterra nel condotto da noi appena abbandonato. Fu uno spettacolo che mi rese subito sobria. Impie- gammo meno di un minuto a vestirci, anche se ammetto d'avere lasciato sbottonati alcuni ganci del corsetto. Dava una bizzarra impressione indos- sare di nuovo gli abiti, come se il breve tempo d'innocenza da Eden in compagnia del signor Clemens avesse risvegliato memorie razziali dei no- stri primi giorni nel Giardino. Ma appena balzai in sella a cavalcioni, fui lieta della mia robusta gonna da amazzone. I cavalli erano atterriti dal fra- stuono, dalle scosse, dal puzzo, ma il signor Clemens li aveva impastoiati con mano esperta e quelli non erano riusciti a fuggire malgrado il panico chiaramente visibile nei loro occhi roteanti. Spronammo i cavalli e pun- tammo fra settentrione e levante. Dietro di noi la lava scorreva come u- n'improvvisa inondazione primaverile e incendiava gli scarsi arbusti e le chiazze d'erba cresciuti nel vecchio campo di pahoehoe. Non avevamo al- cun lucente fuoco fatuo a guidarci nel ritorno, ma il signor Clemens aveva preso nota della via percorsa e i cavalli, per quanto fossero sfiniti, risaliva- no il lungo pendio con una determinazione alimentata più dal cataclisma vulcanico alle nostre spalle che dai nostri effettivi speroni. Mentre proce- devamo, il signor Clemens teneva la noce di cocco saldamente incuneata contro il corno della sella. "Non sarebbe bene perdere il reverendo Ha- ymark, dopo tanta fatica" disse a un certo punto. "La noce di cocco potreb- be rotolare in un boschetto di palme e al momento di travasare la noce da noi raccolta e trasportata per miglia fino al villaggio potremmo scoprire d'avere portato con noi un mercante di cavalli indigeno o qualcosa del ge- nere." "Non è divertente, signor Clemens" dissi, anche se, per chissà quale mo- tivo, molto probabilmente la grande stanchezza a quel punto, il commento mi parve un poco divertente. Cavalcammo nel mattino. Varie volte l'intera isola parve tremare con ta- le ferocia da costringerci a smontare e a trattenere i cavalli atterriti. Massi ruzzolavano lungo il pendio, schiacciando qualsiasi arbusto o piccolo albe- ro ohi'a incontrassero nella loro corsa, mentre dietro di noi le nubi di cene- re e di fumo nascondevano il sole. In un'occasione, quando ci fermammo per trattenere i cavalli grazie solo alla pura e semplice forza di volontà, il signor Clemens indicò in basso il pendio verso la costa. Sulle prime riuscii a scorgere ben poco, nel mobile fumo e nella nube di ceneri, ma poi vidi la causa del suo allarme: per miglia, nel mare, un'onda di proporzioni gigan- tesche rotolava verso terra. In quel momento ci trovavamo alcune miglia sul livello del mare e non avevamo nulla da temere, ma la vista di quel- l'onda gigantesca (mi pare che i giapponesi la chiamino tsunami) mi lasciò completamente senza fiato. Dal nostro punto d'osservazione guardammo il gigantesco ricciolo d'ac- qua verdastra superare la linea di scogli molto più in basso, poi muoversi senza sosta sui boschi costieri di palme, spezzandole e facendole scompari- re come per un trucco da prestigiatore, e proseguire nella sua corsa. Da quella distanza l'onda pareva abbastanza inoffensiva, solo un'onda più grande fra le molte altre venute in precedenza, ma era davvero troppo faci- le immaginare la terribile distruzione che causava col suo passaggio. Pen- sai ai templi da noi visti e al villaggio dove avevamo trascorso la notte (due insonni notti fa!) e mi domandai se non si trovassero sul percorso di quella mostruosa e malefica potenza marina. L'onda attraversò il mezzo miglio della conca di lava da noi così in fretta abbandonata: quando l'acqua colpì le fenditure di lava ribollente, si levò una tale colonna di vapore che, lo confesso, trasalii, come se il signor Clemens, i nostri cavalli e io fossi- mo sul punto d'essere cotti a vapore come gamberi in una pentola. La nube di vapore non giunse neppure a un miglio da noi, ma oscurò la parte più orribile della scena... la carneficina del grande tsunami che si riti- rava verso il mare portando con sé, per varie miglia nelle insondate pro- fondità marine, enormi alberi, capanne di indigeni e creature viventi. Continuammo a cavalcare. Nei postumi di una simile eccitazione, la sus- seguente stanchezza fu davvero totale. Varie volte mi svegliai solo per scoprire d'essermi addormentata in sella. Avevo mani, gambe e piedi graf- fiati e scorticati per l'arrampicata e l'esplorazione della caverna da noi fatta au naturel e puzzavamo ancora per il rancido olio di noce kukui che nessu- no di noi aveva avuto il tempo di togliersi di dosso nella fretta d'allonta- narci, ma neppure questo costante fastidio m'impedì d'appisolarmi durante il percorso. Nel primo pomeriggio, forse a un'ora dal villaggio che cercavamo, il si- gnor Clemens decretò una sosta. Sulle prime ero troppo intontita dal sonno per capire la ragione di quella perdita di tempo (non c'erano più scosse di terremoto ed eravamo sfuggiti alla parte peggiore delle nubi di fumo e di ceneri) ma poi guardai il mio povero cavallo, Leo, e mi accorsi che aveva inarcato il collo e beveva. Eravamo incappati in una rarità di quel poroso terreno vulcanico: un temporaneo ruscello montano d'acqua chiara e fred- da. Subito smontai per bere. Se da un lato ben poco del prezioso liquido mi arrivò alla bocca, raccolto nelle mani a coppa, dall'altro esitai a imitare il metodo da montanaro del signor Clemens, ossia distendersi semplicemente sulla pancia e lappare acqua come un cane. Riconosco tuttavia che quel metodo era più efficiente. Dopo avere bevuto a sazietà, mentre i cavalli sonnecchiavano in piedi, suggerii al mio compagno di approfittare di quella fortuna per ripulirci il corpo unto d'olio. Il mio mansueto corrispondente si dichiarò d'accordo; ci servimmo della relativa intimità che poteva fornirci un grosso masso (il si- gnor Clemens a monte e io a valle) e procedetti a ripulirmi nel miglior mo- do possibile senza svestirmi. Naturalmente, a quel punto il terribile puzzo aveva permeato la stoffe che si era trovata a contatto con l'olio, per cui, an- che se mi cambiai prendendo dalle bisacce un'altra blusa da amazzone e calzoni puliti, il risultato lasciò molto a desiderare. Ci ritrovammo sulle riva del ruscello e il signor Clemens alzò la noce di cocco. "Avrei una mezza idea di tuffarla in modo che il reverendo Ha- ymark si unisca alle nostre abluzioni" disse, ma mise al sicuro la noce nelle bisacce della sua sella e soggiunse: "Però l'altra mezza idea mi vieta la proposizione". "Metà della mia mente pensa che io sia fuori di mente" dissi. Perfino a me il suono della mia voce parve annebbiato di stanchezza. Il signor Clemens annuì. E allora fece una cosa bizzarra: avanzò ra- pidamente e mi toccò la spalla. Sulle prime pensai che mi acconciasse il colletto o mi rimettesse a posto una ciocca di capelli, invece si limitò a po- sarmi sulla spalla la mano, mentre si sporgeva a baciarmi. Fui colta totalmente di sorpresa. Non protestai. Non mi ritrassi. Il signor Clemens mi baciò di nuovo. Alla fine mi scostai, rossa in viso, posando le mani sul suo petto e spin- gendolo via, pur senza molta forza. Il signor Clemens spostò da un piede all'altro il peso del corpo. "Le chiedo scusa, signorina Stewart, ma ho desiderato farlo fin da quando era- vamo sulla nave e discutevamo di argomenti cosmici alla luce delle stelle. Chiedo scusa per la mia presunzione e per la mia goffaggine. Non chiedo scusa per l'affetto che ha motivato la goffaggine. Le mie intenzioni sono del più alto livello e non vanno fraintese per l'impulso di un momento." Rimasi lì senza parole. Alla fine riuscii a dire: "In realtà, signor Cle- mens..." e questo indusse il mio compagno a mostrarsi ancora più imbaraz- zato e ad arrossire come nell'occasione in cui avevo riso di lui meno di tre ore prima. Mi sistemai i capelli, dimostrando il mio dispiacere nei suoi confronti mediante l'atteggiamento e l'intensità del mio sguardo poco amichevole, ma confesso d'avere ripensato alla sensazione delle sue labbra sulle mie, alle sue forti ma delicate dita sulla mia spalla. "Dovremmo riprendere il cammino" dissi infine, tirando le redini per svegliare Leo dal suo sonnellino in piedi. "Devo scusarmi di nuovo, signorina Stewart, se lei..." "Di questo parleremo dopo" dissi in tono brusco, forse più brusco di quanto non intendessi. La sella di cuoio scricchiolò, mentre mi issavo in quella goffa posizione a cavalcioni che usavo da quando ero giunta in quelle isole. Il signor Clemens accorse ad aiutarmi, ma io mi sistemai e ri- presi le redini. "Dovremmo affrettarci" dissi. "Non sappiamo per quanto tempo lo spirito del reverendo Haymark rimarrà efficacemente nel suo temporaneo alloggio." Il signor Clemens borbottò qualcosa che ritenni un assenso; montò in sella e riprendemmo la salita lungo i pendii di lava del Mauna Loa, con i miei pensieri contorti e confusi come la a'a che ora ci circondava. Giungemmo allo scalcinato villaggio più o meno a metà pomeriggio. Ero troppo sfinita per controllare l'orologio. Gli uomini del villaggio non si vedevano da nessuna parte, fatto che eliminò un poco la mia ansia. Mi preoccupavo che il signor Clemens fosse costretto a sparare contro alcuni di loro per convincerli a lasciarci in pace. Il mio impudente compagno for- se condivise il mio sollievo, perché parve d'umore più allegro che non do- po il mio rimprovero sulla riva del torrente. Mi aiutò a smontare da Leo, che ansimava forte, come fanno i cavalli poco prima di crollare. La vecchia ci aspettava nella capanna, come pure il corpo senza vita del reverendo Haymark. Mi accovacciai accanto al cadavere dell'ecclesiastico, cercando attentamente i primi segni di putrefazione che mi avrebbero con- vinto che gli eventi delle ultime ore erano stati solo un sogno. Il corpo del missionario era sempre privo di vita e freddo al tocco, ma non mostrava nessuno dei segni che a dodici ore dalla morte sarebbero di sicuro comparsi. "L'avete portata" disse la vecchia, in un tono che suggeriva che non si trattava di una domanda. Mi lenì alquanto il nervosismo, vedere che non si librava più al centro della capanna, ma sedeva sopra una stuoia intrecciata, proprio come me. Il signor Clemens mostrò la noce di cocco. "Bene" disse la donna. Scrutai i suoi lineamenti, ma ormai non ero sicu- ra che fosse la stessa persona apparsa come una bella giovane presso la fenditura. Ero troppo stanca per prendermela a cuore. La vecchia mi diede uno schiaffo. Sconvolta, alzai la mano a toccarmi la guancia che mi bruciava." Devi essere sveglia, per fare questa cosa" disse la vecchia. "Devi capire e ricordare ogni passo. Se commetti un errore, lo spirito del tuo amico kahuna sarà perduto per sempre." Riuscii solo a fissarla. "Lo farò io" disse il signor Clemens, ponendosi fra me e la vecchia. Quest'ultima scosse la testa. "Solo la donna, la seguace di Pele, può far- lo." "Non sono seguace di Pele" protestai, con labbra intontite dallo choc. "Sono una cristiana dell'Ohio." La vecchia si limitò a sorridere. Alzò una zucca piena di un liquido tor- bido. "Bevi" ordinò. Guardai dubbiosamente quel liquido viscoso, ma bevvi. Nel giro di qualche secondo fui pervasa da una bizzarra energia. "Ora" disse la vecchia "cominciamo." Dal vano della porta provenne un forte rumore. Il signor Clemens guar- dò da sopra la mia spalla. "Mio Dio!" esclamò. L'intero vano della porta era occupato dal gigantesco verro del Mondo Sotterraneo di Milu. Il cuore mi si fermò. La vecchia proseguì nei preparativi, quasi senza fermarsi. "Non può en- trare" disse, secca. Mi posò sulla testa la mano avvizzita, guardando il ver- ro, e disse: "Kamapua'a, sappi che questa wahine haole e tutte le sue di- scendenti sono state separate dal mio tocco. Sono sotto la protezione di Pe- le. Tu non puoi danneggiare il loro corpo". Il verro sbuffò di rabbia e poi sorrise. "Ma posso mangiare la loro ani- ma." "Non puoi entrare" disse la vecchia. "Questa capanna è separata dal tuo potere. Ho invocato la forza del Kilauea. Qui tu non hai potere." In preda a disumana frustrazione, il verrò raspò il terreno. "Seguimi bene" mi disse la vecchia. "Ogni passo dev'essere corretto, al- trimenti la uhane del tuo amico sarà perduta per sempre." Allora cominciò la salmodia. Iniziò il rituale. Cordie riprese conoscenza tra una confusione di fronde di palma spezza- te. Fu subito lucida: sapeva esattamente dove si trovava e che cosa le era accaduto l'attimo prima di perdere i sensi. Ricordò le creature che blocca- vano la strada, il panico di Paul nel tentativo di far arretrare la jeep, l'albe- ro che cadeva, il suo stesso ruzzolone giù dalla parte posteriore del veico- lo. Ma non sapeva se tutto questo era accaduto trenta secondi prima o tre ore. La pioggia cadeva ancora, ma con minore violenza di quando avevano lasciato la hale di Eleanor. Non significava molto, lei aveva già visto nei giorni precedenti come le tempeste tropicali cambiassero d'intensità nel gi- ro di qualche minuto. Lottando contro la nausea che deriva dall'avere in testa un grosso ber- noccolo, Cordie si aprì la strada tra le fronde di palma e si issò sul paraurti posteriore della jeep. Qualcosa di piccolo, bagnato, peloso si strusciò con- tro la sua gamba e Cordie strinse d'istinto i pugni prima di capire che si trattava di un ratto. "Vivono sulle maledette palme" pensò. "Probabilmente cinquanta di quelle sporche bestiacce correvano su di me, mentre ero sve- nuta." Rabbrividì, ma scacciò quel pensiero. Era cresciuta come spazzatura bianca, vivendo ai margini di una discarica dove giocava ogni giorno. Per gran parte della vita aveva raccolto immondizia. Odiava i topi, ma non po- teva dire di non conoscerli. Ancora prima di tirarsi in piedi, tastò all'intorno alla ricerca della borsa. La teneva a tracolla quando la jeep era andata a sbattere contro l'albero, ma ricordava d'averla vista volare via mentre era sbalzata fuori della macchi- na. La ritrovò nel giro di trenta secondi e vide che la striscia di Velcro la teneva ancora chiusa. Armeggiò per aprirla, prese la .38 e la torcia elettri- ca. Pollice sul cane della rivoltella, testa che le pulsava per i postumi di quella che era di sicuro una lieve commozione cerebrale, salì sul retro della jeep tenendo protese torcia e rivoltella. La jeep era vuota. Posando i piedi fra ispide fronde, andò al posto di guida del veicolo bloccato. I fari illuminavano ancora la pioggia, ma non c'era segno delle mostruose creature. Niente si moveva nel sottobosco. Cordie girò intorno al cofano della jeep, spostando qua e là il raggio della torcia. Davanti alla jeep non c'era niente. Nel buio la pioggia gocciolava dalle foglie. Un basso rumore alla sua sinistra la spinse a piegare il ginocchio e ad al- zare la rivoltella, canna parallela alla torcia. Il rumore si ripeté... un gemi- to. Cordie abbassò il raggio e vide un piede scalzo sporgere dall'aiuola. Al- cune piccole targhe piantate nel terreno accanto al piede avevano etichette che Cordie riusciva a leggere anche da quella distanza: HIBISCUS, LAN- TANA, FELCE HAPU'U. L'uomo gemette di nuovo. Cordie illuminò la zona dietro di sé, sentendosi sicura d'essere l'unica persona in piedi nelle immediate vicinanze, e si accostò al corpo disteso per terra. Si trattava di Paul Kukali. La camicia del soprintendente era stata strap- pata via e i calzoni erano a brandelli come se li avessero artigliati. La parte sinistra del viso era piena di lividi e di lacerazioni, un occhio nascosto dal gonfiore, il braccio sinistro chiaramente rotto in due punti, alla mano de- stra mancava un dito, c'erano tagli profondi sul petto e sulla coscia, la ca- viglia destra formava con la gamba un angolo innaturale, come se fosse stata piegata troppo. — Cristo — mormorò Cordie — l'hanno conciato proprio per le feste. — Non aveva mai provato una particolare simpatia per quell'uomo, senza saperne bene la ragione non si era mai fidata del tutto di lui, ma non sopportava di vederlo in quelle condizioni. Il soprintendente gemette di nuovo. Cordie si sporse e gli mise la mano sul petto. Malgrado le ferite, il respiro pareva forte e chiaro, il battito del cuore era regolare. — Paul — disse Cordie a voce bassa — dov'è Nell? Dov'è Eleanor? Paul Kukali gemette ancora. Non era del tutto cosciente. Cordie gli diede un colpetto sulla spalla e si alzò. Aveva sufficiente addestramento medico per sapere che non doveva spostarlo ma chiamare qualcuno che lo aiutasse; Paul poteva avere una frattura alla spina dorsale o qualche grave lesione interna che l'avrebbe ucciso se lei avesse cercato di spostarlo. Ma Cordie sapeva pure che in quel luogo pazzesco e in quel momento pazzesco l'aiuto medico poteva non giungere tanto presto. Le mostruose creature che ave- vano conciato in quel modo Paul avrebbero potuto sorprendere anche lei prima che tornasse alla Grande Hale, e in questo caso forse Paul sarebbe morto lì nel buio. — Torno subito — disse Cordie e cominciò a frugare con la torcia il sentiero lastricato e le aiuole. C'erano impronte, di esseri umani e no, e aiuole distrutte, ma nessun segno di Nell. Poi, all'improvviso, il raggio il- luminò qualcosa di chiaro, alcuni metri nella giungla, una ventina di passi alla destra dell'albero caduto che aveva bloccato il sentiero. Acquattata, ri- voltella pronta, Cordie si mosse sotto i bassi rami. La pioggia era diventata più forte e cadeva da foglia a foglia, con un tamburellio che in circostanze diverse sarebbe stato consolante. Era Eleanor. Gli abiti erano intatti e non c'erano segni esteriori di ferite. Cordie infilò nella cintura la rivoltella e cercò il polso dell'amica, le tastò la gola. Le posò la guancia sul petto. Nell non aveva pulsazioni. Non respi- rava. La pelle era gelida. — Merda — imprecò Cordie. Resse fra i denti la torcia elettrica e trasci- nò Eleanor tra il fango e gli arbusti. Quando raggiunse il sentiero ansimava senza fiato e provava un senso di vertigine per le sorde pulsazioni alla te- sta. Fu costretta a sedersi sopra uno dei sassi che bordavano le aiuole e ad aspettare che vertigine e nausea passassero. Poi sollevò con grande delica- tezza Eleanor, la portò alla jeep e la sistemò con cura sul sedile posteriore tutto bagnato. Paul Kukali aveva smesso di gemere, ma respirava ancora. Cordie gli avvolse in un foulard la mano sanguinante priva di un dito e poi, facendo attenzione a non toccare il braccio sinistro maciullato, lo trascinò fino al sedile anteriore della jeep. Paul gemette forte, soprattutto quando la cavi- glia rotta strisciò sul terreno, ma non riprese conoscenza. Cordie legò Paul servendosi della cintura di sicurezza, incuneò contro lo schienale il corpo di Eleanor in modo che non rotolasse e si appoggiò per qualche istante alla jeep per togliersi di dosso l'intontimento; poi gettò sul fondo della jeep la borsa, si sporse di nuovo a collegare i fili dell'accensio- ne, dopo alcuni minuti riuscì ad accendere il motore e per qualche secondo si limitò a stare seduta al posto di guida. La jeep era bloccata dall'albero caduto davanti e da quello, più piccolo, caduto dietro. Ma anche l'albero davanti era una palma e la chioma era una semplice massa di fronde sul- l'aiuola di destra. Cordie innestò la ridotta e spinse la jeep sulle fronde, spezzandole e im- pennandosi su e giù. Si aspettava quasi che una creatura si lasciasse cadere ringhiando dagli alberi alle sue spalle, ma era troppo impegnata a evitare che la jeep si rovesciasse sul fianco per preoccuparsene. Poi fu sul sentiero lastricato che portava alla Grande Hale e scorse più avanti la massa buia del Bar del Relitto. Tolse la ridotta e accelerò. Inizialmente i cinque hawaiani dell'orchestrina si erano rifiutati di venire al Mauna Pele, ma Trumbo aveva promesso loro un supplemento di mille dollari e quelli adesso erano lì, a suonare chitarra, sassofono e ukulele per far passare la serata, mentre le lanterne antivento fornivano la fioca luce al- la lunga sala da banchetti e il gruppo di Sato trangugiava saké come se fos- se sul punto di passare di moda. Trumbo accolse con piacere la musica, perché copriva i rumori della tempesta e l'insolita quiete dell'albergo quasi deserto nei piani inferiori. Inoltre gli permetteva di pensare, anziché chiac- chierare. I pensieri non produssero granché. Secondo il programma originale, Sa- to avrebbe dovuto firmare i documenti quel pomeriggio e quello sarebbe stato il banchetto per festeggiare da entrambe le parti. Ma per quanto le condizioni paressero definite e accettate, Hiroshe Sato e i suoi consulenti erano in pensiero per l'assenza di Sunny Takahashi e si rifiutavano di fir- mare finché il giovanotto non fosse tornato. Per quanto Byron Trumbo ne sapeva, Sunny non era realmente morto ma era una sorta di fantasma tenu- to in un condotto di lava a sud del villaggio, sorvegliato da un gigantesco maiale parlante che avrebbe restituito Sunny se lui, Byron Trumbo, miliar- dario, fosse sceso laggiù a parlare. "Stronzate per i gonzi" pensò Trumbo. Non era superstizioso, neppure religioso, e non s'interessava del paranormale, ma era abituato alle stronza- te per i gonzi. Non si ammassa una fortuna superiore al miliardo di dollari senza incontrare stronzate di quel genere. Né si ammassa una simile fortu- na se non si ha la capacità di concentrarsi e ciò su cui Byron Trumbo si concentrava al momento era far firmare il contratto e liberarsi del Mauna Pele per avere i capitali necessari a togliersi dalla sua attuale crisi finanzia- ria. Il maiale parlante poteva aspettare l'analisi razionale. Come quell'altro maiale parlante, Caitlin Sommersby Trumbo, per quanto lui non credesse che fra loro sarebbe passato ancora qualcosa di razionale. Michaels, che al momento fungeva da capo della sicurezza, si era pre- sentato poco prima a bisbigliare all'orecchio del capo che la signora Trum- bo e le altre due signore e l'avvocato, Koestler, si trovavano tutti insieme, al sicuro e sotto sorveglianza, al sesto piano della Grande Hale. Trumbo aveva mandato a prendere le altre due donne, con la scusa che si stava per scatenare una tempesta, come pareva appunto che sarebbe accaduto. Era dispiaciuto che alla fine le tre donne si fossero incontrate; Maya non era una grande perdita, la loro relazione stava per raggiungere comunque la fi- ne della sua naturale parabola, ma a Trumbo era piaciuto l'insolito abbina- mento con Bicki. "Be', forse questa non è una perdita irreparabile" si disse, ma accantonò in fretta quel pensiero. Si concentrò sul problema attuale. Il problema attuale riguardava come indurre Hiroshe a firmare l'accordo. Trumbo sospettava che, malgrado l'apparente disinteresse del gruppo Sato per il caos intorno al Mauna Pele, la scomparsa di Sunny fosse solo la pun- ta dell'iceberg della loro vaga inquietudine. Malgrado la loro storia piena di atrocità fino alla Seconda guerra mondiale e durante quest'ultima, i giapponesi moderni ostentavano terrore per la violenza e la sentivano a fiu- to. D'altro canto, Trumbo lo sapeva, il giovane Hiroshe cercava di togliersi dall'ombra paterna e quel magnifico club per il golf nell'Isola Grande delle Hawaii era la via più breve per riuscirci. L'avrebbe reso un imprenditore miliardario di successo, oppure avrebbe affossato la fortuna del vecchio. In realtà a Byron Trumbo non importava un fico di come sarebbe andata a fi- nire, purché il villaggio turistico passasse di mano e lui ottenesse i soldi. Trumbo si domandò se non avrebbe fatto meglio ad accendere le luci. Aveva delle guardie intorno al generatore d'emergenza, che funzionava be- nissimo, ma aveva deciso di risparmiare energia per l'ascensore, gli allarmi del sesto piano e le luci della sala conferenze al momento della firma... se mai fosse arrivato quel momento. Nel frattempo pareva che ai giap non importasse l'illuminazione con lanterne antivento, quindi Trumbo decise di lasciare le cose come stavano. L'orchestrina stava suonando un vecchio pezzo, Will Bryant era tornato a tavola ma saggiamente evitava d'incrociare lo sguardo del capo e Trum- bo portava avanti una stupida conversazione con Hiroshe, il vecchio Ma- tsukawa e il dottor Tatsuro, quando Michaels tornò. A Trumbo dava fasti- dio che gli parlassero all'orecchio, perciò si allontanò un attimo da tavola. — Due cose — disse l'uomo della sicurezza, rosso in viso. — Primo, Fredrickson è fuori aria. — Vuoi dire che non ha fatto la chiamata di controllo all'ora prevista? — No — disse Michaels. — Voglio dire che è fuori aria. L'avevamo su banda aperta, così doveva solo schiacciare se si cacciava nei guai e... — Schiacciare? — ripeté Trumbo, irritato. Non poteva soffrire la gente che adoperava gerghi o linguaggio troppo tecnico. Michaels arrossì. — Un vecchio termine 'Nam, signore. Significa che l'avevamo su banda aperta... una frequenza che tutti gli altri non usavano... e che doveva solo premere il pulsante di trasmissione perché noi udissimo. Comunicavamo in questo modo nella giungla, quando non volevamo che i Viet Cong captassero le nostre... — Sì, sì — disse Trumbo. — Risparmiami le storie di guerra. Perciò Fredrickson doveva solo premere un pulsante. Invece non l'ha premuto? — Non lo sappiamo, signor Trumbo. È fuori aria. Come se qualcuno gli avesse fracassato la radio. — O gliel'avesse mangiata. — Prego? — Lascia perdere. — Dobbiamo mandare degli uomini, signore? — disse Michaels. — Qui la situazione è molto tranquilla, perciò potremmo... — No. Se Fredrickson è ancora vivo, starà facendo il suo lavoro e trove- rà il modo di farci sapere se qualcosa esce da quel buco. Se non è vivo... be', perché sprecare uomini? L'altra cosa? — C'è una donna che vuole vederla, signore. Trumbo sospirò. — Quale delle tre? Caitlin? — No, signore — disse in fretta Michaels. — Una degli ospiti, la signo- ra Stumpf. Trumbo esitò. — Una degli ospiti? Credevo che se ne fossero andati tut- ti. — Non tutti, signore. La signora Stumpf è la vincitrice del concorso che... — Sì, lo so. Dille che mi farò vivo con lei domani dopo colazione. Michaels si mosse a disagio. — Ecco, signore, dice che è molto impor- tante. Dice che riguarda il cane e lo squalo e il maiale. Dice che lei avrebbe capito. Trumbo lanciò un'occhiata alla sala da pranzo. I camerieri portavano il dessert, gelato con manghi del posto, mousse di cioccolato, espresso all'ita- liana con caffè di Kona, e pareva che gli ospiti sarebbero stati occupati per qualche minuto. — Va bene — disse Trumbo. — Dov'è? Era nell'anticamera della suite. Trumbo aveva incontrato quella donnetta robusta con la faccia di luna piena quando lei e il soprintendente e un'altra donna avevano riferito l'incidente del cane con resti umani nelle fauci, ma rimase sorpreso nel vedere quanto appariva più brutta, con i capelli bagnati e i vestiti grondanti acqua. — Signora Stumpf! — salutò in tono espansivo, allargando le braccia ma senza in realtà abbracciare la grondante apparizione. — Siamo davvero lieti che abbia accettato l'invito ad approfittare della suite più comoda del sesto piano in attesa che passi la tempesta! Cosa possiamo fare per rendere ancora più piacevole il suo soggiorno? La signora Stumpf emise un borbottio. — Mandi via la guardia del cor- po — disse poi. Michaels arruffò le penne, ma Trumbo si limitò a sorridere. — Non si preoccupi, signora Stumpf, il mio collaboratore è una persona fidata. Qual- siasi cosa lei dica, rimarrà fra noi. — Gli ordini di muovere il culo. Trumbo sbatté le palpebre, sorpreso, e perdette per un attimo il sorriso. — Muovi il culo — disse a Michaels. L'uomo della sicurezza rimase sor- preso, ma uscì nel mezzanino, dove aspettavano gli altri suoi colleghi. — Allora — disse Trumbo — cos'è questa storia di squali e maiali e tut- to il resto? Cordie Stumpf borbottò di nuovo. — Byron, ragazzo mio, lei ha due problemi. Il primo è che in questo momento il suo albergo è infestato da animali mitologici. Prima di parcheggiare la jeep nell'atrio deserto, ho vi- sto maiali selvatici grufolare nei giardini e quel cane dai denti umani è nel mezzanino del primo piano. — Ha parcheggiato la jeep nel nostro atrio? — si stupì Trumbo. Riprese il sangue freddo e disse: — Non c'è niente di cui preoccuparsi, signora Stumpf. Ammetto che negli ultimi due o tre giorni si sono verificate cose un po'... ah... insolite, ma domani torneranno alla normalità. Dirò al mio collaboratore di accompagnarla in tutta sicurezza alla sua suite. — Posò la mano sulla schiena della donna, sentendo la blusa bagnata e la solida mu- scolatura, e cominciò a scortarla verso la porta. La donna non oppose resi- stenza. — Ah — disse — avevo accennato a due problemi. Trumbo dominò l'impulso a sospirare. — Sì? Cordie Stumpf si fermò, si girò leggermente, infilò la mano nella borsa e la ritirò stringendo in pugno una .38 a canna lunga che piantò nelle costole di Byron Trumbo. — Questo è il secondo problema — disse piano e armò il cane. Trumbo esaminò il problema senza muoversi. — D'accordo — disse alla fine. — Come lo risolviamo? Cordie indicò con la testa la porta interna. — Entriamo lì, passiamo dalla porta posteriore e scendiamo. Lei verrà con me. Terrà la bocca chiusa. Non farà segnali ai suoi tirapiedi. Se fa il minimo gesto, se mi crea la minima difficoltà, premo il grilletto. — Si rende conto d'essere ammattita, maledizione? — Certo — rispose Cordie. Spinse la canna contro le costole del miliar- dario. — Mi guardi. Trumbo la guardò negli occhi, piccoli e slavati. In precedenza, quel mat- tino, aveva affrontato un revolver nelle mani di sua moglie offesa, ma co- nosceva i limiti dell'insanità di Caitlin. Ora non vide alcun limite in ciò che brillava negli occhi di quella donna. — D'accordo — disse. — Non le darò fastidio. Usciremo dalla porta posteriore. Solo, abbassi il cane, le spiace? — Lo abbasserò quando saremo dove siamo diretti — disse Cordie. A- veva voce stanca, piatta, ma decisa. — O quando dovrò premere il grillet- to. Trumbo si sentì accapponare la pelle, ma si girò e la precedette per la suite, passando nel corridoio interno per evitare la sala da pranzo. Cordie gli tolse dalle costole il revolver, ma solo per nasconderlo nella borsa: Trumbo sentiva la canna punzecchiarlo attraverso la paglia della borsa. Dalla porta posteriore uscirono sulla terrazza. Trumbo rivolse un cenno agli uomini della sicurezza di guardia alla porta esterna e poi a quelli di guardia all'ascensore. — Vuole che scendiamo con lei, signor T? — domandò uno di questi ul- timi, un uomo grande e grosso. Trumbo scosse la testa ed entrò nella cabina insieme con la donna. Ave- va sempre contro le costole la borsa di paglia. — Quale piano? — doman- dò. — Quinto. Trumbo rimase sorpreso: si era aspettato l'atrio. Al quinto piano, andaro- no nella suite della signora Stumpf. — Paul Kukali è ridotto proprio male — disse la donna, con la cadenza strascicata del Midwest. — L'ho lasciato con un paio dei suoi scagnozzi che l'hanno portato da un medico su al sesto piano. — Il dottor Scamahorn — disse automaticamente Trumbo. — Ha spo- stato lassù l'ìnfermeria per... — Sì — lo interruppe Cordie, aprendo la porta della suite e indicando a Trumbo di entrare. Con il raggio di una torcia elettrica spazzò la stanza, poi aprì la porta della camera da letto. Sotto la coperta hawaiana lavorata a mano c'era un corpo femminile. — Cristo — disse Trumbo toccando il polso gelido della donna. Era quell'altra ospite che aveva parlato del cane... la dottoressa Perry. Aveva la pelle così gelida che Trumbo la ritenne morta da ore, forse in mare. — Co- s'è accaduto? — domandò a Cordie Stumpf e intanto pensò: "Quel maiale del cazzo. È stato di sicuro quel maiale del cazzo". — È stato il maiale — disse stancamente Cordie, come se gli avesse let- to nel pensiero. — Ma il maiale non poteva toccarla, causa dell'ingiunzio- ne di Pele nel 1866, così ha aizzato contro di lei Pana-ewa. Trumbo la guardò come se si fosse messa a parlare in arabo. — Lasci perdere — disse Cordie, spingendolo fuori dalla stanza. — Vo- levo solo darle un'occhiata. Credo che qui non corra rischi. Quelle creature non penseranno che io torni qui. Anzi, credo che a loro di me non importi un tubo. — Creature? — ripeté Trumbo. Era irritato e frustrato perché quella pic- cola casalinga bassa e grassa lo portava in giro sotto la minaccia di una ri- voltella, mentre lui sarebbe dovuto essere di sopra a concludere l'affare con Sato; ma quello sviluppo era un'assurda ciliegina sulla surreale torta che aveva dovuto ingozzare negli ultimi giorni, al punto che ora gli procurava una sorta di bizzarro divertimento. — Lasci perdere — disse Cordie Stumpf. Nei mezzanino buio chiuse la porta e tese l'orecchio per qualche istante. Trumbo la imitò, ben consape- vole d'avere di nuovo la rivoltella puntata fra le costole. Dai piani inferiori provenivano rumori di passi veloci e una volta Trumbo credette di udire anche un basso ringhio. Cordie lo spinse verso le scale. — Cammini a passi leggeri — gli bisbi- gliò. Trumbo ubbidì: con le scarpe da basket non faceva quasi rumore. Stavolta si fermarono al pianterreno e attraversarono l'atrio buio fino al ristorante. Il locale era chiuso. — Mi auguro che lei abbia la chiave — bi- sbigliò Cordie. Qualcosa si mosse fra gli arbusti, al di là dei Buddha ingi- nocchiati in fondo all'atrio. Trumbo pensò di dire che lui non aveva nessuna chiave, ma udì il rumo- re fra gli arbusti e cambiò idea. Aprì la porta e, appena entrati nel ristoran- te, tornò a chiuderla a chiave. Servendosi del raggio della torcia, Cordie scrutò la lunga sala, ma Trumbo notò che non si distraeva mai al punto da offrirgli l'opportunità di tentare d'impadronirsi della rivoltella. Presto, si ri- promise. — Quella è la cucina? — bisbigliò Cordie, puntando il raggio contro una porta. — Sì. Cordie gli indicò di muoversi e insieme varcarono la porta a vento della cucina. Banconi d'acciaio inossidabile e armadi brillarono nel raggio della torcia. — Dispensa — bisbigliò Cordie. Trumbo la precedette; si domandò se per caso la donna non avesse una stravagante forma di bulimia che l'a- vrebbe spinta a mangiare fino a lasciarci la pelle, tenendolo sempre sotto tiro. Se ne fregava, se fosse morta... purché di sbrigasse a morire, in modo da consentirgli di tornare al ricevimento in onore di Sato. Nella dispensa Cordie cercò di accendere le luci, ma la corrente manca- va ancora. — Posso aiutarla a trovare qualcosa? — domandò Trumbo con un'oc- chiata a una fila di scatolette e altre chicche adatte a un ristorante a cinque stelle. "Arsenico?" pensò. "Vetro macinato?" Cordie esitò solo un secondo. — Pasta d'acciughe — disse, illuminando uno scaffale più in basso. Trumbo rimase sorpreso, ma quando lei agitò la canna della rivoltella ubbidì e prese un tubetto di pasta d'acciughe. — Meglio due tubetti — disse Cordie. — E quel grosso tubetto di pasta d'aglio lassù... sì, quello. Trumbo tirò giù il grosso tubetto d'aglio in pasta. Si sentì come un mari- to bistrattato dalla moglie in un supermercato. — Cosa c'è scritto in quel vasetto nero? — domandò Cordie. Trumbo si sporse a leggere nel raggio della torcia. — Marmite — disse. — Una crema spumosa usata per insaporire le carni e come integratore dietetico. Ad alcuni nostri ospiti inglesi piace spalmarla sui toast a cola- zione e... — Conosco la marmite — disse la donna. — L'ho provata a Londra, una volta. Una robaccia nera che puzza come una carogna di topo rimasta nel barattolo da un paio d'anni. E che ha un gusto ancora peggiore. Meglio prendere anche quel vasetto. "Qualsiasi panino abbia intenzione di preparare" pensò Trumbo "non lo mangio di sicuro." — Formaggio — disse Cordie, mentre si spostavano verso il frigorifero. — Senta — disse Trumbo mentre erano fermi davanti agli scaffali con i formaggi da dessert — se ha fame, torni di sopra con me e si unisca al ban- chetto... — Silenzio — disse Cordie. Fece segno muovendo la rivoltella. — Un po' di quel Limburger. E di gorgonzola. — Mi serve un coltello per tagliarli — disse Trumbo. Si girò verso la cucina. — Non faccia il furbo — disse Cordie facendogli segno di non muover- si. — Usi le mani. Meglio ancora, prenda tutta la forma di Limburger. — Peserà cinque chili — protestò Trumbo, con le mani ancora piene dei tubetti di pasta d'acciughe e di aglio, cercando di togliere dallo scaffale la puzzolente forma di Limburger. — La forza non le manca — replicò Cordie. Gli aprì la porta per farlo passare e mantenne la rivoltella puntata su di lui mentre attraversavano di nuovo il ristorante buio. Alla porta del ristorante si fermò e socchiuse il battente. — Dove, ora? — bisbigliò Trumbo. Pensò: "Se si avvicina ancora di due passi, la stordisco con questo cazzo di formaggio!". L'odore della grossa forma di Limburger gli faceva venire voglia di vomitare. Cordie udì un raspio provenire dal mezzanino del primo piano. — Pas- siamo dalle scale — disse. — Se usiamo l'ascensore, i suoi uomini scende- ranno a controllare. Si mosse per varcare la porta, si fermò. — Porco demonio — imprecò sottovoce. — Come? — disse Trumbo, reggendo col mento il tubetto di pasta d'a- glio in cima alla forma di Limburger. Il puzzo gli faceva lacrimare gli oc- chi. — Ha dimenticato il pane? Cordie scosse la testa. — Non ho una noce di cocco. — Peccato — brontolò Trumbo. — Significa che il picnic va a farsi fot- tere? Cordie non gli badò. — Dov'è la cantina dei vini? In un posto elegante come questo ci sarà di sicuro. Trumbo indicò una porta accanto alla cucina. La cantina era posta nella parete di pietra dietro la cucina; era dotata di refrigeratore elettrico ma aveva mantenuto la bassa temperatura anche in mancanza di corrente. Cordie passò da rastrelliera a rastrelliera, illuminan- do tappi ed etichette. — Qual è il vostro vino migliore? Trumbo si strinse nelle spalle. — Non ne ho idea. — Scrutò la rastrellie- ra esclusiva che Cordie illuminava in quel momento. — Quel Lafite- Rothschild del '48 vale più dollari di quanti lei non vedrà mai in vita sua. — Bene bene — disse Cordie Stumpf, togliendo dalla rastrelliera la pre- ziosa bottiglia. Prese dalla borsa un coltello multiuso dell'esercito svizzero, alzò il cavaturaccioli e disse: — Stia più indietro, laggiù. — Mentre Trum- bo si allontanava a dieci passi, schiumando di rabbia, strinse fra le ginoc- chia la bottiglia e tolse il turacciolo, con una mano sola, senza smettere di tenere Trumbo sotto tiro. — Ehi — disse il miliardario — quella bottiglia vale... — Silenzio! — Cordie liberò il turacciolo, lo annusò, annuì come un e- sperto di vini e bevve un sorso. Poi versò per terra il vino rimasto. — Cristo! — imprecò Trumbo. Era di nuovo infuriato. Si mosse per po- sare la forma di Limburger e si trovò a fissare il raggio della torcia e il mu- so nero della .38. — Oh — disse Cordie — ne voleva un poco? — Tappò la bottiglia. — La farò rinchiudere in una gabbia di matti per il resto della sua stra- maledetta vita — disse Byron Trumbo, nel tono che riservava alle più im- pegnative trattative commerciali. Cordie annuì. — Accetterò con piacere il riposo, Byron, vecchio mio. Riprenda i formaggi. — Fischiettò un pezzo di What a Friend We Have in Jesus, mentre Trumbo rialzava il carico. — Solo un attimo — disse ancora Cordie. — Secondo Paul Kukali, qui sono sparite delle persone. Forse vorrà portare anche lei una bottiglia. — Ma di che cazzo parla? — Spiriti — disse Cordie. — Operazione trasporto spiriti. Questa botti- glia serve a me. Ne prenda una, se ha qualcuno da riportare indietro. — Trasporto spiriti — ripeté Trumbo. — La più stupida cazzata che ab- bia mai senti... — S'interruppe. — Sì — disse. — Forse mi serve una bot- tiglia. — Solo una? — Cordie illuminò le rastrelliere. — Sì. Ho le mani occupate. Può prenderla per me? — Certo — disse Cordie. Prese una bottiglia, tenendolo sempre sotto ti- ro. — Non quelle costose — protestò Trumbo. — Quel Gallo da quattro soldi va benissimo. Cordie si strinse nelle spalle, prese la bottiglia di Gallo e gliela sistemò, piena, sotto il mento, insieme ai tubetti di pasta d'aglio e di pasta d'acciu- ghe. — Andiamo — disse. Presero la scala per il seminterrato. — Oh cazzo — disse Trumbo — laggiù non c'è niente, tranne... — Le catacombe — terminò per lui Cordie. — Sì, ho pensato che forse sarà più comodo, invece di camminare per un paio di chilometri nella tem- pesta. Mi sa che tutti quei condotti di lava siano collegati e sospetto che i suoi uomini siano stati divorati da qualcosa che scavava tunnel da queste parti. — Di cosa parla? — Andiamo — disse Cordie, indicando con un cenno il corridoio nero come la pece. — Col cazzo — sbottò Trumbo, arretrando verso l'angolo. — Là sotto non ci scendo. — Sì che ci scende — disse Cordie Stumpf alzando la rivoltella. Trumbo la fissò. — Dovrà spararmi — disse. — A nessun costo scen- derò... Lo sparo fu incredibilmente rumoroso nello spazio ristretto e pieno d'e- chi. La pallottola scalfì l'orecchio di Trumbo, asportando un minuscolo brandello di lobo, e rimbalzò contro le pareti di cemento del corridoio. Il rumore e il puzzo di cordite parvero riempire il mondo. Trumbo lasciò cadere i tubetti, i formaggi, il vasetto di marmite e la bot- tiglia; protese la mano, frenetico, e intanto si tastò l'orecchio ferito. — Non spari, non spari, non spari... — Non le ho fatto niente. Per il momento. Penso di poter centrare due o tre posti delicati e servirmi di lei ancora per un poco. Ora raccolga tutta la roba. Trumbo si affrettò a ubbidire. — Buon per lo spirito del suo amico che la bottiglia non si sia rotta — disse Cordie, tenendolo sotto il raggio della torcia. Trumbo emise un borbottio. — Andiamo — disse Cordie, con un gesto per indicare il tunnel buio. — Così va meglio. La risposta di Trumbo si perdette contro la forma di puzzolente Limbur- ger. — Prego? — disse Cordie. — Non ho afferrato bene. — Ho detto — replicò Trumbo — che non vedo come. Da dietro il bagliore della torcia, Cordie annunciò con voce soave: — Arrivati all'inizio della caverna, ci spoglieremo e ci spalmeremo addosso questa roba. 22 Non richiede grande fantasia immaginare che quei letti di lava siano tutti popolati di bizzarre creature, come mostri antidiluviani ricostruiti per no- stro ammaestramento nel Crystal Palace. Pare che lì ci siano creature stri- scianti d'ogni sorta: enormi lucertoloni e mostruose seppie pluritentacolate. Da Fire Fountains della signorina C.F. Gordon-Cumming, 1883 18 giugno 1866, in un villaggio senza nome sulla costa Kona M'inginocchiai accanto al corpo del reverendo Haymark, mentre la vec- chia rimaneva seduta dall'altra parte, di fronte a me. Il signor Clemens sta- va a guardare. Il dio maiale e altre indicibili creature misero a soqquadro il villaggio, per la rabbia di non poter entrare nella capanna a causa dell'ordi- ne di Pele. La vecchia mi tese la noce di cocco contenente la uhane del nostro ami- co. "Devi essere inflessibile" disse. "Lo spirito non vorrà tornare nel corpo. Si è abituato alla libertà e non vorrà essere di nuovo chiuso in gabbia. Devi prenderlo a ceffoni perché ubbidisca." "A ceffoni" ripetei. "A ceffoni" confermò la vecchia. "E poi devi ricacciarlo nel suo corpo e mantenerlo lì, finché il corpo stesso non si riscalda. Se scappa mentre cer- chi di rimetterlo nel suo corpo..." Indicò il vano della porta. "Sarà mangia- to da Kamapua'a o da Pana-ewa e tu non lo rivedrai mai più. In questo stesso momento la mia lava riempie il Mondo Sotterraneo. Fra qualche i- stante, i miei nemici dovranno andarsene da qui. Ma anche gli spiriti sa- ranno sepolti." "Prenderlo a ceffoni" dissi. Reggendo la noce di cocco diedi un'occhiata al signor Clemens, cercandone il sostegno. "Lo spirito dove ha... come fa a..." La vecchia toccò l'angolo dell'occhio del reverendo Haymark. "Questa è la lua-uhane, la "porta dell'anima". Da qui lo spirito si è diviso dal corpo... da qui Pana-ewa l'ha aspirato come tu succhieresti il latte di una noce di cocco. Lo spirito vorrà ritornare per la stessa via. Non permetterlo! Lo spi- rito deve rientrare dai piedi e deve essere costretto a risalire, fino a risiede- re da tutte le parti. Ora togli il rivestimento dei piedi del tuo kahuna." Allungai la mano verso gli stivali del reverendo Haymark, ma mi fermai, imbarazzata. Non avevo mai spogliato un uomo, non avevo neppure mai tolto gli stivali a mio padre quando era troppo brillo. Per fortuna il signor Clemens vide il mio imbarazzo e si chinò a togliere all'ecclesiastico gli alti stivali e le calze. In breve le dieci dita dei piedi del nostro amico puntarono al cielo come livide pietre tombali. Al pensiero di toccare quei piedi gelidi, morti, mi venne la pelle d'oca. La vecchia mi posò sulla testa e sulla spalla le forti mani. "Da questo momento sei consacrata sacerdotessa di Pele" disse, col tono di chi canti una salmodia. "Ti unisci alla confraternita di stregoneria per Pele. Tu parli per Pele. Metterò nella tua mente le parole. La tua voce sarà la mia voce. Le tue mani, le mie mani. Il tuo cuore, il mio cuore. Pele ha parlato." In quell'istante sentii una forte scossa, come se un fulmine m'avesse col- pito. La mia stanchezza svanì. Il potere parve scorrermi dalla punta delle dita. Guardai il signor Clemens e nei suoi occhi sgranati lessi che il mio stesso viso era cambiato e forse rivelava il bagliore d'energia e di com- prensione che sentivo in quel momento. Stappai la noce di cocco. Lo spirito del reverendo Haymark ne fluì come densa, grigia melassa, prima raccogliendosi in una pozza a terra, poi le- vandosi in forma umana. Mentre si rapprendeva, mi alzai accanto a lui. La cantilena della vecchia divenne un remoto rumore di sottofondo... o forse esisteva solo nella mia mente. Non so. Quando il fantasma acquistò forma umana s'increspò come fumo distur- bato da una lieve brezza e cominciò a spostarsi verso la porta. Non ebbi bi- sogno delle raccomandazioni della vecchia per sapere che cosa dovevo fa- re. In piedi fra il vano della porta e lo spirito del reverendo Haymark, presi a ceffoni quella forma ectoplasmatica: le mie dita incontrarono qualcosa, ma scivolarono nella nebbiosa figura. Lo spirito tornò indietro, ma la sua metà inferiore perdette la forma u- mana e cominciò a roteare e turbinare come un ciclone, cercando l'angolo degli occhi del corpo disteso. Senza delicatezza lo allontanai a ceffoni. Scoprii di poter afferrare lo spirito e allora lo presi per le spalle e lo trascinai verso i piedi scalzi del corpo. A quel punto lo spirito aveva quasi perduto la forma umana e sentii che le mie mani stringevano una nebbia tangibile. Premetti quella nebbia contro i piedi e sulle prime trovai resistenza; ma poi sentii la resistenza piegarsi, cedere, e alla fine sentii la penetrazione osmotica nelle piante dei piedi, nude e vulnerabili. Dava un poco l'impressione di spingere una den- sa crema in un filtro sottile. Lo spirito resistette un momento e senza volerlo alcune parole mi giun- sero alle labbra. Iniziai a salmodiare: O cima del Kilauea! O cinque soglie dell'abisso! Il fuoco kapu della donna. Quando i cieli si scuotono, quando la terra si fende, l'uomo è abbattuto, giace disteso al suolo. Il fulmine di Kane si desta. Kane della notte, che va veloce. Il mio sonno è interrotto. E ala e! Sveglia! Il cielo si sveglia. La terra isola è sveglia. Il mare è sveglio. Svegliati! Io sono qui. In quel momento la terra tremò e la capanna ondeggiò avanti e indietro come il gonnellino d'erba di una fanciulla indigena in una delle loro danze sensuali. Udii forti scricchiolii e brontolii, non so se dovuti a terremoto, a fulmini o a tutt'e due le cose. Il signor Clemens fu gettato ginocchioni, ma non distolse mai lo sguardo dalla lotta tra lo spirito del reverendo Haymark e me. Chissà come, in quell'istante seppi che Pana-ewa, Kamapua'a e gli altri nostri antagonisti erano stati scacciati lontano da lì e che il Mondo Sotterraneo di Milu era stato sigillato da colate di lava. Mi concentrai sul mio compito. Gocce di sudore mi colarono dal naso e dal mento mentre costringevo lo spirito a risalire le gambe del reverendo fino alle cosce. Qui la lotta divenne più intensa, come se lo spirito odiasse risalire negli organi vitali per consentire al corpo di respirare e vivere di nuovo. Allungai la mano alle mie spalle, come se sapessi che la vecchia reggeva una brocca di terracotta. E infatti trovai la brocca. Versai l'acqua sul corpo e intanto salmodiai: Ti faccio crescere, o Kane! lo, Lorena Stewart, sono la profetessa. Pele è la dea. Quest'opera è sua. Lei fa crescere. Ecco l'acqua della vita. E ala e! Sveglia! Sorgi! La vita ritorna. Il kapu di morte è finito. È stato alzato, È volato via. All'improvviso lo spirito recalcitrante smise di recalcitrare e scivolò fa- cilmente verso l'alto, mentre io schiaffeggiavo e massaggiavo i fianchi e il ventre del missionario morto. Sempre massaggiando spinsi lo spirito nelle braccia inerti e schiaffeggiai le dita, finché non sentii tornarvi il calore. Strofinai infine il robusto collo e le mascelle e posi le mie dita rilucenti sul viso e sulla testa del morto. L'attimo dopo mi lasciai cadere seduta, a un tratto di nuovo esausta, per- ché la divina energia era rifluita da me con tale repentinità da spingermi a toccarmi l'angolo degli occhi per assicurarmi che la mia stessa uhane non fuggisse via. Il reverendo Haymark emise versi soffocati e poi aprì gli occhi. Mosse le labbra. Iniziò a respirare. Credo che il signor Clemens mi abbia afferrata al volo mentre perdevo i sensi. Nell'ufficio in rovina dell'astronomo, Cordie passò il raggio della torcia elettrica sulla parete abbattuta e sulla caverna buia, guardò il sangue che imbrattava pavimento, parete e soffitto, arretrò di un passo e disse: — Be- ne bene, è tempo che si tolga i vestiti. — Se lo scordi — disse Byron Trumbo. Anziché sottomettersi a quella indegnità, pensò, sarebbe saltato addosso a quella puttana. Cordie sospirò con aria stanca e alzò la rivoltella. — Dove lo vuole, al- lora? Nella coscia o in quella gomma di scorta che si porta appresso? In ogni caso, voglio che lei possa camminare. — Ferma a distanza di sicurez- za, armò il cane. Mentre si sbottonava la camicia, Trumbo cominciò a imprecare. Arrivato alla biancheria aveva usato tutte le parolacce imparate nella sua vita pitto- resca e aveva iniziato a improvvisarne di nuove. Dietro la torcia, anche Cordie si svestiva. Rimasto in calzini, mentre l'altra aveva solo la rivoltel- la, la torcia e la borsa, Trumbo disse: — E ora? Mi stupra? — La prego, ho mangiato solo da un paio d'ore — replicò Cordie. — Si tolga i calzini. — Se andiamo laggiù, le pietre mi taglieranno i piedi — protestò Trum- bo. Sentì nella propria voce un qualcosa che aveva l'aria di un nauseante piagnucolio. Cordie si strinse nelle spalle. — Gli spiriti là dentro non portano calzini. Dobbiamo uniformarci, penso. Se li tolga. Trumbo digrignò i denti e si tolse i calzini. — Non lascia la borsa? Pen- sa che gli spiriti portino borse? — Non me ne frega un fico secco. Mi serve per portare la mia roba. Non abbandono il diario di Kidder. — Il diario di chi? — Lasci perdere. Ora dobbiamo profumarci. Prima lei. Cominci pure con l'aglio. I minuti seguenti furono un'esperienza che non si avvicinava nemmeno lontanamente a tutto ciò che Trumbo aveva provato in vita sua. Sotto lo sguardo dell'unico occhio della rivoltella si spalmò addosso l'aglio semili- quido e poi la pasta d'acciughe. Il puzzo gli provocò conati di vomito. — Ora il formaggio — disse Cordie cospargendosi di aglio, ma tenendo sempre ben ferma la rivoltella. — Che cazzo! — ringhiò Trumbo. Cominciò a sbriciolare formaggio. — Non attaccherà. — Attaccherà. Continui a spalmarsi. Trumbo ubbidì. Il pungente Limburger gli impiastricciò il petto. Minuz- zoli si raccolsero sotto le ascelle e caddero sui peli del pube. Trumbo si sfregò le gambe con manciate di briciole puzzolenti. — Ottimo — disse Cordie. Prese il formaggio rimasto e si strofinò tutto il corpo. Trumbo cercò di non guardare quel corpo. Da quando aveva ammuc- chiato il suo primo milione di dollari le donne che aveva scelto di guardare nude avevano un fisico attraente, il più vicino alla perfezione che gli riu- sciva di comprare. Guardare quei seni piccoli e cascanti, la cellulite sulle natiche, i fianchi grassi, le due cicatrici parallele sul ventre, le gambe toz- ze, gli ricordava sua madre e la morte e tutte quelle cose che pensava di potersi lasciare per sempre alle spalle. All'improvviso si sentì sul punto di piangere. Cordie non badò alle sue occhiate. — Ora la marmite — disse. — Si spalmi il viso e i capelli. Trumbo aprì il vasetto e in quel momento rischiò di rimettere la cena. Non solo per il lezzo putrido di quella crema scura, ma anche per come si mischiava agli altri odori puzzolenti che salivano dalla sua pelle. Soffo- cando con la pura forza di volontà i conati di vomito, si spalmò ditate di marmite fra i capelli ormai radi e dietro le orecchie. — Vomiti pure, se ne ha voglia — disse a un certo punto Cordie. — Co- sì il puzzo aumenta. Trumbo non raccolse il suggerimento. — Perché cazzo lo facciamo? — domandò, passandole il vasetto di marmite. Quella vacca, notò, teneva la rivoltella fuori portata. — È tutto nel diario di Kidder — rispose Cordie impiastrandosi i capelli. — Agli spiriti non piacciono i cattivi odori. Guardano dall'altra parte. Se sapessero che siamo ancora vivi ci assalirebbero e ci ruberebbero lo spiri- to, come ha fatto Pana-ewa alla povera Nell. — Gettò via il vasetto vuoto. — Mi dispiace di non avere preso anche aringhe in salamoia. E cibo per gatti. Di quello in scatola. Il Puss'N'Boots sarebbe l'ideale. Quando ho avu- to un gatto, quella roba mi ha sempre fatto venire da vomitare. — Lei è il tipo adatto ad attestarlo — disse Byron Trumbo a denti stretti. Cordie annuì. — Bene, andiamo. — Indicò il buco nella parete. — Si aspetta che venga a spasso con lei nei condotti di lava finché non incontriamo gli spiriti? — Il piano è questo — rispose Cordie togliendosi un grumo di marmite da una ciocca che le penzolava davanti agli occhi. — Perché proprio io? — Le regole dicono che occorre un uomo. Lei era disponibile. Mi spiace che sia così, ma è così. E la vita. Trumbo soppesò per un momento quel brandello di filosofia e tese i mu- scoli, preparandosi a balzare alla gola della donnetta. — Non ci pensi nemmeno, Byron — disse Cordie tenendo pronta la ri- voltella. Trumbo strinse i pugni e scavalcò le macerie della parete. — Non ci si vede un cazzo — disse suscitando una lieve eco. — Arrivo — disse Cordie. Sopra e fuori, nella terra, nel cielo e nel profondo del mare, la battaglia infuria. Il vulcano Mauna Loa si alza a ben 4376 metri sul livello del mare, ma sotto le onde la massa della montagna si estende per altri seimila metri sul fondo dell'oceano. Se l'oceano fosse prosciugato, il Mauna Loa arriverebbe a diecimila metri, la vetta più alta del pianeta. Il Kilauea, ora in piena eru- zione come il più alto Mauna Loa, non si limiterebbe ai suoi modesti 1300 metri ma si rivelerebbe il cono vulcanico di settemila metri che è in realtà. Ora, dal serbatoio permanente di magma in ebollizione a più di dieci chi- lometri sotto la vetta del Mauna Loa, forze interne spingono verso l'alto grandi masse di lava attraverso roccia così permeata di fessure da sembrare una gigantesca spugna. Questa eiezione di fiamma fusa è così potente da provocare terremoti in tutta l'Isola Grande e fino a più di cinquanta chilo- metri nel mare aperto. Nel villaggio turistico Mauna Pele le scosse sono abbastanza forti da far correre all'aperto i giapponesi, pur abituati ai terremoti, mentre Will Bryant tenta di mettersi in contatto, tramite telefono cellulare o radio, con il suo capo o con il dottor Hastings all'osservatorio. Né l'uno né l'altro rispondo- no. All'Osservatorio Vulcano, Hastings e una ventina di altri scienziati tengono d'occhio gli strumenti che registrano il terremoto più intenso dal 1935 e le più intense eruzioni simultanee del Mauna Loa e del Kilauea da quando, nel 1832, sull'isola gli scienziati hanno iniziato a fare quei control- li. Lungo la zona di faglia di sudovest, dove ora sorge il Mauna Pele, in meno di dieci minuti si registrano più di dieci nuove eruzioni laterali, men- tre la tremenda pressione che sale alla caldera del Mauna Loa fuoriesce lungo linee di faglia da tempo fredde e spente. Anche se non raggiunge una forza esplosiva nell'ambito di venti megatoni come l'eruzione del St. Helen nello Stato di Washington nel 1980 o quella del Nevada del Ruiz in Colombia nel 1985, che causò più di 23.000 vittime, questa eruzione late- rale è abbastanza potente da generare, lungo i pendii di sudovest del Mau- na Loa, innumerevoli zampilli di lava, alcuni dei quali giungono a seicento metri d'altezza. Gas di temperatura superiore ai 1100 gradi vengono espulsi lungo la fen- ditura di venti chilometri e grandi nubi di vapore solforoso si alzano fra le fiamme e le colate di lava. Decine di migliaia di filamenti silicei, i "capelli di Pele", vanno alla deriva sulle correnti ascensionali d'aria surriscaldata e si posano sulle foreste tropicali e sui campi di felci. Frammenti di roccia sono scagliati a chilometri di distanza e i più pesanti ricadono nelle vici- nanze della fenditura, ma i lapilli più leggeri giungono a centinaia di chi- lometri sul mare, a causa delle risultanti nubi di ceneri. Per tutta la zona di faglia di sudovest che corre fin nel mare, antichi con- dotti di lava si riempiono di magma. A partire dai quattromila metri e giù fino al mare, la roccia resa porosa da decine di migliaia d'anni di raffredda- mento e di spostamento viene all'improvviso riempita di lava e scossa dal terremoto. Roccia satura d'acqua, alcuni chilometri sopra il serbatoio di la- va, esplode in un istante di calore intensissimo. Nubi di vapore gareggiano con nubi di gas sulfureo, mentre le esplosioni si susseguono lungo i venti chilometri della zona di faglia, come una filza di gigantesche castagnole. Più di 700.000 metri cubici di lava sono in movimento e stabiliscono il nuovo record dell'osservatorio Vulcano. Davanti a questa colata laterale, le foreste bruciano. La strade statali scompaiono sotto fiumi di lava alti dieci metri che si muovono più veloce- mente di quanto un uomo non possa correre. Case vengono vaporizzate. Automobili e camioncini abbandonati si alzano come giocattoli sui fiumi di lava e sono trasportati a cinquanta all'ora, mentre la vernice si trasforma in un istante in gas tossico, l'interno s'incendia e il serbatoio scoppia, in un secondario contrappunto degli zampilli di lava lungo tutta la colata. Per contrasto, la perturbazione tropicale di Kamapua'a si abbatte sulla costa fiammeggiante come il getto di una manichetta da giardino rivolto contro un esteso incendio. Il vapore si leva in diecimila punti, dove i rove- sci monsonici incontrano lo straripamento dei condotti di lava, ma la sem- plice acqua piovana impiegherebbe millenni a prevalere sulla roccia fusa che sfrigola a più di mille gradi. Uno tsunami potrebbe estinguere in parte le fiamme, ma Pele ha pianificato le eruzioni di questa notte in modo che, se da una parte si verificano tremende scosse telluriche, dall'altra non si crea alcuno tsunami. Onde alte sei metri si abbattono contro le scogliere ardenti, ma la gigantesca onda di marea non arriva. Secondo la millenaria strategia di Kamapua'a, migliaia di maiali selvatici si scatenano sulla terra per mangiare cespugli e vegetazione, negando a Pe- le il combustibile per i suoi fuochi. Gran parte di questi maiali muore nei primi trenta minuti della nuova eruzione laterale, inghiottiti da rivoli di la- va opportunamente disseminati. Fra il puzzo sulfureo e il ruggito del vapo- re, la notte si riempie del profumo di maiale arrosto dei luau, i tipici ban- chetti hawaiani. Fermo nel vano della porta del salone della suite presidenziale del Mau- na Pele, Hiroshe Sato guarda i tentacoli di lava aprirsi la strada verso il mare a meno di cinquecento metri a sud del villaggio e mormora tra sé. — Melda santa! — continua a ripetere. — Ci stiamo avvicinando — disse Cordie. I tunnel avevano dato l'impressione di estendersi per chilometri, ogni condotto di lava si congiungeva a un altro, e alla fine Cordie e il miliarda- rio avevano perso l'orientamento. Tutt'e due si erano aspettati di giungere al mare da un momento all'altro, o di ruzzolare nella caldera del vulcano. Invece erano giunti a un punto dove le pareti cominciavano a emettere una debole luce. — Questo è un buon segno — disse Cordie, con un colpetto alla borsa di paglia che portava sulla spalla nuda. — Il diario di Kidder dice che nella terra degli spiriti ogni cosa riluce. — Magnifico — commentò Trumbo. Aveva i piedi scorticati, la pelle accapponata a causa della poltiglia puzzolente che era stato costretto a spalmarsi addosso. Quattro o cinque volte erano stati sbattuti per terra da scosse di terremoto che avevano fatto cadere dal soffitto del condotto di lava frammenti di roccia e polvere. Trumbo aveva il terrore che da un momento all'altro un fiume di lava fusa si riversasse su di loro. — La terra degli spiriti — soggiunse. — Semplicemente magnifico. Gli spiriti, quando infine li trovarono, furono una mezza delusione. Sa- gome rilucenti, quasi trasparenti, quasi di forma umana, si movevano a coppie e a piccoli gruppi. La caverna divenne più larga e centinaia di spiri- ti furono visibili: facevano partite, se ne stavano distesi, mangiavano poi, giocavano d'azzardo. — Proprio come nel libro — disse Cordie. Alcuni si avvicinarono, librati a mezz'aria, e poi cambiarono strada ap- pena giunti a portata del puzzo. Trumbo non li biasimò. Cordie, rivoltella abbassata, si accostò a Trumbo e gli mormorò all'orec- chio: — D'ora in poi dobbiamo fare silenzio. Loro non parlano. O, se par- lano, le nostre orecchie non sentono niente. Trumbo annuì, pensando che avrebbe potuto afferrarla per il braccio e strapparle la rivoltella. "A quale scopo?" si disse. "Dobbiamo prendere ciò per cui siamo venuti e filarcela di corsa." Suo malgrado, aveva cominciato a provare una certa ammirazione per quella coraggiosa donnetta che si era abituato a vedere nuda. Si rese conto che la donna era più muscoli che grasso e che dietro quei suoi occhietti brillava una forza di volontà più ar- dente della lava che presto probabilmente li avrebbe consumati. Al diavo- lo, si disse, tutti devono morire. Sarebbe stata una morte inconsueta. Pro- vava solo dispiacere per non avere concluso l'affare riguardante il Mauna Pele. Se doveva morire, avrebbe preferito morire con l'accordo concluso. Gli spiriti continuarono i loro giochi, i loro passatempi, le loro silenziose conversazioni. Tutti, maschi e femmine, erano nudi; si vedevano pochi bambini. "Se questa è la vita dopo la morte" pensò Trumbo "ci rinuncio. Pare un venerdì sera a Filadelfia." — Là! — gli bisbigliò Cordie all'orecchio. Trumbo impiegò quasi un minuto a vedere ciò che Cordie indicava. Poi li notò, in una caverna laterale: alcuni spiriti che parevano più haole degli altri. Impiegò un altro minuto a capire che cosa facessero: gli spiriti di Dil- lon e di Fredrickson e della sua ex guardia del corpo, Briggs, giocavano a dadi (dadi invisibili) con tre tizi bassi e tarchiati che avevano l'aria di commercianti d'auto del New Jersey. Uno di questi pareva monco. Lo spi- rito di Sunny Takahashi pareva scommettere da fuori, con denaro invisibi- le. Altri, con aria di turisti, usavano invisibili mazze da golf o mangiavano cibo invisibile a tavoli invisibili. L'ex astronomo del Mauna Pele leggeva una rivista invisibile, mentre altri due tipi di mezz'età guardavano invisibili televisori e, spazientiti, con invisibili telecomandi cambiavano canale. Lo spirito di Eleanor Perry se ne stava da solo e vagava qua e là come se cercasse la via per uscire. — Nell — bisbigliò Cordie e attraversò la caverna per raggiungerla. Im- piegò meno di un minuto a stappare la bottiglia e a farvi entrare lo spirito. La bottiglia parve piena di fumo. — Tocchi gli altri — bisbigliò Cordie a Trumbo — e loro la seguiranno fuori. Ma dovrà catturare quelli che vuole rimettere nel proprio corpo, pen- so. — Diede a Trumbo l'altra bottiglia. Trumbo esitò. Briggs e Fredrickson l'avevano servito bene. Dillon non era stato ucciso, a quanto pareva, solo derubato dell'anima. L'astronomo e gli altri dipendenti non avevano meritato la loro sorte. Il ritorno di Sunny Takahashi significava denaro. Trumbo prese la bottiglia e vi infilò Sunny. Non fu impresa difficile co- me aveva ritenuto. Per tutto il tempo, comunque, lo spirito di Dillon svo- lazzò intorno a lui come mosca noiosa. Alla fine Trumbo cedette e stappò la bottiglia. — Senti — bisbigliò — se c'è spazio, per me va bene lo stes- so... — Lo spirito scivolò come acqua dentro la bottiglia. Trumbo infilò nella borsa di Cordie la bottiglia che ora pareva piena di fumo. — Andiamocene, cazzo — bisbigliò, sapendo bene che non avreb- bero mai ritrovato la via per uscire dalla parte da dove erano venuti. Cordie annuì e si girò. Lei e Trumbo impietrirono. Kamapua'a bloccava loro la strada. Il gigantesco verro ghignava. 23 giugno 1866, a bordo della U.S.S. Boomerang Ho riletto le annotazioni scribacchiate in fretta meno d'una settimana fa e non riesco a credere a ciò che ho scritto. Quelle parole e quegli eventi appartengono a una persona diversa, a una vita diversa. La nave a vapore ha appena lasciato il molo di Kona-Kawaihae per il suo lento viaggio a Lahaina, dove conto d'incontrare certi amici e di prendermi una settimana di riposo nella loro piantagione sull'altopiano, prima di proseguire per Ho- nolulu e da lì per l'Oriente sul vapore postale transoceanico Costa Rica. Il signor Clemens e il reverendo Haymark sono partiti ieri per Honolulu sul postale Kilauea che fa servìzio fra le isole: il reverendo Haymark per tor- nare alla missione di Ohau e il signor Clemens per tornare in California. Quest'ultimo ha prenotato un posto sulla nave a vela Smyrniote e mi ha in- formato d'essere assolutamente fiducioso di raggiungere San Francisco, perché nessuna nave con questo nome sarebbe ben accolta in fondo al re- gno di Nettuno. Delle ore e dei giorni immediatamente successivi al salvataggio del re- verendo Haymark ho ricordi vaghi e confusi nel migliore dei casi. Non rammento neppure d'avere vergato sul mio diario quelle fantastiche righe che precedono le presenti annotazioni. Gli eventi riguardanti la resurrezio- ne del nostro compagno paiono un sogno... no, trascendono un sogno: sono distaccati, come accaduti al personaggio d'un romanzo. Ricordo il nostro arrivo a Kona. Ricordo la proposta di matrimonio che il signor Clemens mi ha fatto due sere fa, mentre sul ponte ammiravamo il tramonto. Ricordo d'averla declinata. Il mio amico ne ha patito. Io patisco per lui. Ricordo d'essermi tolta il guanto e d'avergli accarezzato la guancia. "Posso chiederle perché non può prendere in considerazione la mia offerta, signorina Stewart?" mi domandò lui, in tono formale, con il dispiacere che traspariva dalla voce." Sam" dissi sottovoce. Fu l'unica volta che lo chiamai o l'avrei mai chiamato per nome. "Non è che non mi piaccia sposarla... o che non le voglia bene... è solo che non posso sposarla!" Lessi la confusione sul suo viso. "Quando quella vecchia mi ha toccato" cominciai, pur sapendo che non sarei riuscita a spiegarmi "ho sentito... qualcosa. Il mio destino. Devo viaggiare e scrivere e farmi un nome, per quanto piccolo, ma la cosa non sarebbe possibile se divenissi la moglie di Samuel Langhorne Clemens." Gli sorrisi. "E neppure la moglie del signor Thomas Jefferson Snodgrass o del signor Mark Twain." Il mio amico corrispondente, e leale compagno d'avventura, non ricam- biò il sorriso. "Non capisco" disse, "lo voglio scrivere. Voglio viaggiare. Ho già presentato al mio giornale la proposta di girare per il mondo e di trasmettere il genere di corrispondenze che ho scritto qui nelle isole San- dwich. Perché non potremmo trarre diletto insieme da questi viaggi, pur perseguendo le nostre diverse professioni, signorina Stewart?" Potei solo sospirare. Come spiegare a quel giovanotto bello e coraggioso che lui era un uomo, che per lui tutto era possibile, mentre io ero una don- na e dovevo rendere possibili le cose che desideravo avere. Però riconosco che in quel secondo desiderai averlo per me. Samuel. Il mio coraggioso compagno. Il mio amato. "L'amerò per sempre" continuò lui, mentre il sole sprofondava sotto la linea piatta della terra, in direzione dell'Estremo Oriente. "Non sposerò mai nessun'altra." Gli accarezzai di nuovo la guancia. Come spiegargli che ero sicura, che sapevo, che il destino da lui descritto come proprio sarebbe stato il mio, mentre lui quasi certamente avrebbe scelto un'altra nel giro di poco tempo. La sua necessità di compagnia era tangibile come il morbido contatto della sua guancia contro la palma della mia mano. Mi rendo conto di soffermarmi su queste vicende personali a detrimento della descrizione dell'inesauribile stupore del reverendo Haymark per il fatto d'essere vivo o del nostro fantastico viaggio a piedi su per la costa Kona fra gli incendi e i terremoti o dell'eguale stupore degli abitanti cri- stiani di Kona e di Kawaihae nel vedere che eravamo sopravvissuti. Per tacito accordo nessuno di noi parlò della nostra avventura. Né vi fu accenno a Pele o a verri parlanti o al Regno degli Spiriti di Milu. Le isole Sandwich non hanno ancora manicomi, non esistono case di cura ufficiali, ma esistono vari luoghi isolati dove avrebbero potuto abbandonarci se a- vessimo parlato in pubblico di simili cose. Non mi sento di scrivere delle ore e dei giorni dopo la resurrezione e il nostro ritorno. Dirò solo quanto mi sentii orbata, quando tornai in quella capanna di frasche e scoprii che la vecchia era scomparsa. Sapevo che sa- rei stata legata a lei per il resto della mia vita, anzi, sospetto che i miei di- scendenti, quanto meno le mie discendenti, condivideranno questo legame per le generazioni a venire. Piansi la sua scomparsa. Ho pianto ieri la partenza dell'unico amore della mia vita. Il signor Cle- mens e io ci stringemmo la mano, sul ponte, in modo del tutto formale, sotto gli occhi del reverendo Haymark e delle decine di astanti. Ma vidi l'emozione negli occhi del signor Clemens. Confido che lui abbia visto le lacrime nei miei. Ho le lacrime agli occhi anche in questo momento. Non lo sopporto. Smetterò di scrivere finché non avrò ripreso il controllo di me stessa. Uno scarafaggio grosso come un cucchiaio da tavola è appena passato dal cuscino della mia cuccetta a quel pezzo di lana grezza che chiamano coperta. Mi guarda con occhietti luccicanti: intuisce che ho paura degli scarafaggi e che non posso costringermi a toccarli. Si sbaglia. Ho affrontato occhi più luccicanti dei suoi e avversari più fe- roci. I minuti e i secondi di quell'insetto ripugnante sono già contati. La libertà dalla paura è una cosa esilarante, più intensa del whisky, e an- nuncia male per gli scarafaggi, qui e in qualsiasi altra parte di questo vasto mondo. — Byron — disse il verro — sei davvero gentile a farmi visita. — Spin- se il gnigno in direzione di Cordie. — È un'offerta per me? Trumbo diede un'occhiata a Cordie e tornò a guardare il verro. — Certo — rispose. Il verro ridacchiò di gola. — Fra un momento la mangio. Prima gli affa- ri. Trumbo attese. — Ho visto che hai preso da te l'anima di Sunny — proseguì Kamapua- 'a. Trumbo scrollò le spalle. — Pareva a disposizione. Il verro mostruoso emise un brontolio che era forse una risatina. — Be- ne, bene. Ma c'è ancora un prezzo. — La mia anima? — domandò il miliardario. — Chi se ne frega della tua anima! Parlo di uno scambio. Trumbo aggrottò le sopracciglia, ma rimase in silenzio. — Appena sconfiggo quella puttana di Pele e riprendo il controllo di quest'isola — proseguì Kamapua'a — conto di assumere forma umana per una ventina d'anni. Sarò di nuovo libero di vagare sulla terra. Dalla mia cella sotterranea ho visto come sono cambiate le cose sulla superficie. In forma mortale, potrei essere di nuovo il capo di una di queste tribù, ma ho altri piani. — Uno scambio — disse Trumbo. Il verro allargò il sorriso. — Precisamente. — Avanzò di due passi, con un'eco di zoccoli sul basalto. Cordie poteva vedere il velo di umidità sul largo ghigno e sentire il tiepido soffio del suo alito. — Possiamo fare un accordo, Byron — proseguì il verro in un bisbiglio da cospiratore, da uomo a uomo. — Tu e io. — Perché dovrei? — replicò Trumbo. Il verro si avvicinò di un altro passo. Il suo respiro puzzava in maniera insopportabile. — Perché altrimenti ti divoro le viscere e le ossa e mando per l'eternità la tua miserabile anima nell'angolo più schifoso di questa ca- verna — disse il verro alzando la voce da basso. — Va bene — disse Trumbo. — Ti ascolto. Il verro arretrò di mezzo passo. — Tu riporti ai giapponesi l'inutile pic- cola uhane di Sunny, concludi l'accordo e ti becchi i trecento milioni di dollari. Poi torni qui e facciamo lo scambio. — Che genere di scambio? Vuoi il denaro? Il verro grugnì. — I miserabili kahuna ci hanno evocati perché ti di- struggessimo — disse. — Ma non avevamo nessuna intenzione di farlo. Io voglio distruggere Pele. Tu e io siamo simili, Byron. Siamo nati per domi- nare. Nati per sottomettere... le donne... la terra. Capisco il tuo impulso a spianare e a stuprare. Lo capisco bene. Non voglio il tuo denaro. Trumbo annuì, pensieroso, per un momento. — Ancora non vedo quale sarebbe lo scambio — disse infine. Kamapua'a gli sogghignò. Aveva occhi brillanti. — Ci scambiamo di po- sto per un poco, Byron, amico mio. Io divento te. Tu diventi me. Trumbo rimase impassibile. — Fammi capire bene... l'accordo che mi offri è uno scambio di persona? Tu prendi il mio corpo e io prendo il tuo? Il verro annuì. — Tu diventi un bel miliardario con case e donne in tre continenti — continuò Byron Trumbo — e io trascorro una ventina d'anni come un e- norme e puzzolente maiale in una caverna di Hawaii. È questo, l'accordo? Kamapua'a mantenne il sogghigno. — L'accordo è questo, Byron. Trumbo annuì. — E perché cazzo dovrei essere interessato a un accordo del genere? — Primo — grugnì il verro con quella voce che pareva provenire dal ventre — ti sarà permesso di vivere. Non ti divorerò viscere e ossa. Secon- do, ti garantisco che nei quindici o venti anni in cui occuperò il tuo corpo porterò il tuo impero finanziario a livelli mai visti prima su questa terra. Tu scendi qua come un uomo in rovina, un uomo che cerca disperatamente di raddrizzare il suo traballante impero mediante la vendita di questo misera- bile albergo per poche centinaia di milioni di dollari. Quando tornerai nel tuo corpo, possederai il mondo, Byron Trumbo. E non per modo di dire. — Finirò per possedere il mondo se rimango nel mio corpo — disse Trumbo. Il verro grugnì. — Terzo — continuò come se Byron non avesse parlato — mentre sei re del Mondo Sotterraneo, avrai potere illimitato sugli spiriti e sui demoni di questo mondo. Avrai potere sopra gli elementi esterni, co- manderai il fulmine e le maree e i grandi tsunami. Assaporerai un potere che nemmeno ti sogni. Trumbo si massaggiò la guancia. — Avrò tutti i poteri che tu hai adesso? Kamapua'a scosse la grossa testa irsuta. — Non sono un idiota, Byron. Se tu avessi tutti i miei poteri potresti cancellare l'accordo in qualsiasi momento e diventeresti il re del mondo superiore. No, mentre sto nel tuo corpo avrò bisogno della maggior parte dei miei poteri e li userò per ren- derti ricco e famoso al di là dei tuoi sogni più sfrenati. Ma ti garantisco che essere Kamapua'a, signore del Mondo Sotterraneo e di tutto ciò che lui controlla, sarà il culmine della tua vita. E, come dico, quando tornerai nella tua forma mortale erediterai le ricchezze e il potere che avrò ammassato per te. — E se decidi di restare per sempre in forma umana? — domandò Trumbo. — No, no, no — grugnì il verro. — La tua forma umana è accettabile, ma è mortale. Non ho nessuna voglia di morire. Sono un dio. — Questo è un altro punto — disse Trumbo. — Il mio corpo sarà vec- chio, se vi subentri per vent'anni... da sessantenne. Nella fioca luce i denti del verro balenarono in un viscido sorriso. — Al- l'apice del tuo potere, Byron. Tratterò la tua forma mortale con cura molto maggiore di quanto non faccia tu adesso. Sarà in perfetto ordine, messa a punto a livello combattivo... in fin dei conti sarei deluso se tu rovinassi l'impero che costruirò per te. E non dimenticare che il breve periodo come dio ti preparerà per imprese più grandi di quelle che un mortale abbia mai realizzato sulla terra. — Allora è tutto? — disse Trumbo. — L'accordo è questo? — L'accordo è questo — confermò Kamapua'a. — Se dici no, muori qui, subito, e la tua anima marcirà qua sotto per l'eternità. Se dici sì, ottieni po- tere illimitato e ricchezza e assaggi la magnificenza di essere un dio. Cosa dici, Byron Trumbo? Trumbo parve immerso nei propri pensieri per un bel pezzo. Poi alzò gli occhi, con aria decisa. — Bene — rispose. — Se la metti in questo modo, dico: vaffanculo! Cordie non avrebbe mai immaginato che il muso di un verro potesse mo- strare stupore. Quel verro si mostrò stupito. — Vaffanculo tu e la scrofa che ti ha portato a spasso — continuò Trumbo per buona misura. Il gigantesco maiale mugghiò, con un ruggito che echeggiò contro il sof- fitto del condotto di lava. — Perché hai gettato via tutto per rifiutare, mor- tale? Byron Trumbo scrollò le spalle. — Non mi è mai piaciuta la pancetta af- fumicata. Il verro mostrò i grossi denti. — Mi divertirò un mondo a divorarvi tutt'e due — grugnì. — E poi vi divorerò lo spirito. — Guarda! — esclamò Cordie, indicando al di là del verro. Il mostro diede un'occhiata da sopra l'ispida schiena. La giovane hawaia- na ferma a venti passi non era uno spirito, pareva una bella fanciulla più che una giovane donna, ma aveva occhi neri, ardenti, duri. Kamapua'a sbuffò. — Sparisci, puttana — disse a Pele. — Qui non hai alcun potere. Questo è il mio regno. E questi due mortali sono la mia cena. La giovane hawaiana non si mosse, non batté ciglio. — Ora — disse Kamapua'a riportando l'attenzione su Trumbo e su Cor- die — morite. La mostruosa figura trotterellò verso di loro sulle corte zampe da maiale. Cordie si pose fra Trumbo e quella muraglia di carne, frugò nella borsa, e- strasse la rivoltella. Armò il cane proprio mentre il verro grugniva una ri- sata. — Hai voglia di scherzare — disse in un brontolio. Agitò il gnigno e la rivoltella volò via dalle mani di Cordie, sbatté rumorosamente contro la parete della caverna. Il verro puntò su Cordie: il muso e i denti riempirono il campo visivo della donna. Una scossa di terremoto scagliò sul pavimento di basalto Cordie e Trumbo. Perfino il gigantesco verrò si fermò e raccolse le forze puntandosi sui piccoli zoccoli. Girò la testa e rivolse un ringhio alla silenziosa ha- waiana. — Maledizione a te, brutta troia. Qui non hai potere, ti ripeto. Me la vedo con te fra un secondo. Byron Trumbo e Cordie udirono il rombo ancora prima di sentire il calo- re. Qualcosa si precipitava verso di loro lungo il condotto, con la velocità e il frastuono di un treno merci. All'improvviso un bagliore arancione illu- minò le pareti. — Lava! — gridò Trumbo e si girò per fuggire. Non c'era tempo. Kamapua'a scoppiò a ridere e girò la schiena a Pele. — Fai come vuoi, puttana. Moriranno sotto i miei denti, prima che il tuo misero fuoco ci rag- giunga. — Ringhiò e balzò su Cordie. Cordie intanto aveva preso la bottiglia contenente l'anima di Eleanor e la stappò. La forma di Eleanor sgorgò dalla bottiglia e formò tutt'intorno un vortice di nebbia. Il verro si fermò con una scivolata sullo scabro pavimento. Altri spiriti ora turbinavano e sfarfallavano, in agitazione per l'avvicinarsi della lava. Il bagliore arancione si era intensificato e il calore era terrificante. — Togliti di mezzo, maledizione! — muggì il verro mentre lo spirito di Eleanor turbinava fra lui e Cordie. Meno di un palmo separava i denti arro- tati del verro dal viso di Cordie, ma la sagoma spettrale bloccava ogni af- fondo del gnigno mostruoso. — Ti è proibito interferire con lei — disse Cordie, con una vocina. — Pele ha così comandato. Kamapua'a ruggì allora a pieni polmoni e pezzi di soffitto caddero a ter- ra. Il verro si girò di colpo e si lanciò verso l'intontito Byron Trumbo. Il bagliore della lava in arrivo illuminò la caverna come un faro arancione. Lo spirito di Eleanor scivolò come argento vivo e si pose fra il mostro e l'uomo. Di nuovo Kamapua'a fu costretto a fermarsi per non violare l'in- frangibile kapu della dea Pele. Tornò a lanciarsi contro Cordie, rimasta in- difesa. La lava divenne visibile dietro di lei, scorrendo oltre la curva in un ardente tsunami di roccia fusa. — Presto — disse la giovane hawaiana. — Al mio fianco. Cordie scattò alla sinistra del verro, Trumbo alla destra. Kamapua'a si lanciò verso Cordie, fu bloccato dallo spirito di Eleanor; si spostò allora per azzannare Trumbo, ma fu di nuovo bloccato. Gli zoccoli del verro e- cheggiarono sulla pietra. I due mortali erano troppo veloci per lui. Prima che il mostruoso maiale riuscisse a girarsi su quelle sue zampe bizzarra- mente sottili, Cordie e il miliardario avevano percorso a razzo gli ultimi venti passi e si erano fermati accanto alla giovane hawaiana. — No!! — gridò il verro e l'eco scosse la caverna più di qualsiasi terre- moto. Kamapua'a abbassò la grossa testa, scalpitò e si lanciò alla carica co- me un toro più grosso del normale in un'arena più piccola del normale. Cordie e Trumbo trasalirono, ma il mostro andò a sbattere contro una bar- riera invisibile a tre palmi dalla giovane hawaiana. La fanciulla alzò le mani. La sue voce era bella come il suo aspetto: O cima del Kilauea! O cinque soglie dell'abisso! Il cielo si sveglia. La terra è sveglia. Il mare è sveglio. Io, Pele, sono la dea. Questo compito è mio. Io porto il fuoco. Io porto la fiamma della vita. E ala e! Fiamme, svegliatevi! Lava, sgorga! Il kapu di stupro e di morte è finito. È tolto. È volato via. Gli spiriti haole svolazzarono intorno a Pele, a Cordie e a Trumbo, come un turbine di fumo, e riempirono l'aria tutt'intorno. Lo spirito di Eleanor ri- fluì nella bottiglia. Cordie la tappò subito. Kamapua'a mugghiò di nuovo. Pietre caddero e crepe si aprirono. La muraglia di lava percorse l'ultima decina di metri a una velocità tale che l'occhio non riusciva a seguirla. Cordie vide le setole del verro prendere fuoco un secondo prima che la lava travolgesse Kamapua'a, e poi si ritrovò acquattata, a occhi chiusi, sen- tendo il calore della roccia fusa, stupita che il suo ultimo pensiero fosse stato un semplice: "Merda!". La lava fluì intorno a loro, con un calore terribile che non fu però il col- po mortale che ci si sarebbe aspettato. Cordie udì l'urlo finale del verro mostruoso, ma non vide se Kamapua'a era stato ridotto in vapore o portato via dal rapinoso fiume di lava. Il magma circondò l'invisibile guscio che li proteggeva, fluì in chiazze nere e arancione. Dietro di loro ci fu un'esplo- sione di vapore quando la lava toccò l'oceano. Poi si sollevarono, la giovane hawaiana a braccia levate, come su un in- visibile ascensore dal fluido movimento, passando attraverso la fenditura e lo sfiatatoio come se cose del genere fossero normalissime. La fanciulla hawaiana abbassò le mani. Cordie batté le palpebre e sentì la brezza salmastra, l'odore della pioggia. La barriera era scomparsa. Die- tro di lei e verso sud la lava scorreva e il vapore sibilava, ma non c'era niente fra loro e il Mauna Pele alcune centinaia di metri verso nord. — Vieni con me — disse Cordie alla fanciulla e dea. — Ho bisogno del tuo aiuto. — Alzò la bottiglia con l'anima fumosa. La giovane hawaiana scosse la testa. — Hai le parole — disse. Protese la mano e toccò la testa di Cordie Cooke Stumpf. — Tu appartieni alla con- fraternita di Pele. Vai. Byron Trumbo si avviò, ma scoprì che le gambe ancora non lo reggeva- no. Si sedette pesantemente sulla pietra levigata. Cordie si accoccolò accanto a lui. — Si sente bene? — domandò. — Sì — rispose Trumbo. Davanti agli occhi aveva puntini luminosi. — Metta la testa fra le ginocchia. Andrà meglio. Trumbo rimase in quella posizione finché non smise di vedere puntini luminosi. — Probabilmente è colpa di questo puzzo maledetto — disse al- zando il viso alla pioggia. — Ehi, dov'è finita? Cordie girò la testa a guardare indietro. La giovane hawaiana era scom- parsa. — È lassù — disse Cordie indicando il bagliore arancione del vulcano. — Su, forza, le darò una mano. — Tirò in piedi Trumbo. — Riporteremo in vita Eleanor — proseguì Cordie — e poi l'aiuterò col suo amico giapponese. Trumbo scosse la testa. — Proprio un bel trucco. Se potessimo brevet- tarlo faremmo una fortuna. — Lei ha già una fortuna — gli ricordò Cordie. Byron Trumbo emise un borbottio. — L'avevo — disse poi. — A que- st'ora i giap saranno in viaggio per Tokyo. Cordie strinse il pugno e batté sulla spalla di Trumbo. — Vuol dire che lei non riuscirebbe a fare di nuovo un milione di verdoni, anche se dovesse fallire domani? Trumbo esitò solo un secondo. — Diavolo, no. So che ci riuscirei. — E sarebbe divertente, no? Trumbo non rispose, ma le rivolse un pallido sorriso che mutò subito in un sogghigno. S'incamminarono verso la Grande Hale. Dopo un po' Trum- bo disse: — Dio Cristo, come puzziamo. Cordie annuì. — Continui a camminare. La pioggia eliminerà la maggior parte del puzzo. In albergo faremo la doccia. — Vorrei avere dei vestiti — disse Trumbo posando delicatamente i piedi scalzi. Cordie gli sorrise. — Da nudo ha l'aspetto giusto — disse. — Per un uomo. 23 Il cielo è costruito. La terra è costruita. Legato e legato, sempre tenuto insieme, irretito nell'oscurità, un gruppo di isole una accanto all'altra si allarga come stormo d'uccelli. In alto balzano i luoghi divisi. Sollevati molto più in alto sono i cieli. Lucidate dallo strofinio, lucerne stanno nel cielo. Ora le nubi si muovono il grande sole si leva nello splendore, l'umanità sorge alla gioia, il mobile cielo è in alto. Dal Kumulipo, canto di creazione Cordie e Eleanor dormirono fino a tardi, indifferenti al rumore di elicot- teri che all'alba atterravano e decollavano e atterravano di nuovo. Alla fine furono svegliate dal cinguettio degli uccelli. Eleanor andò dal divano al letto formato gigante dove Cordie giaceva scompostamente. Cordie indossava ancora la camicia gualcita e i jeans in- dossati la notte precedente. — Buongiorno — disse Eleanor. Cordie aprì a fatica un occhio. Eleanor le porse una tazza di caffè caldo. — Dove l'hai trovato? — domandò Cordie accettando con piacere la tazza. — In cucina c'è una caffettiera. Alcune confezioni singole con filtro. — Si toccò la testa. — Che male! — Già — disse Cordie guardandola. — Ricordi qualcosa di... di ciò che è accaduto? Eleanor riuscì a trovare un sorriso. — Vuoi dire se ricordo di essere morta? Di essere tornata a vivere? — Perse il sorriso. — No. Solo le im- magini da sogno di cui abbiamo parlato ieri notte... stamattina... quel che è. — A parte il mal di testa, come ti senti? Eleanor valutò la situazione. — Abbastanza bene. Ho male alle piante dei piedi. Cordie borbottò. — Le ho dovute schiaffeggiare con forza per far rien- trare nel corpo la tua uhane. Non voleva entrare. Eleanor scosse la testa. — Sai qual è la cosa strana? Non ho mai creduto nell'anima e nella vita dopo la morte. — Nemmeno io — disse Cordie. — Sai una cosa ancora più strana? Non ci credo neppure ora. Cordie sorseggiò il caffè. — So cosa vuoi dire, Nell. Come se qui fossi- mo rimaste impigliate per un poco nell'universo di qualcun altro. Non è come se fosse... reale. Universale. Non riesco a spiegarmi meglio. — Quando mi sono svegliata — disse Eleanor — ho pensato che forse per me sarà dura tornare a insegnare l'Illuminismo. Ma non è vero. Ora per me potrebbe significare molto di più. Cordie sorseggiò il caffè. — Cosa ne dici se mi vesto e andiamo a vedere cosa resta di questo po- sto? — domandò Eleanor. — Buona idea — disse Cordie. Guardò gli abiti spiegazzati. — Sono ve- stita, ma potrei farmi la doccia e trovare abiti puliti. — Ti sei messa un'interessante acqua di colonia. Cordie fece una smorfia. — Eau d'aglìo-acciughe-Lìmburger — disse. — Garantita per respingere gli spiriti. Eleanor tenne aperta la porta. — Non ti ho ancora ringraziata. Cioè, non so come... Cordie la interruppe. — Sai che non devi ringraziarmi, Nell. Lo sai be- nissimo. Eleanor annuì. — Levatrici. Siamo presenti, quando l'altra ha le doglie e ha bisogno. — Già — disse Cordie, finendo gli ultimi sorsi di caffè. — Oddìo, Nell, fai un caffè davvero schifoso. Insieme girarono per l'albergo. Il pianterreno era una confusione di fan- go e di mobili rovesciati. I pavimenti erano cosparsi di rami e di fiori cal- pestati. Colate di lava erano visibili a meno di cinquecento metri verso sud e verso nord ma il comprensorio dell'albergo pareva intatto, anche se reca- va i segni della tempesta. Operai e squadre di soccorso sciamavano da tutte le parti e i rigidi caschi gialli brillavano alla luce del mattino. Il vento del nord aveva spinto verso il mare aperto la nube di ceneri, ma di tanto in tanto una zaffata di zolfo superava il fresco profumo di mare. Telecronisti facevano interviste davanti all'ingresso del Mauna Pele. Cordie e Eleanor si trovarono sotto il naso parecchi microfoni, ma li allon- tanarono e salirono le scale passando davanti ad assonnati uomini della si- curezza. Trovarono Byron Trumbo nella sala da banchetti in rovina. Chi vi era passato aveva lasciato solo distruzione. Il miliardario guardava dalla ter- razza. Indossava calzoncini, una vivace camicia hawaiana e sandali. Era in compagnia di Will Bryant. — Hei, Byron — salutò Cordie. Trumbo le diede un'occhiata. — Non ho dimenticato la notte scorsa. Cordie sorrise. — Me l'aspettavo. Non la dimenticherò neanch'io. Come sta Paul? — L'hanno portato via in elicottero alle prime luci — intervenne Will Bryant. Indossava un completo di lino bianco che a Eleanor fece venire in mente Mark Twain. — Come sta? — domandò Eleanor. — I dottori dicono che si riprenderà — rispose Bryant. — Ormai abbia- mo portato via tutti i feriti. Non ci sono state vittime ieri notte. — E Caitlin, Maya, Bicki? — domandò Trumbo. — Sono scampate al macello di ieri notte? — Sì — rispose Will Bryant. — Merda — sospirò Trumbo. — All'alba se ne sono andate tutte insieme sul jet di Maya — disse Will Bryant. — Con loro c'era Jimmy Kahekili. — Il gigante hawaiano? Perché? — Parlavano di pagare il Fronte di Liberazione Hawaiano perché faccia fuori lei — rispose Will Bryant. Byron Trumbo emise un borbottio. Eleanor si guardò intorno. — E i giapponesi? — Se ne sono andati prima dell'alba! — rispose Trumbo. — Ormai sa- ranno a metà del Pacifico. — Accordo saltato? — domandò Cordie. Byron Trumbo scoppiò a ridere. — Parlano di querelarmi e di chiedere i danni per trentacinque milioni di dollari. — Cosa li ha spaventati alla fine? — domandò Eleanor. — Il terremoto? I disordini? La vicinanza delle colate di lava? Trumbo sogghignò. — Niente di tutto questo, in realtà. Cordie, ricorda quando abbiamo rimesso lo spirito di Sunny Takahashi nel suo corpo? — Certo. — Cordie beveva la seconda tazza di caffè. — Be', l'ho fatto uscire da quella bottiglia di Gallo in tutta fretta e mi so- no dimenticato che dentro c'erano due spiriti. Più tardi, quando ci siamo occupati di Dillon, ricorda quanto fu difficile far rientrare dai piedi quel cazzo di spirito? — Sì — disse Cordie. Will Bryant guardò Eleanor. — Si presume che delle persone razionali ascoltino storie come questa? — Non lo domandi a me — rispose Eleanor. — Sono stata laggiù. — E allora, con 'sti spiriti? — domandò Cordie. Si era cambiata e indos- sava un abitino di cotone bianco che le stava sorprendentemente bene. — Abbiamo scambiato i corpi — disse Trumbo. — Così ho trascinato Sunny dai suoi cari amici, pensando che Sato avrebbe firmato qualsiasi co- sa, dopo; e all'improvviso la voce di Takahashi parla alla maniera di Dil- lon. Poi entra Dillon e comincia a blaterare in giapponese. E poi si scatena l'inferno. I quattro rimasero per qualche istante a osservare la luce del mattino sul- le superstiti palme da cocco. — È riuscito a rimediare? — domandò Cordie. — No — rispose Trumbo accostandosi alla ringhiera e stiracchiandosi. — Dillon e Sunny hanno deciso che il nuovo corpo gli piaceva. Lo prove- ranno per un poco. Will Bryant scosse la testa. Trumbo si girò a guardarlo. — Non ti ho licenziato ieri notte? — Be', in realtà no. Quando i giapponesi si sono spaventati, abbiamo be- vuto qualche bicchiere e lei mi ha detto che mi considerava come un figlio. — Stronzate. — Ne sono sicuro — disse Will Bryant. — Ma l'ha detto lei. Ha detto pure che chiunque avesse accettato di scendere in quella caverna con un maiale da due tonnellate era troppo idiota per lavorare per lei, così non so- no stato licenziato. Trumbo si grattò la testa. — Merda. Eleanor guardò le rovine della sala. — Cosa significa questa storia, si- gnor Trumbo? Dal punto di vista finanziario, voglio dire. Trumbo si strinse nelle spalle. — Dal punto di vista finanziario? Imma- gino che finanziariamente ce l'ho nel culo. Immagino che mia moglie avrà le mie budella per farsene giarrettiere e avrà anche il Mauna Pele. Immagi- no che dovrò cominciare tutto da capo, non dalla gavetta ma da un proces- so per fallimento. — All'improvviso sogghignò a Cordie. — Non è poi il peggiore dei destini, eh? Cordie posò la tazza di caffè. — Non è il peggiore dei destini, Byron. Ma neppure l'unica scelta. Quanto le offriva il gruppo di Sato, alla fine? Trecento milioni? Trumbo rimase sorpreso. — Già. E allora? — Le offro trecentoventicinque milioni e firmo oggi stesso. Byron Trumbo iniziò a ridere, si bloccò. — Paga in contanti? — Se vuole, ma la mia gente suggerisce che un misto di contanti e di certificati azionari andrebbe meglio per tutt'e due. Eleanor guardava, perplessa, Will Bryant contorcersi come toccato da un pungolo per bestiame. — Signora Stumpf da Chicago... Chicago... Cooke? È giusto, Cooke? — Cosa? — disse Eleanor guardando l'improvvisa luce di comprensio- ne, prima sul viso di Bryant e poi su quello di Trumbo. — Cosa? — La Cooke Removal Systems di Chicago — disse Trumbo dandosi una manata sulla fronte. — La maledetta maggiore impresa di smaltimento rifiuti del Nord America. Serve ogni college fra il Nebraska e il Vermont, oltre a metà delle maggiori città. Stumpf... comesichiama... è morto qual- che anno fa e sua moglie dirige l'azienda. Corre voce che l'abbia sempre diretta lei. — Voce giusta — ammise Cordie. — È stata venduta un paio di mesi fa — disse Will Bryant. — Un anno dopo essere diventata pubblica. Tre quarti di miliardo di dollari dalla Ri- chie-Warner-Matsu. — Quella era solo la parte in contanti — precisò Cordie. Si appoggiò al- la ringhiera, accanto a Trumbo che aveva l'aria intontita. — Allora, Byron, che mi risponde? I miei dicono che trecentoventicinque sia un prezzo equo per questo posto. — Si guardò intorno. — Anche considerando che va ri- pulito. Trumbo spalancò la bocca. La richiuse. — Cordie — disse Eleanor — sei sicura... cioè, vuoi davvero entrare nel ramo alberghiero? — Diavolo, no. Ci perderei anche le mutande. Ma non dimenticare cosa ho detto: questo posto sarebbe un ottimo ospedale-barra-centro studi per ammalati di tumore. — Ospedale? — disse Trumbo in tono piatto. — Ospedale? Cordie scrollò le spalle. — Pare che ogni maledetto centro per la cura dei tumori in America si trovi nella vecchia viscida cintura rugginosa. Per- ché non un luogo dove la gente si può abbronzare durante le cure... anche se è destinata a morire? — Già, perché no? — disse tra sé Will Bryant. — Inoltre — proseguì Cordie — l'economia di quest'isola è nella merda. Non migliorerà di sicuro se i locali sono assunti solo come camerieri, aiuto camerieri e addetti alle lavanderie. Se il Mauna Pele fosse una clinica on- cologica internazionale e un centro d'addestramento medico, forse alcuni giovani del posto prenderebbero in considerazione una carriera nella medi- cina. Diavolo, scommetto che la Byron Trumbo Incorporated sarebbe d'ac- cordo a offrire un paio di borse di studio, se la transazione dipendesse da questo. Trumbo la guardò. — Allora, Byron, che ne dici? I miei legali dovrebbero arrivare per l'ora di pranzo. Vuoi preparare le carte, intanto? — Gli tese la mano, larga e piena di calli. Trumbo guardò la mano, guardò Will Bryant, guardò di nuovo la mano e la strinse. Mentre i due uomini discutevano, Eleanor e Cordie presero una tazza di caffè, scesero al pianterreno e percorsero il sentiero ingombro dei resti del- la tempesta, dirette alla spiaggia. Appena sulla sabbia, si fermarono a go- dersi lo spettacolo del sole che danzava sull'acqua chiara e sulle pigre onde di risacca. — Sarà un magnifico posto dove riposare — disse Eleanor. Cordie si limitò ad annuire. — Hai preoccupazioni riguardo... — indicò verso sud. — Kamapua'a? Pana-ewa? Ku? Nanaue l'uomo-squalo? — Sì. Tutti. — No — disse Cordie. Mostrò in un sorriso i denti, piccoli e candidi. — Non credo che vogliano immischiarsi di nuovo con la confraternita di Pele, almeno per qualche secolo. Eleanor sorrise e sorseggiò il caffè. Sentiva sulla pelle la feroce carezza dei raggi del sole. Si tolse i sandali per infilare le dita nella sabbia tiepida. — Nell, hai deciso cosa farai nei prossimi giorni? — Sì. Sono venuta per una settimana di vacanza. Sento di non averla an- cora fatta. Chiederò al nuovo proprietario se mi consente di prolungarla. Cordie si strofinò il labbro. — Ho l'impressione che la nuova proprieta- ria potrebbe addirittura offrirti una stanza omaggio. Potrebbe anche sugge- rire che noi due andiamo a nuotare più tardi e a bere un goccio al Bar del Relitto nel pomeriggio, per ammazzare il tempo. Si tolse a calci le scarpe; le due donne cominciarono a passeggiare lungo la spiaggia curva e bianca, sorseggiando caffè. Eleanor socchiuse gli occhi ed eseguì la sua migliore imitazione di Bogie, quasi con l'esatta balbuzie. — Louie — disse — potrebbe essere l'inizio di una meravigliosa amicizia. — Ti ci puoi giocare il culo — disse Cordie Stumpf, e lanciò un ciottolo al di là dei frangenti, nella tranquilla laguna. Lettera trovata nella costola del diario di zia Kidder: 18 giugno 1905 21 Fifth Avenue New York, N.Y. Signorina Lorena Stewart 3279 W. Patton Blvd. Hubbard, Ohio Cara signorina Stewart, è con grande senso di colpa e con qualche trepidazione che finalmente rispondo al suo gentile biglietto di un anno fa. Come lei sa, proprio un an- no fa, il 5 giugno, domenica sera, a Firenze ho perduto la mia adorata Livy. Capirà inoltre che non è trascorso un solo giorno di quell'anno in cui non abbia desiderato di unirmi a lei. Ma, come tutt'e due abbiamo appreso tanti anni fa nelle bellissime isole Sandwich, i vivi hanno doveri nei riguardi dei vivi e il suo magnifico e ge- neroso biglietto dell'anno scorso mi ha ricordato questo fatto dimenticato. Nella sua lettera mi chiedeva di raccontarle, un giorno, come Livy e io ci siamo conosciuti e come siamo giunti a sposarci. Quel giorno è giunto. Forse ricorda che, dopo la nostra separazione, convinsi il mio giornale a inviarmi in un viaggio intorno al mondo, dal quale mandai le mie prime e imperfette corrispondenze per divertire le moltitudini non lavate. Bene, proprio mentre mi trovavo in Terrasanta, mi accadde di fare amicizia con un giovanotto di nome Charley Langdon. Un giorno Charley mi mostrò una miniatura su avorio, il ritratto di sua sorella, della quale subito m'in- namorai. La vidi in carne e ossa per la prima volta il dicembre successivo. Era esi- le e bella e fanciullesca... fanciulla e donna al tempo stesso. Due anni dopo ci sposammo. Detto così, sembra molto facile, ma il vero amore ben di rado non pre- senta ostacoli. Avevo fatto in modo di trascorrere con i Langdon una set- timana, ma in pratica, durante quella frustrante settimana, non trascorsi nemmeno un minuto da solo con Livy. Fu sulla carrozza che mi avrebbe riportato alla stazione ferroviaria che il Fato colpì col pesante pugno che sappiamo con quanta perizia sappia usare. Pare che il sedile posteriore non fosse stato fissato bene: appena il cocchiere toccò con la frusta il cavallo, Charley e io cademmo all'indietro dalla carrozza. Charley fu l'unico a ri- portare una vera ferita, ma io finsi d'avere una commozione cerebrale e ri- masi svenuto finché non mi portarono in casa e non mi costrinsero a man- dare giù tanta di quell'acquavite da soffocare un cavallo scozzese; ma que- sto non diminuì il mio stato d'incoscienza... pensavo io stesso a farlo per- durare. Per rendere modestamente breve una lunga e dolce storia, riuscii a man- tenere lo stato d'incoscienza finché Charley e l'altra sua sorella smisero d'assistermi e affidarono a Livy il compito di massaggiarmi e inumidirmi la fronte. Cosa che sopportai il più a lungo possibile, prima di battere le palpebre... e allora Livy e io ci salutammo per la prima vera volta. Da questo incidente ottenni tre giorni di proroga che m'aiutarono molto. Di lì a poco il signor Langdon mi chiese lettere di referenza e io gliele for- nii meglio che potevo. Quando il padre di Livy lesse quelle lettere, rimase a lungo in silenzio. Alla fine disse: "Che sorta di persone sono costoro? Non ha lei alcun amico al mondo?" "Evidentemente no" risposi. "Allora sarò io il suo amico. La conosco meglio di loro. Si prenda la ra- gazza." L'anello di fidanzamento era un normale cerchietto d'oro con incisa la data, 4 febbraio 1869. Un anno dopo glielo tolsi dal dito e lo preparai per- ché servisse da vera nuziale, facendo incidere all'interno la data delle noz- ze, 2 febbraio 1870. Da allora non le fu mai tolto dall'anulare, nemmeno per un momento. L'estate scorsa, in Italia, quando la morte riportò sul suo dolce viso la giovinezza svanita e lei giaceva, pallida e bella e con l'aspetto che aveva avuto da ragazza e da sposa, avrebbero voluto toglierle l'anello e conser- varlo per i figli. Ma io mi opposi a quel sacrilegio. L'anello è sepolto con lei. Le racconto questo fatto, signorina Stewart, perché nel trascorrere dei decenni, quando la mia cara Livy aveva domandato (come tutte le mogli prima o poi domandano) se ci fosse stata una rivale alla sua mano e al suo affetto, alla fine le parlai di noi: del profumo di sandalo che dalle foreste giungeva fin sul mare, deHa luce che getta un vulcano e di quanto sia pia- cevole sopravvivere a esso, del nostro sogno di scendere nel regno dei morti per recuperare la uhane del nostro amico reverendo. Mi conforta in parte sapere, senza crederlo, che in qualche luogo lo spi- rito di Livy mi aspetta. E mi ha confortato, signorina Stewart, sapere che la mia fanciullesca de- lusione per il suo rifiuto alla mia balbettante proposta di quel lontano gior- no di giugno era male indirizzata. Mi ha confortato e rallegrato durante gli anni la lettura dei suoi meravigliosi libri di viaggi... ritengo che Piste mai battute in Giappone: la visita di una signora dell'Ohio alla corte nipponica. La vita di una signora dell'Ohio nelle Montagne Rocciose e A dorso di cammello nello sconfinato Sahara e Chiaro di luna siano stati i miei prefe- riti, ma confesso d'avere atteso invano per tutti questi anni un suo libro sul- le isole Sandwich. Io stesso cominciai a scriverne uno, sa? Le mie prime conferenze riguar- davano le isole Sandwich e, trovata una vena così ricca, avevo tutte le in- tenzioni di sfruttarla fino all'esaurimento. Nel 1884 iniziai un romanzo sul- le isole Sandwich... gli antichi sovrani e le antiche consuetudini, la lebbra e l'idolatria, i frivoli missionari cristiani e i bizzarri rituali pagani; ma di lì a poco il racconto fu rapito e inghiottito da una storia più pazzesca che inti- tolai Un americano del Connecticut alla corte di re Artù. Però il racconto delle isole Sandwich è ancora qui da qualche parte; e se queste vecchie os- sa e questa vecchia mente potranno ridestarsi dalla loro artritica sonnolen- za, lo riporterò alla luce e lo inizierò da capo, come già una volta ho fatto per un libro tenuto a lungo da parte, riguardante un ragazzo di nome Hu- ckleberry. Forse detterò la storia a mia figlia Jean, che adesso sta con me. A Jean piace dire che ormai non riesco più a sorprenderla. Signorina Stewart, divago. Ciò che volevo dirle, oltre al ripetuto e since- ro ringraziamento per la sua simpatia e gentilezza nel momento della mia perdita l'anno scorso di questi tempi, era quanto siano divenuti piacevoli, da questa parte dell'oceano della memoria, i ricordi del tempo trascorso in- sieme in quelle ìsole remote. Pur non essendo il viaggiatore che lei è stata, sono riuscito a vedere un poco di questo vecchio triste mondo, nei miei giorni dopo i nostri giorni insieme, e devo dire che nessuna terra forestiera ha avuto per me il profon- do e intenso fascino di quelle isole e che nessuna terra può con tanta forza e tanta continuità tormentarmi, da sveglio o in sogno, per metà della mia vita come quelle isole. Altre cose mi lasciano, ma questa permane; altre cose cambiano, ma questa resta identica. Per me, signorina Stewart, le brezze balsamiche delle isole Sandwich soffiano sempre, i mari estivi risplendono al sole, il rombo dei frangenti mi ronza nelle orecchie; rivedo le rupi inghirlandate, le cascate spumeggianti, le piumose palme che sonnecchiano lungo la riva, le vette lontane librarsi come isole sopra la coltre di nubi; sento lo spirito delle solitarie foreste, odo il mormorio dei ruscelli; nelle mie narici vive ancora il profumo di fio- ri appassiti quasi quarant'anni fa. E in tutte queste visioni, signorina Stewart, vedo il suo nobile e indomito viso. Odo la sua risata piena di sfida. Vedo noi due... giovani, innocenti, non corrotti e non piegati dal tempo... e mi domando se, forse solo se, una volta libera di questi vecchi e decrepiti contenitori, piuttosto che nel cielo cristiano la nostra uhane non possa assennatamente volare alle isole San- dwich. Da parte mia, mi auguro che sia vero. Non credo che lo sia, ma mi augu- ro che sia vero. Penso che mai una più graziosa flotta d'isole abbia gettato l'ancora in qualsiasi altra parte di questo mondo e accoglierei con piacere l'opportunità di ritornarvi in diverso abbigliamento e di presentare Livy a lei e lei a Livy. Troveremmo due amache tutte per noi, per il primo paio di secoli, e parleremmo, mentre guardiamo sprofondare il sole, quell'unico in- truso da altri regni e persistente nel ricordarceli, e concederemmo a noi stessi d'estasiarci nel lusso di stare in quell'aria profumata e dimenticare che ci sia o che ci sia mai stato un mondo diverso da quelle isole incantate. La prego, scriva, signorina Stewart. Conosco il suo stile di prosa. Lo ammiro. Non vedo l'ora di gustarlo ulteriormente. Nel frattempo rimango il suo anziano ma ubbidiente servitore Samuel Langhorne Clemens Ringraziamenti Vorrei ringraziare Tara Ann Forbis per l'aiuto nella lettura delle bozze e per gli acuti suggerimenti. Vorrei ringraziare anche le cortesi persone della stazione balneare Mauna Kea, del villaggio turistico Kona, dell'albergo Hana Maui e del Parco Nazionale dei Vulcani di Hawaii. Le ricerche per questo libro sono state laboriose, ma hanno meritato ogni momento inzup- pato dal sole, schizzato dagli spruzzi, rischiarato dall'arcobaleno. Fonti che mi sono state utili e che potrebbero interessare il lettore in cer- ca di folklore hawaiano comprendono: le venticinque Lettere dalle isole Sandwich di Mark Twain per il Sacramento Union, successivamente ela- borate nel volume Roughing It (Vita dura, 1866); Six Months Among the Palm Groves, Coral Reefs and Volcanoes of the Sandwich Islands (Sei me- si fra i boschetti di palme, le barriere coralline e i vulcani delle isole San- dwich) della viaggiatrice vittoriana Isabella L. Bird (1890); l'affascinante The Burning Island: A Journey Through Myth and History in Volcano Country, Hawai'i (L'isola ardente: un viaggio nel mito e nella storia nel paese dei vulcani, Hawai'i) di Pamela Frierson (1991); The Legends and Myths of Hawai'i (Leggende e miti di Hawai'i) di sua maestà hawaiana Ka- lakaua (1888); Myths and Legends of Hawaii: Ancient Lore Retold by W.D. Westervelt (Miti e leggende di Hawaii: antiche tradizioni rivisitate da W.D. Westervelt, 1913). Esistono molti altri interessanti libri sull'isola di Hawaii e sulla dea Pele, ma quelli sopra citati offrono al lettore interes- sato un buon punto di partenza. FINE